La sentenza n. 1321 del 2016 della Corte di Cassazione ha ad oggetto la responsabilità dei genitori per il danno cagionato dall’incapace e, specificatamente, dal figlio maggiorenne incapace di intendere e di volere.
In tali casi, la responsabilità civile ricade non tanto sul genitore, quanto più su colui il quale, indipendentemente dall’essere padre o madre, si sia assunto volontariamente l’obbligo di sorveglianza dell’incapace.
La fattispecie concreta per cui a processo riguardava il caso di un omicidio compiuto da un ragazzo maggiorenne, infermo e socialmente pericoloso, il quale era stato assolto in sede penale perché incapace di intendere e volere al momento dei fatti, a motivo della sua infermità mentale.
Il giovane aveva vissuto a lungo con la madre la quale, non riuscendo più a gestirne la crescita e lo sviluppo psico-fisico, aveva chiesto aiuto al padre del ragazzo, dal quale era separata da tempo.
Indi, l’uomo aveva portato con sé il figlio a vivere in campagna, luogo nel quale il giovane aveva perpetrato l’omicidio di un lavorante.
In primo grado, i genitori sono stati ritenuti entrambi responsabili civilmente dell’accaduto e condannati a risarcire, in solido, i danni patiti al fratello della vittima.
La donna, allora, proponeva appello e la sua richiesta veniva accolta dalla Corte d’Appello, la quale riteneva responsabile solo il padre del giovane in virtù dell’obbligo di sorveglianza sul ragazzo impostogli dalla legge.
L’uomo, allora, ricorreva in Cassazione e la Corte, con la sentenza in esame, respingeva detto ricorso.
Il fulcro della vicenda oggetto di trattazione è la risoluzione della questione giuridica di chi sia civilmente responsabile per le azioni compiute da un soggetto maggiorenne incapace di intendere e volere e, nello specifico, il caso in esame concerne il rapporto tra genitori e figli.
Pertanto, le norme di cui occorre esprime un’esegesi ai fini di una precipua disamina della vicenda sono gli artt. 2047 e 2048 del codice civile.
La differenza che intercorre tra gli articoli appena citati è basata sulla capacità di intendere e volere o meno del soggetto autore del fatto.
Invero, l’art. 2048 c.c. trova applicazione nel caso in cui il fatto illecito sia compiuto da minori capaci di intendere e volere.
Viceversa, l’art. 2047 c.c. si applica nell’ipotesi in cui il fatto illecito sia compiuto da persone incapaci di intendere e volere, minorenni o maggiorenni che siano, e dunque non imputabili ex art. 2046 c.c. .
Le due ipotesi di responsabilità testé menzionate, quindi, sono tra loro alternative e non concorrenti, con ulteriore differente obbligo di adempimento dell’onere della prova.
Invero, i genitori sono responsabili del fatto dannoso commesso dal figlio a norma dell’art. 2047 c.c. quali persone tenute alla sorveglianza mentre, qualora il minore sia incapace di intendere e volere, i genitori rispondono ai sensi dell’art. 2048 c.c., sia come sorveglianti, che come educatori.
Pertanto, nel caso in esame, la disposizione applicabile è incontrovertibilmente l’art. 2047 c.c., poiché il soggetto in questione era maggiorenne ed incapace di intendere e volere, il che riconduce la responsabilità di colui il quale è tenuto a risarcire il danno a quella del sorvegliante.
Quest’ultima configura un’ipotesi di responsabilità diretta e propria, in quanto il soggetto tenuto alla vigilanza risponde per propria colpa, che si estrinseca nell’inadeguata vigilanza sull’incapace.
Inoltre, la responsabilità è aggravata, nel senso che al verificarsi del danno ed individuato chi l’ha commesso, la stessa è presunta a suo carico, a meno che non si riesca a fornire la prova liberatoria, ossia quella di non aver potuto impedire il fatto.
Tale prova, sia in riferimento all’art. 2047 che al 2048 c.c., è molto rigorosa, poiché colui il quale è tenuto alla sorveglianza, per essere esonerato dalla responsabilità, deve provare di non aver potuto impedire il fatto, malgrado il diligente impegno nel dovere di sorveglianza.
Viceversa, ai fini della responsabilità di cui all’art. 2047 c.c., per il danneggiato è sufficiente dimostrare che l’incapace di intendere o volere abbia cagionato il fatto dannoso al di fuori della sfera di sorveglianza del soggetto obbligato alla stessa, mentre grava su quest’ultimo l’onere di dimostrare che detto fatto si sarebbe comunque verificato, anche se la sorveglianza fosse stata comunque esercitata.
Breve, il sorvegliante deve dimostrare l’assenza di nesso causale tra l’omissione ed il fatto dannoso.
Nel caso di cui si tratta, era incontroverso che il padre si fosse allontanato per adempiere le mansioni lavorative, lasciando solo il figlio, disattendendo quindi la prescrizione giurisprudenziale che impone un onere di sorveglianza costante, ininterrotto, non saltuario e non a distanza (cfr. Cass., sent. n. 19060 del 2003).
Inoltre, presupposto della responsabilità ex art. 2047 c.c. non è l’essere genitore, come nell’ipotesi di cui al successivo articolo del medesimo tessuto normativo, ma la sussistenza del dovere di sorveglianza dell’incapace in capo al soggetto chiamato a risponderne.
Ovviamente, i genitori (ovvero i tutori) hanno un dovere di sorveglianza nei confronti del figlio minore e dell’interdetto, fattispecie che rientra nel generale dovere di cura che i genitori ed il tutore sono tenuti a prestare.
Il dovere di sorveglianza sussiste anche in relazione a soggetti cui i minori o gli interdetti sono affidati per ragioni di vigilanza, educazione, istruzione e cura, come maestri, dottori, professori, etc… .
In questi casi, il dovere genitoriale e dei tutori viene sospeso per il tempo dell’affidamento.
Al di là delle previsioni ope legis, l’obbligo di sorveglianza può essere assunto anche volontariamente da un soggetto.
Questo principio viene affermato dalla sentenza n. 1321 del 2016, nella quale i giudici di legittimità si conformano ai precedenti orientamenti in materia.
Tuttavia, occorre porre mente al fatto che, in passato, si ritenesse estensibile il dovere in esame anche a soggetti che non l’avessero assunto per legge o contratto, ritenendo che la presunzione di culpa in vigilando avesse carattere eccezionale e, per ciò solo, fosse insuscettibile di interpretazione analogica.
Tuttavia, successivamente si è ritenuto che il dovere di sorveglianza possa sorgere, oltre che per un vincolo giuridico, anche per una scelta libera e consapevole di taluno.
Nella fattispecie di cui si tratta, il figlio è un soggetto infermo di mente, non ricoverato in strutture sanitarie, e maggiorenne, per cui non ricorre più l’ipotesi di responsabilità parentale.
La Suprema Corte, a riguardo, chiarisce che in seguito al venire meno della responsabilità genitoriale, il genitore non è giuridicamente obbligato ad esercitare la sorveglianza sul figlio né, conseguentemente, è responsabile per gli eventuali danni da quest’ultimo cagionati.
Pertanto, è necessario che ci sia una scelta, consapevole e volontaria, che non richiede obbligatoriamente una dichiarazione formale, ma abbisogna soltanto di fatti concludenti, come può essere la volontà di convivere con un soggetto affetto da infermità mentale.
Indi, è necessario, ai fini dell’insorgenza della responsabilità in capo al genitore, che quest’ultimo abbia assunto il soggetto incapace presso di sé, assumendo così il compito di accudirlo e conseguentemente di controllarlo, con l’aggiunta che tale persona debba essere consapevole delle sue condizioni.
Invero, affinché possa applicarsi l’art. 2047 c.c., bisogna che vi sia la conoscenza dell’incapacità della persona che ha commesso il fatto.
Inoltre, l’ampiezza dell’obbligo di sorveglianza dei soggetti incapaci di intendere e/o volere è da rapportare alla circostanza di tempo, luogo, ambiente e pericolo che, considerando la natura ed il grado dell’incapacità del soggetto sorvegliato, possono consentire o facilitare il compimento di atti lesivi da parte del medesimo.
Nell’applicare i principi generali testé estesi al caso in esame, la Corte di Cassazione, a cagione del fatto che i genitori del soggetto incapace si fossero separati, ed in un primo tempo era stata la madre ad accudire il figlio, specifica che la donna non è responsabile, non tanto perché abbia fornito la prova liberatoria ai sensi dell’art. 2047 c.c., quanto più perché l’obbligo di sorveglianza del ragazzo era stato assunto dal padre che lo aveva portato a vivere con sé, in un luogo distante dall’abitazione materna, il che connota come ne fosse divenuto l’unico responsabile.
Inoltre, la Suprema Corte evidenzia che non soltanto l’obbligo di sorveglianza dell’incapace può essere assunto spontaneamente, ma che allo stesso modo questo può essere rifiutato, decidendo di non prestare più cura ed assistenza all’incapace, così come aveva fatto la madre.
Al fine di dismettere siffatto obbligo, è necessario che chi decida di sottrarvisi individui precipuamente un altro soggetto, persona fisica ovvero istituto specializzato, che si assuma la responsabilità, e ciò tanto per il bene dell’incapace, quanto per quello dell’intera comunità.
In particolare, la Corte di Cassazione specifica che colui che dismette l’obbligo di sorveglianza deve valutare l’idoneità della nuova situazione di convivenza.
Tale verifica deve essere effettuata ex ante, con un giudizio prognostico sulla positività del trasferimento dell’incapace dall’egida di un soggetto a quella di un altro.
Nel caso oggetto di trattazione, la madre viene ritenuta non responsabile perché il padre si era consapevolmente e coscientemente assunto l’obbligo di sorvegliare il ragazzo, portandolo a vivere con sé e, per di più, in una zona bucolica in cui, astrattamente, non avrebbe dovuto arrecare nocumento a nessuno.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento