L’attività amministrativa consiste nell’insieme di operazioni, atti e comportamenti, posti in essere dalla Pubblica Amministrazione, con lo specifico fine di perseguire un interesse di carattere pubblico, il c.d. bene della vita, posto a fondamento della pretesta umana.
Un’attività di tal guisa ha come unico obiettivo quello di soddisfare gli interessi della collettività, esplicata all’interno di un preciso procedimento amministrativo, che mira all’emanazione di un provvedimento satisfattivo finale.
La PA svolge tale funzione, grazie all’osservanza di norme che regolano l’iter procedimentale e che vincolano l’esercizio della sua azione, sebbene discrezionale, al perseguimento di quel dato fine pubblicistico.
È la legge che stabilisce l’iter giuridico delle singole amministrazioni ed è la stessa legge n. 241/90, a norma dell’art. 1, che sancisce, a chiare lettere, il perseguimento da parte dell’amministrazione dei fini sanciti dalla legge e dall’ordinamento comunitario.
Posto che l’agere pubblicistico è retto dai criteri di economicità, imparzialità, trasparenza e pubblicità, la PA ha il dovere di rispettare le disposizioni legislative, nell’esercizio delle sue funzioni.
Orbene, si comprenderà facilmente come, in un apparato pubblicistico così strutturato, è la legge che coadiuva le amministrazioni al perseguimento dell’interesse pubblico: da qui la vigenza del c.d. principio di legalità, che, come nel settore penalistico, vincola, se pur con una diversa e meno incisiva forza, l’andamento dell’azione amministrativa.
Sebbene non vi sia una specifica codificazione del suddetto, il criterio di legalità è rinvenibile, secondo la più recente dottrina, in varie disposizioni costituzionali, come l’art. 23 Cost., che prevede l’imposizione di ogni prestazione, personale o patrimoniale, in base alla legge; oppure gli artt. 24 e 113 Cost., che prevedono il controllo del giudice, sull’operato della pubblica amministrazione.
Il maggior riferimento al suddetto principio è riscontrabile, in realtà, nell’art. 97 Cost., secondo il quale è la legge a stabilire l’organizzazione, le sfere di competenza e le responsabilità dei pubblici uffici, ferma l’osservanza dei criteri di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Ed è proprio quest’ultimo assunto normativo dell’art. 97 Cost., che fa comprendere la vera sfumatura della riserva di legge nel settore amministrativo: essa ha carattere relativo, in quanto la legge ha il compito di fissare i pilastri dell’azione pubblica, mentre le fonti secondarie, quali i regolamenti di organizzazione, pongono le basi per la normativa di dettaglio da applicare al singolo caso concreto.
Nel corso dell’evoluzione normativa, il principio di legalità della PA è stato oggetto di varie accezioni: inizialmente, la visione era quella debolissima, nel senso che il provvedimento amministrativo, per essere valido, non doveva esclusivamente porsi in una posizione di contraddittorietà con la legge; si passò poi ad una concezione debole, in base alla quale la legge sanciva la validità del provvedimento stesso.
Tuttora vige un’accezione forte del suddetto principio, in quanto la legge deve stabilire la forma e il contenuto del provvedimento stesso, al fine della sua validità.
In realtà, la legalità della PA, nel senso forte, ha raggiunto tale apice grazie all’influenza dell’ordinamento comunitario sui provvedimenti amministrativi, così come sancisce l’art. 1, sopra menzionato, della L. n. 241/90, in virtù dell’adeguamento del provvedimento stesso ai dettami europeistici.
A fronte di tali argomentazioni, risulta alquanto doveroso soffermarsi su una tematica che ben si attanaglia al riconoscimento dei limiti legali, in seno all’esercizio del potere amministrativo: si tratta della possibilità di riconoscere all’ amministrazione la titolarità dei c.d. poteri impliciti.
Quest’ultimi consistono in particolari poteri esercitabili dalla PA, poteri ibridi, i quali, seppur non previsti espressamente dalla legge, sono necessari al fine del perseguimento dell’interesse prefissato; in altre parole, tali poteri sono caratterizzati, al loro interno, da atti e comportamenti amministrativi, non legislativi, ma che manifestano la propria esteriorizzazione in via indiretta, in quanto vengono ricollegati ad atti e comportamenti espressamente previsti dalla legge.
Posto che maggiore sia l’astringenza del principio di legalità nei confronti degli atti amministrativi, minore è la possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di esercitare i poteri impliciti, si pone un problema per l’esercizio degli stessi. Ammettere la loro titolarità alle PA sarebbe contrario al principio di riserva di legge ex art. 97 Cost., che prevede l’esercizio di poteri espressamente previsti dalla legge.
In altre parole, il riconoscimento dei poteri impliciti comporterebbe una deroga alla riserva relativa ex art. 97 Cost. , prevista in tema di emanazione di provvedimenti amministrativi, in quanto la legge deve sancire forma e contenuto dei provvedimenti e non è possibile un rinvio indiretto a poteri non espressamente previsti.
Non è chi non veda come un ridimensionamento della problematica di tal guisa si può ricavare, in primis, dall’ordinamento comunitario.
Difatti, l’art. 352 TFUE deroga alla c.d. clausola di attribuzione dei poteri, prevista dalla legge, con la possibilità per il Consiglio Europeo, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento Europeo, di emanare delle disposizioni per l’esercizio di un’azione necessaria al funzionamento dell’assetto comunitario, esercitando poteri non previsti dai singoli trattati. Più specificamente, è possibile una deroga alla prassi attributiva dei poteri agli Stati membri, qualora, in casi di urgenza, l’azione da perseguire sia necessaria e fondamentale al corretto esercizio dell’apparato dell’Unione Europea, pur in assenza di specifiche attribuzioni di competenza da parte della legge.
In secondo luogo, l’annosa questione circa la possibilità di riconoscere la titolarità dei poteri impliciti alla PA è stata resa più agevole grazie all’emanazione della L. n. 15/05, la quale ha inserito, nel panorama pubblicistico, poteri che già precedentemente erano conosciuti, ma che non erano regolati da alcuna norma legislativa: si tratta dei poteri esercitabili in tema di autotutela amministrativa, con riferimento alla revoca, convalida, sospensione e annullamento dell’atto amministrativo stesso.
Inoltre, significativa in tal senso fu una pronuncia del 2005 del Consiglio di Stato, la quale riconobbe la legittimità di una legge del 1995, attributiva di ulteriori poteri (impliciti), all’Autorità dell’energia elettrica e del gas, relativi alla salvaguardia dell’ambiente, degli impianti e della sicurezza degli addetti.
Si trattò, quindi, di riconoscere all’Autorità suddetta, poteri che scaturivano dalle competenze inizialmente prefissate, in sede di nomina attributiva, i quali potevano ben garantire un miglior funzionamento di tale apparato amministrativo.
Palazzo Spada stabilì, però, il riconoscimento della titolarità a tale Autorità a fronte di una determinata condizione, ovvero che la legge ponesse le basi per gli obiettivi perseguibili dalla suddetta amministrazione, previo rafforzamento delle garanzie procedimentali, al fine di permettere il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati.
Da ciò discende che, la PA può esercitare i poteri impliciti, nel caso in cui è la legge, con i suoi dicta, a stabilire le linee direttrici al perseguimento degli interessi pubblici, dando la possibilità a tutti i soggetti, interessati all’emanazione del provvedimento amministrativo, di partecipare al procedimento in questione.
Un’ ulteriore figura ibrida, sita nell’apparato amministrativistico, è data dalla c.d. legge provvedimento, la quale si inserisce in un quadro in cui vengono riconosciuti, tanto i limiti legali in seno all’azione amministrativa, quanto la discrezionalità dell’azione stessa, in seno al perseguimento dell’interesse pubblico.
Figura ibrida, in quanto essa ha la forma di legge e la sostanza di un provvedimento amministrativo, con tutti gli oneri e tutte le cautele che ne derivano.
Le leggi provvedimento portano con sé una serie di problematiche, in ordine alla loro ammissibilità, agli strumenti di tutela da riconoscergli, ai rapporti con i ricorsi giurisdizionali e a quelli con l’ordinamento comunitario.
Per ciò che concerne la loro ammissibilità, non v’è alcuna disposizione, tanto codicistica, quanto costituzionalistica, che ne vieta o ne restringe l’applicazione: le leggi provvedimento appaiono così pacificamente ammissibili, posto che l’unica prescrizione di indubbio divieto è data dall’oscurità legislativa fornita dagli artt. 71 Cost. e s.s., i quali non affermano esattamente il contenuto e la tipologia di quelle fattispecie, suscettibili di essere disciplinate dalla legge ordinaria.
In ordine agli strumenti di difesa azionabili nei confronti delle stesse, vi è chi sostiene che tali strumenti trarrebbero il proprio valore dal carattere della forma dell’atto, suscettibile di tale azione.
Orbene, secondo tale impostazione, posto che la forma delle leggi provvedimento è quella legale, i contorni degli strumenti di difesa, azionabili nei confronti delle fattispecie stesse, sembrerebbero quelli esperibili davanti al giudice ordinario.
Un discorso in tal senso, però, avrebbe valenza, se si tenesse conto solo della forma e non del contenuto della legge provvedimento, che riveste carattere amministrativo.
A tal proposito, occorre considerare la sostanza pubblicistica delle leggi provvedimento, al fine di garantire ai singoli cittadini una tutela piena e comprensiva di quei rimedi amministrativi non esperibili nei confronti di atti formalmente legislativi.
Il problema è stato risolto grazie alle c.d. leggi di approvazione, intese quali atti che prevedono l’incontro della volontà legislativa con la volontà amministrativa: più specificamente, si tratta di veri e propri atti di ratifica legislativa nei confronti di provvedimenti amministrativi.
Difatti la Corte Costituzionale ha previsto che, in situazioni in cui tali tipologie di leggi- ibride non siano suscettibili di ricorsi di carattere pubblicistico, l’unico rimedio esperibile dal privato, per difendere le proprie pretese, sia quello di rivolgersi alla Corte Costituzionale stessa, intesa quale giudice naturale, che tutela tanto questioni di diritto soggettivo, quanto questioni di interesse legittimo.
In tal modo, viene rispettata sia la forma che il contenuto delle leggi provvedimento, con l’unico limite di ammissibilità della tutela, dato dal rispetto del principio di ragionevolezza.
La legge provvedimento, pertanto, potrà essere suscettibile di una pronuncia della Consulta, solo laddove la stessa non appaia manifestamente iniqua o arbitraria, oppure non aderente all’interesse pubblico correttamente perseguito.
Ulteriori questioni problematiche hanno per oggetto i rapporti tra le leggi provvedimento e la pendenza di un ricorso giurisdizionale, da una parte, e le stesse leggi provvedimento e l’ordinamento comunitario, dall’altra.
Per ciò che concerne la prima tipologia di rapporti, ci si chiede cosa possa accadere, nel caso in cui venga emanata una legge provvedimento, in pendenza di un ricorso giurisdizionale.
A tal proposito, sembrano profilarsi due soluzioni: da una parte, vi è chi sostiene la non ammissibilità dell’emanazione della legge provvedimento, in sede giurisdizionale, poichè ciò cozzerebbe con il carattere legale del ricorso; dall’altra, vi è chi sostiene che l’emanazione della stessa sia possibile, a condizione che non sia intervenuto il giudicato sulla pronuncia giurisdizionale in questione.
Posto che non esiste alcun limite costituzionalmente previsto che vieta l’ammissibilità dell’emanazione della legge provvedimento, in concomitanza con una pronuncia giurisdizionale, la soluzione preferibile è data dall’ammissibilità dell’emanazione della legge provvedimento.
L’unico limite a tale ammissibilità sarebbe dato dalla formazione del giudicato, inteso quale unica prescrizione invalicabile, da parte dell’intenzione legislativa, che risulti in contrasto con quanto deciso in sentenza.
Infine, in riferimento ai rapporti tra legge provvedimento e ordinamento dell’UE, risulta doveroso considerare il caso in cui una legge- provvedimento ratifichi un provvedimento amministrativo, previa applicazione della disciplina normativa comunitaria.
Orbene, ai fini dell’ammissibilità, sul piano comunitario, della legge provvedimento, sarà necessario verificare la compatibilità di quest’ultima con l’ordinamento dell’Unione Europea.
In altre parole il giudice nazionale, terzo ed imparziale, dovrà garantire la corretta aderenza della fattispecie “legislativa – provvedimentale” ai dettami comunitari, fermo restando, nei casi contrari e di relativa competenza, la perentoria disapplicazione dell’atto legislativo, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Il provvedimento nazionale, ostativo delle libertà comunitarie, sarà giustificabile dalla giurisprudenza europeistica, nel caso in cui sussistano quattro condizioni: il provvedimento nazionale, (in questo caso la legge provvedimento) , non sia discriminatorio; persegua interessi imperativi di carattere pubblico; abbia come obiettivo il conseguimento dello scopo prefissato; vengano evitate, in sede di conseguimento dell’obiettivo, eventuali ed inutili eccedenze.
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