Legittima la sanzione disciplinare applicata dal COA all’avvocato che non presta la dovuta diligenza nello stendere un ricorso e nell’articolare le richieste
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civile, con la sentenza del 14 dicembre 2016, n. 25633, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso dal Consiglio Nazionale Forense.
La vicenda
La pronuncia traeva origine dal FATTO che il consiglio dell’ordine forense di Lucca elevava, a carico di MEVIA, avvocato, la seguente incolpazione: “In violazione degli artt. 8, 12 e 38 del codice deontologico forense, per aver accettato da parte della sig.ra SEMPRONIA l’incarico di agire in giudizio contro il suo ex datore di lavoro, avanti al tribunale di Lucca sezione lavoro, senza averne adeguata competenza e senza adempiere all’incarico con la dovuta diligenza. In particolare precisando nelle conclusioni rassegnate nel ricorso introduttivo del giudizio le domande in modo generico, inammissibile e indeterminato, nonché articolando prove palesemente inammissibili.
Il tutto, come rilevato dal giudice del lavoro nella sentenza n. 153/11 con la quale aveva respinto le domande avanzate dall’avvocato MEVIA per la SEMPRONIA.
Indi, con delibera del 18 maggio 2012, l’Ordine di appartenenza della professionista le applicava la sanzione disciplinare della censura osservando che l’incolpata non fosse stata diligente “prima di stendere e nello stendere il ricorso” e non competente nell’articolare sia le richieste in favore della parte ricorrente che i capitoti di prova, così come emergeva dall’esame diretto degli atti di causa e dalla lettura della decisione del giudice del lavoro.
Per l’annullamento di tale delibera l’avvocato MEVIA proponeva ricorso che era respinto dal Consiglio Nazionale Forense con sentenza del 27 giugno 2015 – 2 maggio 2016.
Il CNF Confermava, infatti, che la violazione deontologica sussisteva in presenza di una prestazione improntata a canoni di faciloneria e superficialità, osservando:
a) che la descrizione dei fatti negli atti introduttivi appariva “confusa disarticolata priva di alcuna linea e sostanza giuridica, con ampi margini di contraddittorietà”;
b) che gli atti contenevano macroscopici e ingiustificabili errori di diritto, quali la richiesta di reintegrazione della lavoratrice in assenza dei requisiti dimensionali aziendali, le richieste di trattamento di disoccupazione e d’infortunio estranee alla legittimazione passiva datoriale (e devolute invece a enti previdenziali);
c) l’articolazione di deduzioni probatorie “in contrasto con le norme attinenti il profilo della producibilità e della coerenza logico-giuridica”.
Per la cassazione di tale decisione l’avvocato Antonella Casamassima ha proposto ricorso affidato a undici motivi.
I motivi di ricorso
Per quanto è qui di interesse, la ricorrente con il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziali (R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 45; Cost., art. 24), circa la presunta genericità e indeterminatezza dei capo d’incolpazione e la presenza, invece, nella delibera applicativa della censura di addebiti non contestati nel capo d’incolpazione.
Con il settimo motivo, denunciando vizio di eccesso di potere, la ricorrente censura la sentenza del CNF laddove travalicherebbe i limiti della propria cognizione soffermandosi su profili civilistici d’inadempimento del mandato professionale devoluti alla regolazione dei rapporti interni col cliente da parte del giudice civile ordinario.
Con il nono motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione illogica (Cost., art. 111; CPC, art. 132 n.4), censura la sentenza dei CNF per inconciliabilità tra la negativa valutazione dell’attività professionale svolta e l’enunciazione della discrezionalità professionale quale fonte irrinunciabile di autonomia e indipendenza del difensore.
La decisione
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, mediante la citata sentenza n. 25633/2016, ha ritenuto infondati i motivi ed ha rigettato il ricorso.
Quanto al primo motivo, le Sezioni Unite precisano che nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense, la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo, invece, sufficiente che l’incolpato, con la lettura dell’imputazione, sia posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 21948 del 2015).
Riguardo al settimo motivo la Cassazione nel ritenerlo infondato ricorda che secondo l’art, 38 cod. deont. “Costituisce violazione dei doveri professionali, il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita”. Il che comporta che la cattiva e/o maldestra esecuzione del mandato difensivo rileva autonomamente sul piano disciplinare indipendentemente da profili civilistici d’inadempimento e danno in pregiudizio della parte assistita. Peraltro dalla lettura della sentenza non pare emergere alcun eccesso o sviamento di potere (art. 56 R.D.L. n. 1578 del 1933), ovverosia l’uso della potestà disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Sez. U, n. 22521 e n. 9287 del 2016).
Quanto, infine, al nono motivo, la Suprema Corte precisa che la presunta inosservanza dell’obbligo di motivazione integra violazione della legge processuale, denunciabile con ricorso per cassazione, solo quando si traduca in mancanza della motivazione stessa, e cioè nei casi di radicale carenza di essa o nel suo estrinsecarsi in argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi.
Nella specie la sentenza impugnata rileva con chiarezza e coerenza che, ferma la discrezionalità professionale nell’attività difensiva, questa si è concretamente atteggiata in una assistenza della sig.ra Claudia Di Miceli davanti al tribunale di Lucca completamente carente.
Avv. Amilcare Mancusi
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