Immigrazione – significativi interventi delle sezioni penali della Corte di Cassazione nel 2015

Panozzo Rober 19/07/17
A)RIFIUTO DI ESIBIRE  DOCUMENTO DI IDENTIFICAZIONE E/O PERMESSO DI SOGGIORNO (ART. 6, C. 3, T.U. IMMIGRAZIONE)

 

Non risultano pronunce significative

 

 

B)FAVOREGGIAMENTO IMMIGRAZIONE CLANDESTINA (ART. 12 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  marzo 2015 (ud. novembre 2014)

In tema di reati concernenti l’immigrazione clandestina, l’aggravante dell’utilizzo di “servizi internazionali di trasporto” prevista nell’art. 12 del T.U. Immigrazione, in relazione alle condotte consistenti nel compimento di atti diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato di uno straniero, è configurabile nei confronti non solo del vettore professionale autorizzato al trasporto internazionale, ma anche di chiunque tale vettore utilizza. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse ritenuto integrata l’aggravante, come prevista dal testo anteriormente vigente della norma citata, con riferimento alla introduzione clandestina di uno straniero, nascosto nell’autovettura dell’imputato, imbarcata su una motonave che effettuava regolarmente un servizio internazionale di trasporto)

 

2.Cass. pen. aprile 2015 (ud. gennaio 2015)

Per la sussistenza del reato previsto dall’art. 12, comma 5 bis, del T.U. Immigrazione, come novellato dal d.l. 92/2008, convertito dalla l. 125/2008, è richiesto il fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ovvero dal dare alloggio ad uno straniero privo di titolo di soggiorno, fine che può essere desunto da condizioni contrattuali oggettivamente più vantaggiose per l’agente, ma che non devono necessariamente tradursi in un sinallagma eccessivamente gravoso per lo straniero; tali condotte, tuttavia, se poste in essere prima della predetta modifica legislativa, sono penalmente rilevanti – costituendo favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ai sensi dell’art. 12, comma 5, del citato testo unico – solo se realizzate al fine di trarre ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero, configurabile quando l’agente, approfittando di tale stato, imponga condizioni contrattuali particolarmente gravose e discriminatorie, onerose ed esorbitanti.

 

3.Cass. pen. maggio 2015 (ud. aprile 2015)

Sussiste la giurisdizione del giudice italiano relativamente al delitto di procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra-comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall’estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità, è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 48 c.p., in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti, e si lega senza soluzione di continuità alle azioni poste in essere in ambito extraterritoriale.

 

4.Cass. pen. ottobre 2015 (ud.  giugno 2015)

Integra il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale degli stranieri nel territorio dello Stato anche il fatto di contrarre, verso corrispettivo in danaro, matrimonio con cittadino extracomunitario presente irregolarmente nel territorio dello Stato, al fine di fargli conseguire la cittadinanza italiana e così di consentirgli di restare in Italia

 

5.Cass. pen. ottobre 2015 (ud. ottobre 2014)

Ai fini della configurazione del reato ex art. 12, c. 5, T.U. Immigrazione, non è sufficiente che l’agente abbia favorito la permanenza nel territorio dello Stato di immigrati clandestini, ma è necessario che ricorra il dolo specifico, che è costituito dal fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, che si realizza quando l’agente, approfittando di tale stato, imponga condizioni particolarmente onerose ed esorbitanti dal rapporto sinallagmatico. L’elemento di distinzione tra il reato ex art. 12, c. 5, T.U. Immigrazione e quello previsto dall’art. 22, c. 12, dello stesso T.U., ferma restando – in relazione alla diversità della ratio che li caratterizza e alla evidente diversità dell’interesse protetto – la possibilità del concorso, è costituito dal fatto che, mentre il secondo intende contrastare il fenomeno della immigrazione clandestina, punendo l’assunzione al lavoro di extracomunitari privi di permesso di soggiorno, potendo connotarsi come strumento atto a eludere il divieto di ingresso e di permanenza nel territorio dello Stato al di fuori delle condizioni fissate dalla legge, con il primo si punisce l’attività di colui che, approfittando della condizione di illegalità degli stranieri, ne favorisca la permanenza nel territorio dello Stato al fine di trarre un ingiusto profitto da tale condizione, fuoriuscendosi dal rapporto sinallagmatico di prestazione d’opera o perché gli stranieri vengono utilizzati in attività illecite o perché si impongono loro condizioni gravose e discriminatorie di lavoro, di orario e/o di retribuzione

 

 

C)ESPULSIONE AMMINISTRATIVA (ART. 13 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen. febbraio 2015 (ud.  2014)

In tema di reati concernenti l’immigrazione, l’illegittimità del decreto di espulsione per la sua mancata traduzione in lingua comprensibile al destinatario non può essere affermata sulla sola base della omessa predisposizione del provvedimento in moduli plurilingue, perché l’art. 13, c. 7, del T.U. Immigrazione non prevede un obbligo di predisposizione del testo del decreto di espulsione in modelli plurilingue, espressamente contemplati solo per fornire allo straniero l’informazione della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria dal territorio italiano.

 

2.Cass. pen.  luglio 2015 (ud.  maggio 2015)

La testuale formulazione dell’art. 19, c. 1, del T.U. Immigrazione (“In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”), che non consente, senza alcuna eccezione l’estromissione o il respingimento dello straniero, assoggettabile a persecuzione nel paese d’origine o in paese terzo, deve trovare riconoscimento anche al momento dell’assunzione della decisione su qualsiasi forma di espulsione giudiziale, quindi anche se tale provvedimento costituisca misura di sicurezza, come ne, caso in esame, volta appunto ad allontanare forzatamente dal territorio nazionale il condannato per determinate fattispecie criminose

 

 

C)ESPULSIONE AMMINISTRATIVA (ART. 13 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  febbraio 2015 (ud. novembre 2014)

In tema di reati concernenti l’immigrazione, l’illegittimità del decreto di espulsione per la sua mancata traduzione in lingua comprensibile al destinatario non può essere affermata sulla sola base della omessa predisposizione del provvedimento in moduli plurilingue, perché l’art. 13, c. 7, del T.U. Immigrazione non prevede un obbligo di predisposizione del testo del decreto di espulsione in modelli plurilingue, espressamente contemplati solo per fornire allo straniero l’informazione della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria dal territorio italiano.

 

2.Cass. pen. luglio 2015 (ud.  maggio 2015)

La testuale formulazione dell’art. 19, c. 1, del T.U. Immigrazione (“In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”), che non consente, senza alcuna eccezione l’estromissione o il respingimento dello straniero, assoggettabile a persecuzione nel paese d’origine o in paese terzo, deve trovare riconoscimento anche al momento dell’assunzione della decisione su qualsiasi forma di espulsione giudiziale, quindi anche se tale provvedimento costituisca misura di sicurezza, come ne, caso in esame, volta appunto ad allontanare forzatamente dal territorio nazionale il condannato per determinate fattispecie criminose

 

 

D)DIVIETO DI REINGRESSO (ART. 13 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  febbraio 2015 (ud.  dicembre 2014)

La condotta di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato non è scriminata dall’avere lo straniero, destinatario di un precedente provvedimento di espulsione, contratto matrimonio con una cittadina dell’Unione, domiciliata nel territorio nazionale, poiché, al fine di poter legittimamente attuare il proprio diritto al ricongiungimento con il coniuge, il soggetto espulso deve preventivamente richiedere l’autorizzazione alle Autorità italiane

 

2.Cass. pen.  aprile 2015 (ud. marzo 2015)

Mentre la normativa italiana prevede che il divieto d’ingresso abbia di regola la durata di dieci anni, e un periodo più breve, ma non inferiore a cinque anni, in considerazione della condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza in Italia, la Direttiva europea prevede invece che la durata del divieto d’ingresso è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma i cinque anni; detto periodo può però essere superato se il cittadino di un paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale (art. 11, comma 2 della Direttiva citata). Sul punto è evidente il contrasto tra la normativa dettata dalla Direttiva e quella nazionale, ma la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto immediatamente applicabile la Direttiva stabilendo che il rientro nel territorio dello Stato dello straniero espulso che non abbia una speciale autorizzazione non è più previsto come reato, ove avvenga oltre il quinquennio dall’espulsione, perchè la norma incriminatrice, ponendo un divieto di rientro per un decennio, deve essere disapplicata per contrasto con le disposizioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea, che hanno acquistato efficacia diretta e che prevedono che il divieto di reingresso non possa valere per un periodo superiore a cinque anni

 

 

E)ORDINE DI ALLONTANAMENTO (ARTT.  13,14 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  giugno 2015 (ud. febbraio 2015)

Ai fini della configurabilità del reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del Questore, la mera traduzione del decreto di espulsione e dell’ordine di allontanamento in lingua “veicolare” senza che sia attestata la motivata impossibilità di avvalersi di un testo predisposto nella lingua madre dello straniero – secondo quanto previsto dall’art. 13, comma 5, del T.U. Immigrazione – non integra di per sé illegittimità dei provvedimenti amministrativi posti a presupposto della condanna, quando non è dedotta in concreto l’inidoneità dei documenti redatti in lingua “veicolare” a dare compiuta cognizione all’interessato del contenuto precettivo dei provvedimenti.

 

2.Cass. pen. giugno 2015 (ud.  maggio 2015)

In materia di reati concernenti l’immigrazione, ha carattere tassativo la previsione della instaurazione del giudizio dinanzi al giudice di pace nel termine massimo di quindici giorni, recata dall’art. 20 bis del d. lgs. 274/2000, ed applicabile nei procedimenti relativi ai reati di cui agli artt. 10 bis e 14, commi 5 ter e 5 quater, del T.U. Immigrazione, nel caso in cui si procede nelle forme della presentazione immediata davanti al giudice. (In motivazione, la Corte ha precisato che la drastica riduzione dei tempi per la difesa, prevista dai moduli procedimentali di cui agli artt. 20 bis e 20 ter del d. lgs. 274/2000, può trovare giustificazione solo se è realizzata la finalità di assicurare la celebrazione del processo in tempi brevissimi).

 

 

F)ASSUNZIONE LAVORATORI STRANIERI PRIVI DEL PERMESSO DI SOGGIORNO (ART. 22 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  ottobre 2015 (ud. ottobre 2014)

L’elemento di distinzione tra il reato ex art. 12, c. 5, T.U. Immigrazione e quello previsto dall’art. 22, c. 12, dello stesso T.U., ferma restando – in relazione alla diversità della ratio che li caratterizza e alla evidente diversità dell’interesse protetto – la possibilità del concorso, è costituito dal fatto che, mentre il secondo intende contrastare il fenomeno della immigrazione clandestina, punendo l’assunzione al lavoro di extracomunitari privi di permesso di soggiorno, potendo connotarsi come strumento atto a eludere il divieto di ingresso e di permanenza nel territorio dello Stato al di fuori delle condizioni fissate dalla legge, con il primo si punisce l’attività di colui che, approfittando della condizione di illegalità degli stranieri, ne favorisca la permanenza nel territorio dello Stato al fine di trarre un ingiusto profitto da tale condizione, fuoriuscendosi dal rapporto sinallagmatico di prestazione d’opera o perché gli stranieri vengono utilizzati in attività illecite o perché  si impongono loro condizioni gravose e discriminatorie di lavoro, di orario e/o di retribuzione

 

2.Cass. pen. ottobre 2015 (ud. settembre 2015)

L’art. 5, c. 1, del d.l. 92/2008, convertito dalla l. 125/2008, volendo reprimere più gravemente il reato ex art. 22, c. 12, del T.U. Immigrazione, e sostituendo la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno e dell’ammenda di euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di Euro 5.000, sempre per ogni lavoratore impiegato – ha trasformato la contravvenzione previgente in delitto, di guisa che allo stato, ai sensi dell’art. 42, c. 2, c.p., il fatto è ora punito solamente se commesso con dolo, non essendo nulla di diverso espressamente preveduto dalla norma incriminatrice. L’intervento normativo del 2008, pertanto, ha reso penalmente irrilevante la responsabilità colposa, risolvendosi, per tale ipotesi, in una abolizione parziale della fattispecie previgente. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 2, c. 2, c.p.,  anche le condotte pregresse di impiego di stranieri privi del permesso di soggiorno valevole a fini lavorativi, possono dunque essere tuttora punite, ma solamente se dolose, fermo restando, quanto al trattamento sanzionatorio, il medesimo art. 2, comma 4

 

3.Cass. pen. ottobre 2015 (ud. ottobre 2015)

La fattispecie prevista dall’art. 22, c. 12, del T.U. Immigrazione, è un reato proprio, che può essere commesso solo dal datore di lavoro, cosicché di esso non può rispondere un committente di opere affidate ad una persona che, a sua volta, ingaggia il lavoratore extracomunitario; tuttavia, l’assunzione o l’ingaggio ad opera di terze persone non può fungere da “schermo” per porre il datore di lavoro a riparo da ogni responsabilità: in effetti, la fattispecie descrive la condotta illecita come quella di “occupare alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno” e, quindi, non pretende affatto – per l’integrazione del delitto – che il datore di lavoro abbia personalmente assunto o ingaggiato lo straniero irregolare; cosicché risponde del reato di occupazione di lavoratori dipendenti stranieri privi del permesso di soggiorno non soltanto colui che procede all’assunzione di detti lavoratori, ma anche colui che, pur non avendo provveduto direttamente all’assunzione, se ne avvalga tenendoli alle sue dipendenze, in presenza del dolo sopra descritto

 

4.Cass. pen. dicembre 2015 (ud. settembre 2015)

L’occupazione quale lavoratore dipendente, a tempo determinato o indeterminato, di un cittadino extracomunitario è legittima soltanto se quest’ultimo è titolare di un permesso di soggiorno a fini lavorativi. Il permesso, sempre a fini lavorativi, deve essere validamente rilasciato e deve coprire l’intera durata del rapporto: l’unica (apparente) eccezione prevista riguarda la situazione di permesso lavorativo scaduto per il quale sia stato tempestivamente avanzata richiesta di rinnovo. Sicché l’esistenza di un permesso turistico, pur rinnovato o per il quale sia avanzata richiesta di rinnovo, non legittima l’assunzione e l’occupazione. Ai fini della configurabilità del reato di assunzione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, il concetto di occupazione che figura nell’art. 22 del T.U. Immigrazione, si riferisce all’instaurazione di un rapporto di lavoro che già di per sé integra gli estremi di una condotta antigiuridica, qualora il soggetto assunto sia un cittadino extracomunitario privo del citato permesso, indipendentemente da qualunque delimitazione temporale dell’attività in questione

 

5.Cass. pen.  dicembre 2015 (ud.  ottobre 2015)

Il principio, affermato dal S.C., secondo cui risponde del reato di occupazione di lavoratori dipendenti stranieri privi del permesso di soggiorno non soltanto colui che procede all’assunzione di detti lavoratori, ma anche colui che, pur non avendo provveduto direttamente all’assunzione, se ne avvalga tenendoli alle sue dipendenze, deve essere letto alla luce di quello più generale che individua la natura permanente del reato, in quanto la norma incriminatrice attribuisce rilievo all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa piuttosto che al momento della costituzione del rapporto. La condotta concernente la costituzione iniziale del rapporto, quindi, potrà assumere o meno rilievo a seconda delle dimensioni dell’impresa nella quale lo straniero è occupato e delle circostanze concrete che si presenteranno: ad esempio, in caso di impresa di dimensioni notevoli ed articolata, potrà accadere che colui che assume lo straniero consapevole della sua condizione irregolare non abbia più alcun rapporto con lui, restando tuttavia responsabile per avere permesso che egli sia “occupato” alle dipendenze dell’azienda, non potendosi escludere che colui che sovraintende al lavoro dello straniero ignori la sua condizione irregolare; spesso, però, la distinzione tra i due momenti non sarà così netta. E’ artificiosa la distinzione tra condotta (istantanea) di assunzione di un cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno e (permanente) di “occupazione” dello stesso extracomunitario da parte del datore di lavoro: l’illegalità del rapporto lavorativo instaurato, contro il divieto di legge, con un lavoratore extracomunitario irregolare rende evanescente il momento formale dell’assunzione che, per i contratti di lavoro regolari, comporta la stipula e la firma del contratto, la comunicazione agli enti previdenziali e altri adempimenti burocratici; non è un caso, quindi, che la legge punisca la condotta di “occupare” lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, sanzionando lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dall’accordo iniziale intervenuto

 

 

G)ESPULSIONE A TITOLO DI SANZIONE SOSTITUTIVA O ALTERNATIVA ALLA DETENZIONE (ART. 16 T.U. IMMIGRAZIONE)

 

1.Cass. pen.  luglio 2015 (ud.  aprile 2015)

L’espulsione prevista dall’art. 16, c. 5, del T.U. Immigrazione, come atipica misura alternativa alla detenzione, può essere applicata dal giudice – ricorrendone le condizioni – anche se avulsa dall’accordo fra le parti [osserva il Collegio: a) la sanzione sostitutiva dell’espulsione ex art. 16, c. 5,T.U. Immigrazione  “ha natura amministrativa (C. Cost. ordinanza n. 226 del 2004) e va ricondotta nell’alveo delle misure alternative alla detenzione (e non delle sanzioni amministrative) ancorché debba ritenersi atipica (Cass. Sez. 1, n. 4429 del 24/1/2006)”; b) “tale misura, tuttavia, non è equiparabile alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario in quanto è volta, non a consentire l’inserimento del condannato nel contesto sociale attivo, quanto piuttosto a deflazionare la popolazione carceraria allontanando dal territorio dello Stato quegli stranieri, non appartenenti alla Comunità Europea, che non sono in regola con il permesso di soggiorno, purché  si tratti di pene contenute (inferiori a due anni di reclusione) e non siano di particolare gravità”; cosicché, vi è,  “nella fattispecie una sorta di rinuncia da parte dello Stato alla pretesa punitiva (sospesa per dieci anni, periodo entro cui il cittadino straniero non deve far rientro clandestinamente nel nostro territorio) a fronte del vantaggio immediato di evitare un sovraffollamento del circuito carcerario”; c) “alla stregua del chiaro disposto normativo – ed, in particolare, dell’espressione “è disposta l’espulsione”, che esclude qualsivoglia potere discrezionale da parte del giudice di merito circa la sua concedibilità o del P.M. nel rilascio del nulla osta all’emissione del relativo provvedimento – e delle considerazioni che precedono, si deve pertanto ritenere che lo straniero che versi nelle condizioni di legge per fruire della sanzione sostitutiva dell’espulsione prevista dall’art. 16, comma quinto, sia titolare di un vero e proprio diritto ad essere espulso dal territorio dello Stato, anziché rimanervi ad espiare la pena detentiva alla quale sia stato condannato (Cass. Sez. 1, n. 10752 del 18/02/2009, Gega, Rv. 242895)”]

 

2.Cass. pen. dicembre 2015 (ud.  settembre 2015)

Sebbene debba concordarsi che l’espulsione dello straniero condannato e detenuto in esecuzione di pena, prevista dall’art. 16, c. 5, del T.U. Immigrazione, ha natura amministrativa, va aggiunto che essa costituisce un’atipica misura alternativa o sostitutiva della detenzione, finalizzata ad evitare il sovraffollamento carcerario, della quale è obbligatoria l’adozione in presenza delle condizioni fissate dalla legge, che nel caso risultano ricorrenti. Dalla correttezza della premessa teorica sulla sua natura e sugli effetti anticipatori di provvedimenti di eguale tenore, adottabili dal Prefetto una volta esaurita l’espiazione della pena detentiva, non può però discendere quale automatica conseguenza l’applicabilità dei parametri di valutazione dettati da altre norme disciplinanti l’immigrazione a fini differenti, quali quelli stabiliti dall’art. 5, comma 5, e art. 13, comma 2 bis, richiamati dalla difesa. Entrambe le disposizioni prevedono che debbano prendersi in considerazione anche la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato e l’esistenza di legami familiari e sociali col suo paese d’origine, ma la prima riguarda soltanto i provvedimenti di rifiuto del rilascio del permesso di soggiorno, della revoca o del diniego di rinnovo del predetto titolo nei riguardi di cittadini stranieri presenti nel territorio per ragioni di ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto, la seconda l’espulsione amministrativa di coloro che versino in tali situazioni, non già di soggetti stranieri condannati e sottoposti esecuzione, destinatari dei provvedimenti specificamente regolati dal citato art. 16. Tale norma contiene, infatti, la regolamentazione specifica dell’istituto e la relativa disciplina costituisce essa stessa un contemperamento tra esigenze contrapposte, quella dello Stato all’allontanamento del condannato straniero sulla base di norme di ordine pubblico e quella di quest’ultimo a trattenersi per conservare i legami familiari e personali, tanto da aver previsto per esigenze umanitarie una serie di esenzioni dalla soggezione all’espulsione, che, stante la loro eccezionalità, non possono essere oggetto di interpretazione analogica, al fine di scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione dell’immigrazione facilmente aggirabile e che costituiscono un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco, frutto di valutazioni discrezionali del legislatore che non configgono né con i precetti costituzionali, né con quelli comunitari

 

 

H)INGRESSO E SOGGIORNO ILLEGALE (ART. 10 BIS T.U. IMMIGRAZIONE)

 

  1. Cass. pen. gennaio 2015 (ud. novembre 2014)

Sulla vigenza dell’art. 10 bis del T.U. Immigrazione, non può incidere, allo stato, la circostanza che la l. 67/2014, all’art. 2, c. 3, lett. b), abbia delegato il Governo ad “abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’art. 10 bis, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”, dal momento che il Governo non ha ancora provveduto

 

2.Cass. pen.  gennaio 2015 (ud.  novembre 2014)

Ai  fini della sussistenza del reato contravvenzionale di intrattenimento illegale nel territorio dello Stato, prevedendo il T.U. Immigrazione il rilascio di apposita documentazione autorizzativa per il soggiorno in Italia, è sufficiente da parte dell’accusa dimostrare che il cittadino straniero, presente nel territorio dello Stato, ne risulti sprovvisto ovvero che non sia in grado di allegare tale documentazione, essendo illogico pretendere che il PM, sostituendosi all’imputato, fornisca la prova di un fatto storico (la richiesta di un visto ovvero di un permesso di soggiorno), in tesi, mai avvenuto

 

3.Cass. pen. gennaio 2015 (ud.  ottobre 2014)

La mera previsione di una sanzione pecuniaria di natura penale per l’ingresso o il soggiorno illegale dello straniero nel territorio nazionale, non accompagnata da misure di rimpatrio forzato incompatibile con la normativa europea, è rispettosa dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, ai sensi dell’art. 117, c. 1,  Cost.

 

4.Cass. pen.  marzo 2015 (ud.  febbraio 2015)

La fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 10 bis del T.U. Immigrazione, che punisce l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la c.d. direttiva europea sui rimpatri (direttiva commissione CE 10 dicembre 2008, n. 115), non comportando alcun intralcio alla finalità primaria perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l’uscita dal territorio dello Stato degli stranieri extracomunitari, privi di valido titolo di permanenza, così come pure non confligge con l’art. 7, par. 1, della medesima, il quale, nel porre un termine compreso tra i sette e i trenta giorni per la partenza volontaria del cittadino di Paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato

 

5.Cass. pen. aprile 2015 (ud.  febbraio 2015)

Il rilascio del permesso di soggiorno, motivato dal matrimonio con cittadina italiana, successivo alla commissione del reato ex art. 10 bis del T.U. Immigrazione, se non può comportare l’assoluzione per l’insussistenza del fatto delittuoso, deve essere valutato ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto delittuoso, rilevante ai sensi dell’art. 34 del d. lgs. 274/2000, la cui applicazione è consentita per le ipotesi contravvenzionali

 

6.Cass. pen.  giugno 2015 (ud.  febbraio 2015)

Come precisato dal Giudice delle leggi, con sentenza 250/2010, l’art. 10 bis del T.U. Immigrazione non punisce una “condizione personale e sociale” – quella, cioè, di straniero “clandestino” (o, più propriamente, “irregolare”) – e non criminalizza un “modo di essere” della persona, ma sanziona uno specifico comportamento, costituito dal “fare ingresso” e dal “trattenersi” nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni di legge. Si è quindi di fronte, rispettivamente, ad una condotta attiva istantanea (il varcare illegalmente i confini nazionali) e una a carattere permanente di natura omissiva, consistente nel non lasciare il territorio nazionale. La condizione di “clandestinità” è, in questi termini, la conseguenza della condotta penalmente illecita e non già un dato preesistente ed estraneo al fatto, e la rilevanza penale si correla alla lesione del bene giuridico individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: si tratta di un bene “strumentale”, per mezzo della cui tutela si accorda protezione a beni pubblici “finali” di sicuro rilievo costituzionale. Per queste ragioni non è stata una scelta arbitraria la predisposizione di una tutela penale di siffatto interesse, che si atteggia a bene giuridico di “categoria”, capace di accomunare buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998.

 

7.Cass. pen.  giugno 2015 (ud.  maggio 2015)

In materia di reati concernenti l’immigrazione, ha carattere tassativo la previsione della instaurazione del giudizio dinanzi al giudice di pace nel termine massimo di quindici giorni, recata dall’art. 20 bis del d. lgs. 274/2000, ed applicabile nei procedimenti relativi ai reati di cui agli artt. 10 bis e 14, commi 5 ter e 5 quater, del T.U. Immigrazione, nel caso in cui si procede nelle forme della presentazione immediata davanti al giudice. (In motivazione, la Corte ha precisato che la drastica riduzione dei tempi per la difesa, prevista dai moduli procedimentali di cui agli artt. 20 bis e 20 ter del d. lgs. 274/2000, può trovare giustificazione solo se è realizzata la finalità di assicurare la celebrazione del processo in tempi brevissimi).

 

8.Cass. pen.  giugno 2015 (ud. giugno 2015)

Lo stato d’incertezza sull’età, anche se ritenuto non superabile con nuove acquisizioni probatorie, non può condurre all’assoluzione dell’imputato a fronte della constatazione della sicura responsabilità per il fatto di reato ascrittogli (nella specie: quello disciplinato dall’art. 10 bis del T.U. Immigrazione), la cui rilevanza penale resta immutata se commesso da persona di età inferiore ai diciotto anni; il dubbio irrisolto deve, viceversa, comportare la declaratoria d’incompetenza funzionale del giudice ordinario, con conseguente trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria minorile ai sensi del combinato disposto dell’art. 67 c.p.p. e e dell’art. 8 del d.P.R. 488/1988, autorità che è specializzata nell’accertamento sull’età del soggetto. A seguito dell’accertamento, se sarà confermato che all’epoca della commissione del reato l’imputato era maggiorenne, il processo dovrà essere celebrato dal giudice ordinario, diversamente da quello minorile.

 

9.Cass. pen.  giugno 2015 (ud. giugno 2015)

L’ ipotesi di reato contravvenzionale, ex art. 10 bis del T.U. Immigrazione,  oltre a non essere coinvolta dagli effetti della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea El Dridi del 28 aprile 2011, che ha riguardato il diverso delitto di cui all’art. 14, comma 5 ter e 5 quater dello stesso testo legislativo è stato più volte ritenuta compatibile con la c.d. Direttiva rimpatri dalla stessa Corte sovranazionale (sez. 1, sent. 6/12/2012, Sagor, causa C-430/11; sez. 3, ord. 21/3/2013, Mbaye, causa C-522/11), mentre altri utili riferimenti interpretativi sono stati offerti dalla pronuncia della stessa Corte nella Grande Chambre, sent. n. 329 del 6/12/2011, Achughbabian, causa C-329/11, che ha valutato la norma dell’ordinamento penale francese in materia di ingresso illegale di stranieri: con dette pronunce, da un lato la Corte europea ha escluso che la disciplina comunitaria abbia lo scopo di armonizzare in modo completo la legislazione nazionale dei singoli Stati aderenti all’Unione sul tema dell’immigrazione irregolare e ha affermato come la stessa non vieti la possibilità che un ordinamento, – ad esempio quello italiano ed in particolare la disposizione di cui all’art. 10 bis in esame -, qualifichi la permanenza irregolare dello straniero quale condotta illecita, integrante una fattispecie di reato, punita con l’irrogazione di sanzioni penali di tipo pecuniario, dall’altro ha ravvisato un concreto ostacolo all’attuazione della direttiva nei soli casi in cui il trattamento punitivo penale impedisca l’applicazione delle norme e delle procedure comuni sul rimpatrio degli stranieri, rendendole inefficaci o sia contrario ai diritti fondamentali della persona. Tale evenienza nel primo caso potrebbe accadere se lo Stato comminasse la pena della detenzione da espiarsi nel corso della procedura di rimpatrio o comunque prima del suo inizio, venendola ad impedire materialmente; ciò però non si verifica alla stregua delle disposizioni dell’art. 10 bis, comma 5, il quale assegna preminenza all’esecuzione in via amministrativa dell’espulsione dello straniero irregolare, tanto da imporre al giudice penale di pronunciare sentenza di proscioglimento dell’imputato se già espulso. In ordine alla possibilità che la sanzione pecuniaria inflitta al condannato sia sostituita con la misura dell’espulsione, se non sussistano le condizioni ostative di cui all’art. 14, c. 1, del T.U. Immigrazione, che impediscono l’allontanamento immediato mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, si deve osservare come, in linea generale, la direttiva rimpatri non impedisca al giudice penale di operare la sostituzione nel contesto delle decisioni assunte nel processo penale, ma in quel caso dovrà osservare le previsioni dell’art. 7 della direttiva, le quali prevedono la concessione allo straniero di un termine per l’esodo volontario non superiore a giorni trenta, con le uniche eccezioni, disciplinate dal comma 4 della norma stessa, della ricorrenza del pericolo di fuga dello straniero, del rigetto della domanda di soggiorno regolare per manifesta infondatezza o per la sua natura fraudolenta, oppure se l’interessato rappresenti un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale: in tali casi però spetterà al giudice di pace condurre l’accertamento in concreto della situazione individuale dell’imputato, onde riscontrare la reale sussistenza delle condizioni per l’immediata espulsione, che in ogni caso dovrà essere accompagnata dall’indicazione della protrazione temporale del divieto di reingresso nel paese, di durata non superiore a cinque anni, secondo quanto stabilito dalla direttiva europea.

 

10.Cass. pen. agosto 2015 (ud. luglio 2015)

Qualora si contesti il reato ex art. 10 bis del T.U. Immigrazione, spetta all’accusa la produzione documentale del permesso di soggiorno, ancorché risalente, risulta astrattamente conforme ai doveri di diligenza previsti dallo stesso T.U., per inquadrare i quali occorre richiamare la giurisprudenza di legittimità secondo cui lo straniero extracomunitario che sia trovato nel territorio dello Stato sprovvisto di qualsivoglia documento identificativo e del permesso di soggiorno, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di un titolo di ingresso o di soggiorno, o di altra situazione legittimante la sua presenza nello Stato (cfr. Sez. 1^, n. 57 dell’01/12/2010, Benjamnet, Rv. 249472), spettando quindi all’accusa dimostrare, ciò nonostante, l’esistenza di fattori impeditivi.

 

11.Cass. pen.  dicembre 2015 (ud. febbraio 2015)

Come precisato dal Giudice delle leggi, con sentenza 250/2010, l’art. 10 bis del T.U. Immigrazione non punisce una “condizione personale e sociale” – quella, cioè, di straniero “clandestino” (o, più propriamente, “irregolare”) – e non criminalizza un “modo di essere” della persona, ma sanziona uno specifico comportamento, costituito dal “fare ingresso” e dal “trattenersi” nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni di legge. Si è quindi di fronte, rispettivamente, ad una condotta attiva istantanea (il varcare illegalmente i confini nazionali) e una a carattere permanente di natura omissiva, consistente nel non lasciare il territorio nazionale. La condizione di “clandestinità” è, in questi termini, la conseguenza della condotta penalmente illecita e non già un dato preesistente ed estraneo al fatto, e la rilevanza penale si correla alla lesione del bene giuridico individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: si tratta di un bene “strumentale”, per mezzo della cui tutela si accorda protezione a beni pubblici “finali” di sicuro rilievo costituzionale. Per queste ragioni non è stata una scelta arbitraria la predisposizione di una tutela penale di siffatto interesse, che si atteggia a bene giuridico di “categoria”, capace di accomunare buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998.

 

 

I)MISCELLANEA

 

1.Cass. pen.  gennaio 2015 (ud.  ottobre 2014)

Integra il reato previsto dall’art. 5, comma 8 bis, del T.U. Immigrazione, l’utilizzo di un passaporto falso trasmesso a corredo della domanda formulata dal datore di lavoro per l’emersione dell’occupazione irregolare mediante inoltro per via telematica e finalizzata all’ottenimento del permesso di soggiorno.

Panozzo Rober

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