Nel mese di marzo dell’anno scorso, con la sentenza n. 70, la Corte Costituzionale ha fatto breccia nel sistema di risparmio della spesa previdenziale messo a punto dalla riforma pensionistica del 2011, servendo un assist perfetto a tutti i soggetti interessati affinché potessero pregustare il recupero di quei denari non intascati a causa dell’interruzione delle indicizzazioni per gli anni 2012 e 2013. La Consulta si è pronunciata nel senso dell’illegittimità del blocco della perequazione automatica istituito dalla Legge Fornero e rivolto alle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo. Facendo seguito a tale statuizione, l’opinione comune auspicava un aggiornamento d’ufficio disposto da parte dell’Istituto previdenziale a correzione dei trattamenti in questione, sotto il duplice aspetto della restituzione delle quote di mancato aumento annuale in percentuale agli indici istat e della rettifica del valore corrente della prestazione. Tuttavia ciò non è avvenuto.
Oggi, tutti i pensionati titolari di un assegno superiore a tre volte il minimo (si tratta di un reddito complessivo lordo mensile più alto di 1.405 euro per l’anno 2012 e di 1.443 euro per il 2013) hanno l’opportunità di presentare un’istanza all’Inps con l’obiettivo prioritario di interrompere la prescrizione progressiva dei ratei. La richiesta intesa al conseguimento della rivalutazione pensionistica e del rimborso degli arretrati relativi al biennio 2012-2013 (oltre ad interessi e rivalutazione monetaria) si basa sulla pretesa di vedere riconosciuto il proprio diritto all’aumento annuale della pensione in forma integrale, a contrasto del blocco innescato attraverso il Decreto Legge del 6 dicembre 2011. Proprio quest’ultimo, all’art. 24 prevedeva testualmente: “In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della Legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo Inps, nella misura del cento per cento”. È proprio questo inciso ad essere stato dichiarato incostituzionale dai giudici di legittimità. Una conclusione personalmente non condivisibile, a maggior ragione se si considera che tanti continuano a difendere strenuamente le loro rivendicazioni.
Per edificare un parere soggettivo è necessario ricostruire oggettivamente il percorso storico-cronologico, nonché il contesto economico-politico dei provvedimenti che hanno portato fino all’ultimo stadio della vicenda.
La perequazione automatica è lo strumento ideato per adeguare le pensioni al mutare del potere d’acquisto, e focalizzando l’attenzione sulle date più significative, la prima normativa di riferimento risale al 21 luglio 1965. La Legge n. 903 asseriva l’obiettivo di far fronte alla svalutazione sofferta dalle prestazioni previdenziali. Nel 1969 la perequazione veniva agganciata all’aumento percentuale dell’indice del costo della vita calcolato dall’Istituto di statistica, ma solo a condizione che l’aumento fosse risultato superiore al 2%. In caso contrario se ne prevedeva lo slittamento all’anno seguente. Il testo normativo della Legge n. 730 del 1983 attuava un apparato a fasce, a tutela dei redditi più bassi. Così, la quota di rivalutazione spettante doveva seguire percentuali prestabilite: 100% per le pensioni fino a due volte il trattamento minimo; 90% per quelle di valore compreso tra due e tre volte il minimo; 75% per le pensioni più alte. Nel 1992 attraverso il Decreto Amato si procedeva in via del tutto eccezionale alla sospensione parziale dell’indicizzazione. Una scelta maturata in un clima di recessione. Veniva introdotto un parametro di riferimento univoco su base annuale corrispondente all’aumento del costo della vita e da applicare a partire dalla mensilità di novembre. Due anni dopo, il termine di perequazione sarebbe stato spostato al mese di gennaio. La finanziaria varata a fine ’97 poneva un blocco (della durata annuale) alla perequazione dei trattamenti superiori a cinque volte il minimo e prevedeva per i successivi tre anni una rivalutazione ridotta al 30% (anziché al 75%). A partire dal 2001 l’indicizzazione totale veniva estesa alle prestazioni di importo complessivo fino a tre volte il minimo e una novella ancor più benevola avrebbe cambiato la situazione un’altra volta. Dal 2008 infatti, la decurtazione del 25% doveva essere rivolta esclusivamente alle rendite eccedenti l’importo equivalente a cinque volte il trattamento minimo. Nello stesso anno le pensioni superiori a otto volte il minimo pativano l’interruzione dell’aumento annuale e a tal proposito, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi, ne ammetteva il rispetto ai principi dell’ordinamento (diversamente da quanto accadrà nel 2015). Sfumati gli effetti della finanziaria del 2007, rientravano in vigore i parametri pregressi, ovvero: 100% della perequazione per le pensioni fino a tre volte il minimo; 90% per quelle comprese fra tre e cinque volte il minimo; 75% per quelle di importo maggiore. Ed ecco che, giunti al governo Monti, lo stato di crisi era tale da dover optare per il congelamento degli adeguamenti di tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo. Come detto, a questa operazione di importanza non secondaria per le sorti delle casse pubbliche, ha fatto seguito la pronuncia della Consulta. Proprio al fine di evitare o perlomeno di contenere gli effetti scontati di questa decisione, il governo Renzi (con il Decreto Legge n. 65 del 2015, in vigore dal 21 maggio) ha disposto un indennizzo parziale degli arretrati maturati per gli anni 2012 e 2013. Questo provvedimento ha fatto si che l’Inps diffondesse poi le relative istruzioni operative tramite la circolare n. 125 del 25 giugno 2015. È pacifico dunque, che allo stato dei fatti, un eventuale reclamo dei pensionati danneggiati dalla manovra non produrrà l’effetto sperato, salvo si giunga a nuovo verdetto di illegittimità, stavolta del Decreto Legge 65/2015 (e senza ulteriori salvaguardie di legge).
Riprendendo dal rifiuto di alcuni pensionati sfavoriti dalla riforma Fornero, la faccenda è giunta al cospetto dell’organo garante della Costituzione attraverso l’attività del Tribunale di Palermo, della Corte dei Conti per la Regione Emilia Romagna e della Corte dei Conti per la Regione Liguria. Investita della questione di legittimità, la Corte ne ha ritenuto la fondatezza per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, in quanto la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, procurando una discriminazione in danno alla categoria dei pensionati. Ma procediamo con l’analisi attenta di ogni aspetto; il dovuto spirito critico risulterà essenziale per smontare agevolmente le convinzioni della Consulta.
Innanzitutto è importantissimo legare il fatto alla scena. Il fatto è quello dell’interruzione dell’aumento annuale delle pensioni più alte. La scena è quella di una crisi economica che ha dei numeri disarmanti, una condizione che perdura ed è in grado di sfiancare anche i più ottimisti. Le difficoltà appartengono ai pensionati costretti a vivere con una pensione bassa, ai lavoratori autonomi che non esercitano l’attività in maniera continuativa, a chi ha una posizione precaria; le difficoltà appartengono ai cittadini costretti a sopravvivere benché privi sia di pensione che di un rapporto di lavoro. Ma le difficoltà appartengono anche allo Stato, ed è chiaro che la gravità della situazione giustifichi il ricorso a strumenti eccezionali. Non solo. È bene sottolineare che ci troviamo di fronte ad un istituto (quello della perequazione automatica) visto, rivisto e modificato in tutte le sue peculiarità un numero di volte smisurato. Non è certo la prima volta.
Inizia a crollare rapidamente come un castello di sabbia asciutta il disegno di illegittimità perorato dai pensionati ed in parte ammesso dalla Corte. Il presunto contrasto con gli artt. 3, 23, 53 Cost., che sarebbe individuabile nel sacrificio di una sola categoria di cittadini (violando il principio di eguaglianza a causa della disparità di trattamento rispetto ai possessori di redditi analoghi), spinge al paragone con espressioni ascetiche del tipo: “tutti i disoccupati avrebbero il diritto di lavorare” – “se prima il pensionamento avveniva con il calcolo retributivo, allora dovrebbe continuare ad essere così per non indurre discriminazioni” – “come avveniva in passato, si dovrebbe avere la possibilità di andare in pensione prima e con meno anni di contributi”. È fondamentale sottolineare che è proprio la scelta discrezionale del legislatore, cui spetta intervenire per modulare concretamente e di volta in volta gli aumenti annuali, che permette di realizzare la vera uguaglianza (quella sostanziale, ex art. 3, co. 2 Cost.) tenendo alla larga disparità di trattamento.
Si è parlato addirittura di natura tributaria della perequazione bloccata. In questo caso è sufficiente riportare la stessa versione della Corte Costituzionale: “L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura, tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario.”
Per patrocinare la causa degli istanti è stata tirata in ballo perfino la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazione alla supposta violazione del diritto di non discriminazione su base patrimoniale. Ciò nonostante è manifesta la delimitazione della misura ad un breve arco temporale, così come è evidente l’impegno rivolto a salvaguardare le posizioni oggettivamente più deboli.
Un aspetto emblematico si palesa se poniamo a confronto momenti distinti: quello della nascita della perequazione e del suo consolidamento, e quello attuale. Se il fine non era altro che adeguare le pensioni all’aumento del costo della vita, sembrerebbe opportuno chiedersi se i fautori della tesi opposta abbiano dato uno sguardo ai dati statistici relativi all’inflazione nel nostro Paese. Nel 1969 la media annua dell’aumento dei prezzi era del 2,7%, 5% nel 1970 per poi assestarsi su percentuali altissime dal 1973 al 1984, con apice nel 1980, per un valore pari al 21,2%. Nel decennio successivo la diminuzione del potere d’acquisto ha continuato a mantenere livelli buoni (intorno al 5-6%) e tali da giustificare l’indicizzazione dei redditi. Nell’ultimo periodo, invece, l’inflazione è calata sensibilmente fino a raggiungere un risultato avverso mai riscontrato prima: 1,2% nel 2013; 0,2% nel 2014; 0% per il 2015; -0,1% nel 2016. Una deflazione che non si verificava dal lontano 1959!
C’è da menzionare, ancora una volta, che sull’azzeramento della perequazione la stessa Corte aveva già sentenziato nel 2010 rigettando un’analoga questione di legittimità costituzionale. In quell’occasione aveva addotto che “la mancata perequazione per un tempo limitato non incide sulla sua adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato.” In aggiunta, nella stessa circostanza, veniva specificato che solo la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo entrerebbe in collisione con i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Con la sentenza 316/2010 i giudici della Consulta hanno asserito che nel rispetto del ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, il legislatore è tenuto a “dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili” .
Non ci sarebbe nient’altro da aggiungere. Eppure bisogna ricordare e rimarcare che l’art. 24, co. 25, del decreto legge 201/2011, si colloca esplicitamente nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (cosiddetto “salva Italia”) ed opera “in considerazione della contingente situazione finanziaria”. A pochi anni dalla Legge Fornero siamo di fronte all’ottava salvaguardia, all’anticipo pensionistico e alla richiesta di risarcimento della perequazione bloccata. Un insieme di stratagemmi che aggirano e rischiano di eclissare l’obiettivo di risanamento, cioè la ragione della riforma pensionistica che aveva previsto un risparmio per le finanze pubbliche di circa 80 miliardi di euro. Se non tolleriamo la concreta realizzazione dei correttivi predisposti nei periodi meno virtuosi, sarà sempre più difficile crescere sotto ogni aspetto, come cittadini (prima di tutto), come sistema giudiziario, come Paese.
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