Anna Paola Lacatena, dirigente sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche ASL TA, è coautrice con Giovanni Lamarca del libro “Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli
uomini liberi”, Carocci, 2017 (prefazione di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso). Clicca qui per visualizzare la copertina del volume.
È noto come il timore del crimine non sempre sia in proporzione al rischio criminale. Negli ultimi anni, infatti, se la criminalità si è mantenuta entro limiti e tassi di sviluppo “fisiologici”, la paura è cresciuta.
Tra il 2006 e il 2014 gli omicidi volontari sono diminuiti da 621 a 475. Gli omicidi colposi da 2.148 a 1.633 i sequestri di persona da 1.608 a 1.278. le violenze sessuali da 4.513 a 4.257. Sfruttamento della prostituzione da 1.422 a 1.100. Furti da 1.585.201 a 1.573.213. Rapine da 50.270 a 39.236 (Fonte XII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, aprile 2016).
A tal proposito nell’VIII Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa della DEMOS&PI e dell’Osservatorio di Pavia, pubblicato nel febbraio del 2015, si legge che rimane molto elevata la percezione di un aumento dei reati.
Nonostante una buona parte della risposta aggressiva nasca dalla paura, taluni avvertono il «bisogno di convincersi che l’avversario non è un nostro simile, bensì un essere abominevole, iniquo, etc.; si rende necessario un indottrinamento che eriga delle barriere alla comunicazione ed estranei dalla realtà, fino al delirio.» (Oliviero Ferraris, 1998, p.83).
Evidentemente, sulla scorta di leggi e decreti varati sull’onda emotiva dettata da fatti di cronaca o da interessi ad personam, non si può nascondere che nel carcere non trovano esecuzione della pena (quando anche trovano pena) i cosiddetti white collars, i politici e quanti possono garantirsi roboanti principi del foro. Di fatto il sistema sembra orientare attenzione (o meglio disattenzione) e paure verso i piccoli delinquenti con il risultato di sovraffollare le carceri, non senza sperequazioni e innegabili ingiustizie difensive rispetto al permanere dello status quo.
Oggi il potere politico sembra cercare una pur debole legittimazione attraverso meccanismi sempre più tautologici: «Spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze di globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono far altro che scegliere con cura i bersagli che sono presumibilmente in grado di contrastare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche» (Bauman, 2005, p. 72).
In una sorta di esausto tentativo di scaricare ansie collettive e ridarsi una definizione, lo Stato canalizza e orienta il diffuso timore verso quelle vite che finiscono per vedere erosa ogni possibilità di rientrare in un sistema che non sia quello più conosciuto e già subito dello «scarto» (ibid.).
Piuttosto consueta è l’associazione tra marginalità sociale e criminalità che, nonostante siano categorie eterogenee e ampie, finiscono per incrociarsi solo per alcune specifiche tipologie. Si tratta soprattutto di criminalità di strada, ossia di reati minori contro il patrimonio, piccole aggressioni, danneggiamenti, spaccio che, però, considerata l’amplificazione mediatica, incontrano le paure della gente che si considera a riguardo più esposta ad assumere il ruolo di vittima, alimentando quel populismo che considera le risposte istituzionali incapaci di reale.
Goffman aveva precisato nel suo testo più noto, Asylums (1968), come la costrizione detentiva implica la perdita del senso di sicurezza, l’incertezza rispetto al proprio benessere e alla propria incolumità. Inoltre, la stessa condizione induce nel ristretto l’innalzamento del cosiddetto orizzonte clinico, ossia «si verifica quel fenomeno per il quale i sintomi normalmente sottovalutati nella vita libera, diventano, nella vita coatta, drammaticamente attuali e rilevanti per il detenuto» (Buffa, 2013, p. 153).
La carcerazione, l’impatto dell’arresto, il susseguirsi di attese, i rimandi, le aspettative, la perdita degli affetti, la negazione del corpo, i conflitti interni con gli altri ospiti e con il personale meriterebbero un’azione più complessa e articolata di promozione della salute e implementazione dell’empowerment personale e collettivo, mentre il più delle volte sono aspetti lasciati all’autogestione, all’ascolto di operatori sensibili o alle reti informali di solidarietà e mutuo-aiuto tra ristretti.
Va precisato, però, il frequente ricorrere, attraverso risposte più mosse dall’irrazionalità e, di conseguenza, assai poco adattive, alla sostituzione della paura endogena con quella esogena. Quando non c’è razionalizzazione del percepito, più comoda appare la strada dell’esternalizzazione e della ricerca del capro espiatorio, in quella che diviene una sorta di collettiva proiezione.
Se pur non è possibile, e non solo nell’ambito delle scienze sociali, definire con piena certezza e generalizzabilità l’origine delle devianza, non è difficile comprendere a cosa può essere utile la paura della stessa.
Se l’irrazionalità è di per sé più apparente che reale, la stessa si offre opportuna e comoda non già a contrastare il crimine ma più strumentalmente a manipolare e orientare il consenso.
Bibliografia
Bauman Z. (2005), Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari.
Buffa P. (2013), Prigioni. Amministrare la sofferenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
Goffman E. (2001), Asylums: le istituzioni totali. I meccanismi dell’esclusione e della violenza, Edizioni di Comunità, Torino.
Oliverio Ferraris A. (1998), Psicologia della paura, Bollati Boringhieri, Torino
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