In ordine alla disciplina del concorso di norme nel diritto penale, giova sin da subito rilevare che nel nostro ordinamento si suole distinguere tra concorso di reati (disciplinato dagli artt. 71 e ss. cp) e concorso apparente di norme.
Tracciare tale netta linea di demarcazione appare di fondamentale importanza, in quanto solo in relazione al concorso di reati si applica il cumulo materiale o giuridico tra le pene: in tale evenienza, infatti, si è al cospetto di plurimi reati commessi dall’agente e l’indagine dell’interprete dovrà essere focalizzata nell’individuazione di un eventuale concorso formale o reato continuato (ipotesi in cui si applicherà il cd. cumulo giuridico tra le pene), ovvero nell’individuazione di reati che, in relazione alle circostanze in cui si siano consumati, non consentano alcun cumulo giuridico e per i quali avrà luogo, pertanto, l’applicazione del cd. cumulo materiale tra le pene, nei limiti previsti dall’art 78 cp.
Qualora il concorso tra norme sia solo apparente si è al cospetto di un unico reato, cioè il caso concreto sottoposto al vaglio del giudicante è astrattamente sussumibile nella fattispecie astratta prevista da più norme, ma, in concreto, solo una di queste è applicabile: non trova applicazione, quindi, né il cumulo giuridico né il cumulo materiale tra pene, bensì unicamente la sanzione penale prevista dall’unica norma penale in concreto applicabile.
Il concorso formale e il reato continuato sono disciplinati dall’art. 81 c.p., alla cui stregua è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge (concorso formale eterogeneo), ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge (concorso formale omogeneo). Al secondo comma, la predetta disposizione codicistica soggiunge che alla stessa pena soggiace chi, con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa legge (reato continuato omogeneo), ovvero di diverse disposizioni di legge (reato continuato eterogeneo).
Sul versante dell’inquadramento dogmatico, la dottrina maggioritaria propende nel ritenere che, nelle ipotesi di concorso formale o reato continuato, il reato vada considerato come unitario solo in relazione all’applicazione della pena. La natura giuridica di reato unitario viene negata in riferimento a tutti gli ulteriori aspetti di rilevanza penale: si ponga mente, a mero titolo esemplificativo, alla disciplina della prescrizione o dell’amnistia, in cui, come è noto, nella specie ogni singolo reato assume rilevanza ex se.
In riferimento alla ratio legis della disciplina di cui all’art 81 cp, è pacifico come essa affondi le proprie radici nell’opportunità di evitare che ad un soggetto che abbia manifestato minore pericolosità criminale si debba applicare il cumulo materiale, dando luogo, per converso, al cumulo giuridico delle pene (la cui somma non può essere mai superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli artt. 71 e ss. cp). Il legislatore ha ritenuto, infatti, che chi si determina a commettere diversi reati mediante un’unica azione o sulla base di un unico disegno criminoso debba andare incontro ad una pena inferiore rispetto a chi, ponendo in essere diverse azioni criminose o più disegni criminosi, dia dimostrazione di una maggiore pericolosità sociale e criminale: la pluralità di azioni o di disegni criminosi è indice, pertanto, di una maggior disvalore sociale del fatto; disvalore che, allora, non potrà non condurre verso una più severa risposta punitiva da parte dello Stato.
Talvolta, però, come si è anticipato in precedenza, il concorso di norme è solo apparente e, quindi, il reato commesso dall’agente è unico, non solo quoad poenam: in tale evenienza non troverà applicazione la disciplina prevista dagli artt. 71 e ss. c.p, né, ovviamente, quella di cui all’art 81 c.p.
Nell’elaborazione accademica si registrano diversi criteri discretivi in ordine all’indagine preordinata all’individuazione di un concorso reale o apparente tra norme: taluni autori propendono per l’unicità del criterio di specialità, mentre talaltri, a quest’ultimo criterio, aggiungono altresì i criteri di consunzione (o di assorbimento) e di sussidarietà.
L’unico di tali canoni ad essere disciplinato dal legislatore è quello di specialità, mentre gli altri due sono il frutto di elaborazioni dottrinali che, come sempre accade, sono state poi recepite in via pretoria.
Alla stregua di quanto statuito dall’art. 15 c.p., quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.
Tale disciplina, oltre ad aver attribuito veste legislativa al noto brocardo lex specialis derogat lex generali, ha suscitato non pochi problemi interpretativi, soprattutto in riferimento al significato da attribuirsi all’espressione “stessa materia”.
Com’è noto, in letteratura si suol ritenere una norma speciale rispetto ad una generale allorquando essa presenti tutti gli elementi costitutivi di quest’ultima più ulteriori elementi che tendono a specificare la disciplina contenuta nella norma generale (in tale evenienza si è al cospetto della cd specialità per specificazione), ovvero allorchè contenga ulteriori elementi integrativi della disciplina contenuta nella norma generale (nella specie, la dottrina maggioritaria parla di specialità per aggiunta). Un esempio di specialità per specificazione può essere rinvenuto nel rapporto tra il delitto di violenza privata (art 610 c.p.) e il delitto di violenza o minaccia per costringere a commettere un reato (art 611 c.p.). Il classico esempio riferito alla specialità per aggiunta è fornito dal rapporto tra il reato di sequestro di persona (art 605 c.p.) e il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (art 630 c.p.).
Secondo una risalente impostazione dottrinale, affinchè si possa applicare il criterio di specialità ex art 15 c.p. è necessario che le norme generali e speciali siano poste a presidio del medesimo bene giuridico sotteso alle norme penali incriminatrici, mentre, in difetto di tale identicità di interessi giuridici, dovrà necessariamente trovare applicazione il concorso tra norme e, quindi, il concorso di reati.
Tale ricostruzione, sin dai primi tempi della sua elaborazione, aveva suscitato non poche perplessità, se non altro perché escludeva il criterio di specialità in relazione ad una molteplicità di casi in cui, da più parti, non si dubitava del rapporto di species a genus in relazione alle fattispecie astratte di riferimento: si pensi, per esempio, ai reati di oltraggio a magistrato in udienza (art 343 c.p.) ed ingiuria (art 594 c.p.), i quali, pur tutelando beni giuridici differenti, presentano un indiscusso rapporto di specialità.
Ben presto, allora, l’elaborazione accademica cambia rotta, proiettandosi verso sentieri meno tortuosi: è nel confronto delle fattispecie astratte che va individuato un eventuale rapporto di specialità, si inizia a predicare. Sul versante operativo, si assiste, pertanto, alla costruzione di nuove fattispecie di specialità, dapprima sconosciute sul piano pretorio: si pensi, tornando all’esempio precedente, al rapporto tra il reato di oltraggio a magistrato in udienza e il reato d’ingiuria, ovvero al rapporto tra il reato di truffa (art 640 c.p.) e millantato credito (art 346 c.p.).
Si inizia, quindi, a prescindere dall’interesse giuridico presidiato dalle norme incriminatrici e a proiettare lo sguardo verso l’individuazione di elementi (per specificazione o per aggiunta) caratterizzanti un evidente connotato di specialità.
Tale operazione dogmatica da ultimo evidenziata, ove riferita alla cd. specialità unilaterale, non pare sia suscettibile di sortire problemi esegetici di sorta: maggiori problematiche ermeneutiche, per converso, suscita il cd. rapporto bilaterale di specialità.
Per una maggiore comprensione di tale questione giuridica, sembra opportuno, dapprima, tentare di offrire una nozione di rapporto di specialità bilaterale, salvo poi dar conto delle varie soluzioni al problema prospettate nell’ambito dell’attuale panorama dottrinale.
Per rapporto di specialità bilaterale può intendersi il confronto tra fattispecie astratte che presentano, l’una nei confronti dell’altra, vari elementi di specialità, di talchè, al comune denominatore rappresentato dagli elementi costitutivi comuni alle relative fattispecie criminose, si aggiungono ulteriori elementi (per specificazione o per aggiunta) suscettibili di attribuire ad ogni singola fattispecie astratta la connotazione di specialità.
In tale eventualità diventa davvero difficile per l’interprete individuare la norma speciale rispetto alla norma generale, se non altro perché ogni fattispecie astratta presenta elementi di specialità rispetto alla fattispecie astratta con cui va posta in confronto.
Varie le soluzioni dottrinali per superare l’impasse, tra cui spicca autorevolmente la ricostruzione di un noto giurista il quale propone di ritenere speciale la norma penale che presenta un maggior connotato di specialità rispetto all’altra, nel senso che è contraddistinta da maggiori elementi di specialità.
Anche per ovviare ai problemi insiti nel rapporto di specialità bilaterale, numerosi studiosi iniziano ad ingegnarsi e a sperimentare eventuali vie di fuga che possano consentire di evitare la prospettazione di un concorso di reati in tutte le ipotesi in cui, per i noti principi del favor rei e del ne bis in idem, sia possibile rifugiarsi dietro il paravento del concorso apparente tra norme.
Ed ecco affacciarsi sullo scenario dell’ermeneutica penalistica il noto canone della consunzione (detto anche dell’assorbimento), alla cui stregua non troverà applicazione il concorso di reati in tutte le ipotesi in cui si sia al cospetto di una norma consumante ed una consumata e ad una commissione di reati posti in essere in progressione, di talchè, secondo l’id quod plerumque accidit, alla commissione dell’uno, in linea di principio, non può che seguire la commissione dell’altro: si pensi al possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (art 707 c.p.) e al successivo furto o, ancora, all’incendio doloso (art 423 c.p.) seguito dal crollo doloso (art 434 c.p.). In tali circostanze si ritiene che la norma consumata (nell’esempio: furto o crollo doloso) comprenda in se il disvalore sociale della norma consumante (nell’esempio: possesso ingiustificato di chiavi o di grimaldelli, ovvero incendio doloso).
Molte le critiche avanzate contro tale teoria; la stessa Corte regolatrice, pur recependo in taluni pronunciamenti alcune delle riflessioni fatte proprie dai fautori di tale orientamento, tende, in via generale, a considerare solo il principio di specialità, quale criterio dirimente in ordine al concorso apparente di norme: il criterio di consunzione – rileva la Suprema Corte – non ha alcun addentellato normativo di riferimento; è frutto dell’elaborazione dottrinale, ben attenta al rispetto del canone del ne bis in idem, ma non è ossequioso del principio di legalità, in quanto si pretenderebbe di applicare un’unica fattispecie astratta (e quindi un unico reato) nelle ipotesi in cui il legislatore ha previsto un concorso di reati: si pensi, appunto, all’agente che sia trovato in possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (art 707 c.p.) subito dopo aver commesso un furto. Si predica che, nella specie, il codificatore abbia inteso punire l’agente in ordine a tutti e due i reati commessi, per i quali è prevista una disciplina a se stante: opinare in senso contrario significherebbe violare il principio di legalità. A sostegno di tale assunto, gli autori contrari all’applicazione del principio di consunzione, evidenziano che quando il legislatore ha inteso non operare il concorso di reati lo ha fatto espressamente, come nell’ipotesi di cui all’art 84 c.p., alla cui stregua non si applica il concorso di reati quando la legge considera come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero per se stessi reato ( si ponga mente al reato di rapina, ex art 628 c.p., ovvero all’omicidio aggravato dalla violenza sessuale – art 576 n 5-). Il reato complesso ex art 84, secondo l’impostazione maggioritaria, rappresenta, allora, l’unica ipotesi di consunzione legale che possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico.
La stessa Corte regolatrice, supportata dalla dottrina maggioritaria, per le stesse considerazioni dianzi riportate, tende a ripudiare finanche il principio di sussidarietà, consentendone l’applicazione solo quando sia lo stesso legislatore ad ammetterlo (cd. sussidiarietà esplicita).
Una norma è da considerarsi sussidiaria rispetto ad un’altra (primaria) quando il legislatore contempli la sua applicazione solo nei casi in cui non si debba ricondurre il fatto concreto nella sfera di disciplina della norma primaria: la norma secondaria, pertanto, entra in gioco solo in via sussidiaria, cioè nell’eventualità in cui il fatto concreto sottoposto al vaglio del giudicante non sia sussumibile nella fattispecie astratta della norma primaria. La sussidarietà è richiamata dallo stesso legislatore mediante formule codificate, ricorrenti in diverse fattispecie: si pensi, a mero titolo esemplificativo, al delitto di cui all’art 544quater, a tenore del quale “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da euro 3.000 a euro 5.000. Ebbene, nell’esempio, la formula “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” richiama proprio il principio di sussidiarietà e consente di applicare tale fattispecie (quella contemplata nell’art 544quater c.p.) solo in via subordinata e cioè nelle ipotesi, appunto, in cui il fatto concreto non sia riconducibile nella sfera di disciplina enucleata da un reato ancor più grave, cioè da un delitto che presenti una maggior pena edittale applicabile.
Le considerazioni finora svolte, in ordine ai criteri dirimenti riferiti al fenomeno del concorso apparente di norme, consentono di addentrarsi nella disamina di un’ulteriore tematica giuridica molto dibattuta e sulla quale tutt’oggi si registrano accesissimi contrasti giurisprudenziali: il riferimento è al concorso tra norma penale e norma sanzionatoria amministrativa.
Il fondamento normativo è da rinvenirsi nell’art 9 della legge 689/81, in forza del quale quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
Com’è noto, tale disciplina s’inserisce nel solco tracciato dalla cd. rivoluzione copernicana della depenalizzazione, mediante la quale il legislatore, sin dall’inizio degli anni 80, si è preoccupato di sfoltire l’ingente mole di reati presenti nel nostro ordinamento giuridico.
Alle modifiche al sistema penale, introdotte con la legge 689/81, hanno fatto seguito molteplici ulteriori interventi finalizzati a deflazionare il numero di reati e contravvenzioni: si pensi alla trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi (l 561/93), ovvero alla nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto (d.lgs. 74/2000).
Il legislatore ha previsto, pertanto, che allorchè un fatto concreto sia sussumibile contemporaneamente, e in astratto, nella sfera di disciplina di una norma penale e di una norma amministrativa, si applica solo ed esclusivamente una delle due norme che, rispetto all’altra, presenti elementi di specialità: è evidente, però, come lo stesso codificatore postuli che tra norma penale e norma amministrativa debba esistere un rapporto di species a genus. Solo in tale circostanza non troverà applicazione il concorso tra sanzione penale e sanzione amministrativa e si potrà procederere con il ricondurre il fatto concreto all’interno della fattispecie normativa speciale.
I criteri d’indagine, onde valutare se si sia al cospetto di un concorso reale o apparente tra norma penale e norma amministrativa, sono i medesimi di cui si avvale l’interprete in relazione al concorso apparente tra norme penali: si allude, come è ovvio, al criterio di specialità unilaterale o bilaterale (per specificazione o per aggiunta).
Sul versante pratico, il principio di specialità tra norma penale e norma amministrativa, ha destato non poche perplessità operative, dando vita ad una molteplicità di contrasti giurisprudenziali.
Una delle questioni più dibattute, in relazione alla tematica che ci occupa, è senza dubbio l’acquisto di prodotti contraffatti, ovvero di prodotti che costituiscono il frutto del reato di cui all’art 474 c.p. rubricato “introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”.
Nella specie, in ordine all’acquisto di prodotti contraffatti, sono in astratto applicabili il delitto di ricettazione di cui all’art 648 c.p., la contravvenzione ex art 712 c.p. (“acquisto di cose di sospetta provenienza”), ovvero la sanzione amministrativa contemplata dall’art. 1 comma 7 del d.l. 35/2005, convertito nella legge 80/2005, alla cui stregua è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne accertata prima la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre, ovvero per l’entità del prezzo, facciano ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale.
Occorre sin da subito precisare che tale disposizione è stata modificata dalla legge n 99/2009 che ha abrogato l’inciso iniziale che prevedeva l’applicazione della sanzione amministrativa de qua solo nelle ipotesi in cui il fatto non costituisse reato, ed ha provveduto, quindi, ad abolire la clausola di sussidiarietà che permetteva una limitata applicazione della disposizione amministrativa, solo nei casi in cui il fatto concreto non fosse sussumibile nella sfera di disciplina di cui al reato contravvenzionale ex art 712 c.p. ovvero nell’eventualità in cui non fosse riconducibile nell’orbita gravitazionale del più grave delitto di ricettazione, ex art 648 c.p.
Prendendo le mosse dall’abrogazione dell’inciso “salvo che il fatto non costituisca reato”, un orientamento pretorio (fatto proprio finanche dalla Corte regolatrice nella sua massima espressione nomofilattica) evidenzia come l’obiettivo del legislatore affondi le proprie radici nella necessità di applicare il principio di specialità ex art 9 l. 689/81 in favore dell’illecito amministrativo (con esclusione del concorso del reato contravvenzionale ex art 712 c.p. o del delitto di ricettazione ex art 648 c.p.) in tutte le ipotesi in cui taluno, a qualsiasi titolo, acquisti prodotti contraffatti, a prescindere, pertanto, dallo stato di dolo o di colpa in cui versi il soggetto agente.
Tale orientamento, a sostegno delle proprie riflessioni, adduce argomentazioni di ordine letterale, teleologico e sistematico: in primis, si sostiene che dalla stessa littera legis è facilmente deducibile il chiaro intento del legislatore di voler agevolare l’applicazione della sanzione amministrativa, in luogo della sanzione penale, in tutte le ipotesi in cui si concreti l’acquisto di prodotti contraffatti, senza averne accertata prima la legittima provenienza, e in secundis si evidenzia che, opinare diversamente, condurrebbe ad una evidente discrasia sistematica: la disciplina relativa alla disposizione in esame, lungi dall’atteggiarsi come una mera ipotesi eccezionale di applicazione del principio di specialità in favore della sanzione amministrativa, si inserisce, a ben vedere, in quel binario delineato negli ultimi trent’anni dal legislatore; binario che conduce inesorabilmente verso una meta tanto necessaria quanto ricercata: si allude al lungo, incessante e ancora in fieri processo di depenalizzazione.
Ed infatti, ancorchè la disposizione normativa delineata dall’art. 1 comma 7 del d.l. 35/2005 -convertita nella legge 80/2005 e modificato dalla legge 99/2009 – non abbia ex professo operato alcuna depenalizzazione, è comunque evidente come essa, in linea generale, abbia l’intento di agevolare l’applicazione della disciplina speciale ivi enucleata, in luogo dei reati astrattamente ipotizzabili.
Si assume, pertanto, che non ha pregio il contrario orientamento (invero minoritario) che tende ad operare una distinzione in base allo stato di dolo o colpa in cui versa il soggetto agente: ritenere necessariamente applicabile il reato di ricettazione in tutte le ipotesi in cui l’agente agisca con dolo intenzionale, diretto o finanche eventuale, costituisce operazione giuridica del tutto avulsa dal contesto normativo di riferimento, si opina. Oltre a contrastare con la ratio legis più volte rammentata, tale tesi è ripudiata dal dato normativo che expressis verbis punisce con la sanzione amministrativa “l’acquisto o l’accettazione, senza averne accertata prima la legittima provenienza, a qualsiasi titolo(…)“
Inoltre – si soggiunge – ritenere applicabile la predetta sanzione amministrativa solo nelle ipotesi in cui il reato venga commesso con negligenza o imprudenza, svuoterebbe di significato la stessa norma speciale che finirebbe, in tal modo, per non essere mai applicabile, atteso che, nella quasi totalità degli acquisti di prodotti contraffatti, il soggetto agente è ben conscio di acquistare prodotti non originali: la Corte regolatrice, nell’assumere tali considerazioni, pone come esempio il dilagante fenomeno delle bancarelle abusive e, quindi, si riferisce al sempre più frequente commercio abusivo di prodotti contraffatti.
Il giudice della nomofilachia, conclude, allora, rilevando come nel caso di acquisto di prodotti contraffatti (nella specie si trattava di un orologio Rolex acquistato on line presso un fornitore straniero), in base al principio di specialità ex art 9 l. 689/81, debba trovare applicazione l’art 1 c. 7 del d.l 35/2005, convertito nella legge 80/2005 e non il delitto di ricettazione ex art 648 c.p., ovvero il reato contravvenzionale di cui all’art 712 c.p.
Milano, 20 marzo 2017
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