Con la storica sentenza 8 novembre 2016, pubblicata il 21 dicembre 2016, n. 286, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., nonché dall’art. 72 primo comma R.d. n. 1238/1939 (Ordinamento stato civile) ed artt. 33 e 34 D.p.r. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non consente ai genitori – i quali ne facciano concorde richiesta al momento della nascita – di attribuire al figlio anche il cognome materno.
Il fatto
La questione di legittimità era stata sollevata dalla Corte d’Appello di Genova nell’ambito di un giudizio di reclamo avverso il rigetto, da parte dell’ufficiale di stato civile, della richiesta di attribuire al figlio dei ricorrenti anche il cognome materno, in aggiunta a quello paterno.
Più in particolare, l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori, comportava, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., con conseguente compressione del diritto all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.
Veniva, altresì, lamentato il contrasto con gli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., con conseguente lesione del diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro.
Veniva, infine, ravvisata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché alla risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei figli.
La decisione
In apertura del suo intervento, la Corte ha sottolineato di aver già esaminato la disciplina della prevalenza del cognome paterno, al momento della sua attribuzione al figlio.
Ed invero, già nell’ordinanza n. 176 del 1988, espressamente riconosceva che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n. 586 del 1988).
Diciotto anni dopo, con ancora maggiore fermezza, nella sentenza n. 61 del 2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, il Giudice delle leggi evidenziava l’incompatibilità della norma in esame con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale sistema di attribuzione del cognome veniva definito come il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» ma, ciononostante, la questione veniva dichiarata inammissibile, ritenendola riservata alla discrezionalità del legislatore.
Ebbene, a distanza di molti anni da queste pronunce, un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, non è ancora stato introdotto.
Neppure il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, ha scalfito la norma censurata.
Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome – con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.
Pertanto, in assenza di interventi legislativi - allo stato, ancora in itinere – volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli, nella famiglia fondata sul matrimonio resta tuttora preclusa la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre.
Ebbene, con l’importante sentenza in commento, la Corte ha sancito che la preclusione in esame pregiudica il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisce un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
Quanto al primo profilo di illegittimità, la Consulta ha evidenziato la «distonia» della norma censurata rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost.
Ed invero, il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore «profili determinanti» della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.
È proprio in tale prospettiva che la Corte ha, da tempo, riconosciuto il diritto al mantenimento dell’originario cognome del figlio, anche in caso di modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da adozione.
Tale originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno distintivo della sua identità personale (sentenza n. 297 del 1996), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2001). Il processo di valorizzazione del diritto all’identità personale è culminato nella recente affermazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n. 278 del 2013).
In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, nella sentenza Cusan e Fazzo contro Italia del 7 gennaio 2014, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.
Proseguendo lungo le coordinate così delineate, la Consulta ha affermato che «la piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori». Viceversa «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno».
Quanto al concorrente profilo di illegittimità, consistente nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi, il Giudice delle leggi ha sottolineato che «il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.».
Ed invero, come già osservato dai giudici costituzionali sin da epoca risalente, «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970).
Ad avviso della Consulta, la perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno.
Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli – ha concluso la Corte- «in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica».
Sulla scorta del delineato iter motivazionale, la Corte Costituzionale ha dichiarato:
1) l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno;
2) in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno;
3) in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.
L’affermazione del “diritto al cognome materno” arriva dopo anni di accesi dibattiti, sentenze-monito della stessa Consulta e della Cassazione, una condanna del nostro paese da parte della Corte di Strasburgo del 2014 per violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e un ddl approvato dalla Camera nell’estate 2014 e tuttora impantanato in Commissione Giustizia al Senato.
Nel vuoto normativo lasciato dal Legislatore si attendeva una svolta, puntualmente arrivata per il tramite di una sentenza dei giudici costituzionali destinata a passare alla storia.
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