Con l’ordinanza n. 4534 del 22 febbraio 2017, la Suprema Corte ha definitivamente chiarito quali sono i presupposti necessari affinché il giudice possa esercitare la facoltà di liquidazione del danno in via equitativa prevista dall’art. 1226 c.c..
Come già rilevato dalla giurisprudenza maggioritaria, il ricorso alla liquidazione equitativa è consentito qualora sia stata dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d’un effettivo pregiudizio.
In altre parole, è l’impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa.
Al contrario, se l’esistenza stessa di un pregiudizio economico è incerta, eventuale o possibile ma non probabile, l’art. 1226 c.c. non è in alcun modo invocabile.
Ne consegue che, secondo la Corte di legittimità, il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno solo nel caso in cui abbia previamente accertato l’esistenza del medesimo danno, indicando le ragioni del proprio convincimento.
Con riguardo al caso in esame, è dunque ammissibile il ricorso alla liquidazione equitativa del danno patrimoniale consistito nel mancato godimento di un immobile, soltanto se esso sia stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato (dimostrando, ad esempio, l’esborso necessario per alloggiare altrove, ovvero la perdita di canoni di locazione).
Tuttavia, la Corte d’Appello non ha né dedotto né indicato un danno patrimoniale da mancato godimento dell’immobile: con la conseguente assenza di uno dei presupposti fondamentali per il ricorso alla liquidazione equitativa, e cioè l’esistenza certa del danno.
Ove, poi, la Corte d’appello avesse inteso liquidare in via equitativa un danno non patrimoniale da mancato godimento dell’immobile, a parere della Cassazione la risarcibilità sarebbe comunque esclusa: non ricorre infatti alcuna delle condizioni richieste dall’art. 2059 c.c., per la risarcibilità del danno non patrimoniale, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite (v. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008 secondo cui il mero disagio o fastidio non costituisce un danno risarcibile ex art. 2059 c.c.).
Sulla scorta di quanto rilevato, la Suprema Corte ha pertanto affermato il seguente principio di diritto:
“La facoltà per il giudice di liquidare in via equitativa il danno esige due presupposti:
- in primo luogo, che sia concretamente accertata l’ontologica esistenza d’un danno risarcibile, prova il cui onere ricade sul danneggiato, e che non può essere assolto semplicemente dimostrando che l’illecito ha soppresso una cosa determinata, se non si dimostri altresì che questa fosse suscettibile di sfruttamento economico;
- in secondo luogo, il ricorso alla liquidazione equitativa esige che il giudice di merito abbia previamente accertato che l’impossibilità (o l’estrema difficoltà) d’una stima esatta del danno dipenda da fattori oggettivi, e non già dalla negligenza della parte danneggiata nell’allegare e dimostrare gli elementi dai quali desumere l’entità del danno”.
In conclusione, la Corte ha dunque cassato la sentenza della Corte d’appello, la quale avrebbe errato nell’accordare all’attrice il risarcimento del danno da diminuita godibilità del bene nell’arco temporale necessario alle riparazioni, nonostante nessuna prova fosse stata fornita dell’esistenza di tale pregiudizio.
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