A norma dell’art. 1325 cod. civ. la causa costituisce uno degli elementi essenziali del contratto, insieme con l’accordo delle parti, l’oggetto e la forma, quando è richiesta a pena di nullità dalla legge. La sua mancanza incide, infatti, sulla validità del contratto, in forza dell’art. 1418, comma 2, cod. civ. che prevede, in tale ipotesi, un caso di nullità strutturale.
Tutti i contratti, nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di quanto avviene negli ordinamenti nordamericani e anglosassoni, sono causali. Ciò significa che non è sufficiente che il contratto sia semplicemente voluto dalle parti contraenti e che sia giusto dal punto di vista contenutistico, poiché esso deve essere sempre anche giustificato. Secondo la ricostruzione dottrinaria tradizionale, in realtà, la causa è elemento essenziale di ogni negozio giuridico che produce uno spostamento patrimoniale, e quindi non soltanto del contratto.
Il principio causale è, pertanto, un principio generale, imperativo e inderogabile, che opera a prescindere dalla bilateralità o unilateralità del negozio. Tale principio trova maggiore rigidità applicativa in caso di contratti ad effetti reali poiché questi, come noto, producono effetti traslativi immediatamente, in virtù del solo consenso prestato. Per quanto riguarda i contratti ad effetti obbligatori, nei quali l’effetto traslativo si realizza, con l’atto di adempimento, soltanto in un momento successivo rispetto all’assunzione dell’obbligazione, invece, di regola, l’esistenza della causa si presume. Vi sono, poi, delle ipotesi eccezionali di negozi astratti, la cui configurabilità è da sempre discussa. Non si tratta, tuttavia, di casi di astrazione totale o assoluta, certamente non ammissibili nel nostro ordinamento giuridico. Trattasi, piuttosto, di fenomeni di astrazione processuale, che comportano soltanto un’inversione probatoria, o di astrazione relativa. Al riguardo, si fa tradizionalmente riferimento ai titoli di credito.
La definizione della causa del contratto non si rinviene espressamente in alcuna norma del codice civile. Sul punto, sono state elaborate diverse teorie.
In passato, sotto la vigenza del vecchio codice, la causa veniva riconnessa all’obbligazione, sulla base del fatto che il contratto potesse essere fonte soltanto dell’obbligazione stessa. La causa del negozio, pertanto, veniva a coincidere con il fine perseguito da ciascuna delle parti al momento dell’assunzione dell’obbligo, e quindi con la sua volontà, e non con il ruolo oggettivo svolto dallo strumento negoziale. Questa teoria finiva per confondere la causa del negozio con i motivi personali, di regola irrilevanti. Progressivamente tale impostazione, prettamente soggettiva, è stata superata, lasciando spazio ad una visione oggettiva della causa, intesa come funzione economico sociale del negozio. La causa viene intesa come ragione economico giuridica del contratto o come sintesi dei suoi effetti, e, quindi, si confonde con la tipicità del contratto, nel senso che ogni schema di contratto disciplina un certo tipo di situazioni ricorrenti nella pratica dei rapporti economici e sociali. A differenza della teoria soggettiva, infatti, quella oggettiva trascura totalmente lo scopo personale perseguito dai contraenti e valorizza soltanto lo strumento utilizzato dagli stessi, sovrapponendo la causa allo schema legale astratto. Seguendo tale impostazione, non potrebbero configurarsi contratti tipici con causa illecita, in quanto la valutazione in ordine alla liceità della causa viene operata dallo stesso legislatore nel momento in cui delinea in astratto lo schema negoziale. In tal modo, pertanto, il problema della valutazione giudiziale in ordine alla illiceità della causa, rilevante ex art. 1343 c.c., sanzionata con la nullità del contratto, si porrebbe solo in relazione ai contratti atipici.
Al fine di superare i limiti posti dalle suesposte teorie, si è giunti a elaborare la concezione della causa concreta, intesa come scopo pratico o funzione economico-individuale del contratto, fatta propria dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., 8 maggio 2006, n. 10490)[1]. Attraverso questa elaborazione della nozione di causa si è passati dalla funzione economico sociale della stessa, propria di tutti i contratti dello stesso tipo, alla funzione, in concreto, perseguita dalle parti del singolo contratto, mediante l’utilizzazione di uno degli schemi tipici previsti dalla legge o il ricorso ad uno strumento atipico, individuato, nell’ambito dell’esplicazione dell’autonomia negoziale, come il più idoneo a regolare i loro rapporti.
Questa teoria ha il merito di aver chiarito il confine tra tipo legale e causa, mantenendo inoltre quest’ultima distinta dai motivi personali, ossia dalle ragioni private che spingono le parti a stipulare un certo tipo di contratto. La causa, pertanto, intesa come sintesi degli effetti che in concreto le parti intendono perseguire soggiace sempre al controllo di liceità imposto dall’art. 1343 c.c., e quindi sia nei contratti tipici che in quelli atipici, perché l’uso di uno schema legale non esclude che l’interesse perseguito dalle parti in concreto sia illecito. La causa è illecita quando risulta contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
La teoria della causa in concreto, inoltre, a differenza di quella della causa in astratto, consente di distinguere il giudizio sulla liceità della causa, esteso a tutti i contratti, da quello sulla meritevolezza ex art. 1322 cod. civ., che, riguardando lo schema ideato dai contraenti, opera soltanto rispetto ai contratti atipici.
Talvolta, nell’ambito della loro autonomia negoziale, le parti realizzare i loro interessi concreti ricorrono a figure contrattuali miste oppure al collegamento negoziale. In questi casi si pone il problema della concreta individuazione della causa, e quindi della disciplina da applicare, che, nel negozio misto, è stato risolto, di volta in volta, secondo la teoria dell’assorbimento o quella della combinazione. L’opinione prevalente ritiene, comunque, unitaria la causa del contratto misto, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di collegamento negoziale, che si caratterizza dalla presenza di una pluralità di contratti dotati di causa propria. Nel collegamento negoziale appare, invece, unitario il programma negoziale e quindi l’operazione economica perseguita dalle parti, quale requisito ritenuto necessario per la considerazione unitaria della fattispecie.
La giurisprudenza, infatti, ritiene che per configurarsi un collegamento in senso tecnico debba sussistere, sul piano oggettivo, un nesso teleologico tra i negozi posti in essere, e, sul piano soggettivo, che ci debba essere la volontà delle parti di perseguire un fine ulteriore rispetto all’effetto tipico dei singoli negozi. La conseguenza pratica del collegamento è che l’invalidità di uno dei contratti collegati si ripercuote anche sugli altri, nel senso che, se il collegamento è bilaterale, l’influenza tra i contratti è reciproca, mentre se si tratta di collegamento unilaterale, solo le vicende del contratto principale si ripercuotono su quello secondario.
Il fenomeno del collegamento negoziale è uno degli strumenti utilizzati nel negozio indiretto, che consiste in un negozio giuridico rivolto a conseguire un risultato ulteriore rispetto a quello tipico. Tale effetto, infatti, si può ottenere sia attraverso un negozio congegnato in modo da realizzare una finalità ulteriore o diversa rispetto a quella tipica, sia attraverso un collegamento tra più contratti. Si discute se il negozio indiretto sia una categoria autonoma di negozio giuridico, con diverse soluzioni, a seconda che si consideri lo scopo indiretto come un mero motivo delle parti, come tale irrilevante, ovvero come vera e propria causa del contratto, intesa come funzione economico individuale dello stesso. Secondo la teoria prevalente il negozio indiretto non è una figura autonoma di negozio unitario, ma è sempre il risultato di una relazione tra due negozi, il negozio mezzo ed il negozio fine. Esso si distingue dal negozio simulato perché il negozio posto in essere è realmente voluto dalle parti, sia pure per realizzare un effetto diverso e ulteriore.
Il ricorso al collegamento negoziale o ad uno schema contrattuale può talvolta avvenire per la realizzazione di un fine non solo ulteriore o diverso da quello tipico, ma anche vietato dalla legge. Si realizza l’ipotesi del contratto in frode alla legge. In tali casi, poiché il contratto diviene il mezzo per eludere una norma imperativa, la causa si reputa illecita a norma dell’art. 1344 cod. civ..
Il contratto mira a “frodare” la legge, violandola indirettamente, cioè aggirandola. Vengono posti in essere atti di per sé leciti, ma al fine di realizzare un risultato vietato dalla legge.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui venga violato il divieto di patto commissorio previsto dall’art. 2744 cod. civ. mediante l’alienazione, e il relativo trasferimento della proprietà, di un certo bene al creditore, da parte del debitore, poiché in realtà questa operazione risulta connessa all’inadempimento di una preesistente obbligazione.
Con riguardo agli elementi caratterizzanti tale tipo di negozio si sono confrontate due diverse linee di pensiero. Secondo un’impostazione prettamente soggettiva, oltre al requisito oggettivo costituito dall’aggiramento del divieto posto dalla legge, è necessario un intento fraudolento dei contraenti, ossia la loro volontà diretta a frodare la legge. Seguendo, invece, la più recente teoria oggettiva, si intende configurato il contratto in frode alla legge allorquando questo, tramite la combinazione con patti aggiunti o procedimenti indiretti, realizzi il medesimo fine vietato da una norma imperativa.
È opportuno, infine, evidenziare come il disposto di cui all’art. 1344 cod. civ., in origine introdotto dal legislatore come valvola di sicurezza, ha nel tempo, secondo l’orientamento prevalente, perso di significato, in particolare alla luce della evoluzione giurisprudenziale avvenuta attorno alla nozione di causa del contratto e all’avvento della moderna teoria della causa in concreto. Come illustrato in premessa, tale teoria impone che avvenga una valutazione circa la liceità della causa volta per volta e in concreto, con riguardo a tutti i contratti, tipici e atipici. In tal modo, in presenza di un contratto tipico con causa illecita verrebbe in rilievo la norma dell’art. 1343 cod. civ. e non la categoria del negozio in frode alla legge, che così facendo rimarrebbe inutilizzata e in essa assorbita. Rimane, tuttavia, identica la sanzione comminata, ossia la nullità del contratto.
[1] Cass. civ., 8 maggio 2006, n. 10490: “La definizione di causa fornita dal codice civile è quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall’ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell’autonomia privata. Tuttavia si discorre da tempo di una fattispecie causale concreta quale sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale. Pertanto, sarebbe nullo il contratto (ancorché tipico) nel caso si verifichi la mancanza di causa in concreto” (…nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal N.).
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