La confisca allargata dopo la legge di riforma del Codice antimafia

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Premessa

Il 27 settembre 2017 è stata definitivamente approvata  la legge di modifica al Codice antimafia.

Il testo, come avverte il suo titolo, innova significativamente l’apparato normativo della prevenzione patrimoniale finalizzata al contrasto della criminalità organizzata di tipo mafioso.

Contiene tuttavia, ed è su questo specifico aspetto che si vuole riflettere, anche importanti novità in merito all’istituto della confisca allargata o per sproporzione introdotto dall’art. 12 sexies del D.L. 306/1992 convertito nella L. 356/1992.

 

Le modifiche

Il legislatore ha inciso sia sul piano procedimentale che su quello sostanziale.

Sul primo versante si segnala anzitutto l’aggiunta della lettera f-bis al primo comma dell’art. 132 bis att. c.p.p. che regola la formazione dei ruoli delle udienze penali e la trattazione dei processi.

Di conseguenza i processi nei quali sono stati sequestrati beni in funzione della confisca allargata sono inseriti nell’elenco dei giudizi la cui fissazione e trattazione devono essere assicurate con priorità assoluta.

Si prevede inoltre che i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni sequestrati di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo siano citati in giudizio così da garantire la loro partecipazione al contraddittorio e tutelare i loro diritti difensivi.

Si attribuiscono al giudice monocratico che ha emesso il provvedimento di sequestro, o al giudice designato dal collegio in caso di provvedimento collegiale, funzioni assimilabili a quelle proprie del giudice delegato nelle procedure di prevenzione patrimoniale.

Si assegna al giudice dell’esecuzione il potere di confisca sia allargata che per equivalente allorchè vi si debba provvedere dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Si stabilisce, in caso di morte del destinatario di una confisca pronunciata con sentenza di condanna, che il procedimento prosegua nei confronti degli eredi o aventi causa.

Sul versante sostanziale, si segnala anzitutto un ulteriore ampliamento dell’elenco delle fattispecie incriminatrici alle quali va associata la confisca, essendo adesso richiamata l’intera categoria dei reati menzionati dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.

La misura è ora disposta anche nei casi in cui il giudizio si concluda con sentenza di non doversi procedere per amnistia o prescrizione purchè in precedenza fosse intervenuta una sentenza di condanna nel merito.

È esplicitamente esclusa l’efficacia della giustificazione della legittima provenienza dei beni confiscabili fondata sulla dimostrazione della disponibilità di redditi nascosti all’amministrazione finanziaria e quindi oggetto di evasione.

 

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Gli effetti pratici

Ognuna delle modifiche indicate nel paragrafo precedente produrrà tangibili conseguenze nella gestione delle attività procedimentali e nei parametri valutativi propri dei giudizi penali che comprendono nel loro oggetto pretese ablative in applicazione del citato art. 12 sexies.

La prima, scontata, è che, per diretta prescrizione legislativa, i tempi medi di definizione di quei giudizi dovranno essere ridotti e questa prospettiva sfida la capacità di risposta organizzativa non solo degli uffici giudiziari ma anche dei difensori degli imputati e dei terzi interessati.

Proprio i terzi, dal canto loro, si vedono riconoscere la legittimazione ad essere citati in giudizio così da potersi difendere con pienezza in ogni fase processuale.

Questa prerogativa è concessa a tutti i titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro.

Restano invece esclusi i titolari di diritti di credito e di garanzia.

È facile prevedere che la presenza dei terzi renderà più difficile la rapidità di trattazione cui tende la corsia privilegiata fissata nell’art. 132 bis c.p.p.

Altrettanto agevole immaginare l’insorgenza di conflitti sulla latitudine effettiva del contraddittorio consentito ai terzi: da un lato si vorrà confinarlo entro gli stretti limiti della materia patrimoniale, dall’altro si vorrà invece ampliarlo all’esistenza del reato cui è collegata la pretesa ablativa, essendo peraltro arduo sostenere che il terzo non abbia un proprio interesse anche verso questo profilo dimostrativo.

Cospicui cambiamenti di strategia processuale ed esigenze probatorie deriveranno certamente dall’esplicita inefficacia di giustificazioni difensive della legittima provenienza dei beni fondate sul presupposto che le risorse finanziarie impiegate per il loro acquisto siano provento o reimpiego di evasione fiscale.

Inefficacia – è bene chiarirlo – riferita al condannato e non anche al terzo interessato.

La precisazione normativa sconfessa un indirizzo interpretativo di segno contrario che si andava consolidando anche per effetto di pronunce delle Sezioni unite penali.

Comunque sia, è chiaro che la modifica agevolerà il compito della pubblica accusa e renderà per contro assai più disagevole l’impegno difensivo che non potrà più avvalersi di tutte le possibilità desumibili dalla lettera della norma che prescrive di valutare la sproporzione del valore dei beni non solo in relazione al reddito dell’accusato ma anche all’eventuale attività economica da questi svolta.

Un cambiamento di elevato rilievo è infine quello che consente la confisca anche quando il procedimento si concluda con una pronuncia estintiva, sempre che questa segua ad una precedente condanna nel merito.

Si configura in tal modo un’evenienza che va in controtendenza rispetto a ciò che si è abituati a considerare normale.

La prescrizione, nei casi in cui il sequestro aggredisca beni di considerevole valore, potrebbe perdere molto del suo fascino per colui che ne beneficia.

Non sarebbe quindi troppo azzardato considerare accettabile, soprattutto nei giudizi in cui la difesa ha solide argomentazioni di merito o di legittimità con cui opporsi a precedenti decisioni di condanna, una strategia difensiva che rinunci alla prescrizione e punti al ribaltamento della pronuncia sfavorevole.

 

Le problematicità

La novella normativa è stata varata allo scopo di rendere complessivamente più efficiente la capacità statuale di far seguire ad una sempre più vasta categoria di crimini una misura che affondi nella sfera patrimoniale dei loro autori e, per così dire, la metta a nudo e la sfrondi se la sua consistenza non trovasse giustificazione nella capacità reddituale del titolare.

Lo strumento che realizza questo scopo prescinde dal collegamento tra reato ed accumulazione illecita e si applica per il solo fatto che un reato presupposto sia stato accertato e una sproporzione tra redditi e beni sia stata constatata in capo al suo autore.

Cosa sia la confisca allargata non è mai stato ben chiaro ma al momento è largamente prevalente, quantomeno in giurisprudenza, la sua definizione come misura di sicurezza atipica.

Si potrebbe discutere a lungo – ed in effetti la dottrina continua a farlo -sull’appropriatezza di questa tesi.

Basti qui ricordare il chiarissimo disposto dell’art. 199 c.p. per il quale “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”.

Il conflitto tra la legge e i suoi interpreti non potrebbe essere più marcato.

Un ulteriore e primario aspetto di cui tener conto è la palese incoerenza dell’inquadramento dell’istituto ove lo si confronti con i criteri definitori messi a fuoco dalla giurisprudenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo, unico organo legittimato a trasformare in diritto vivente i principi affermati nella CEDU.

Ci si riferisce ai cosiddetti criteri Engel (così denominati in quanto affermati nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976) i quali identificano un’accusa penale tutte le volte in cui ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: configurazione formale della sanzione prescelta dallo Stato; natura dell’infrazione; natura e gravità della sanzione.

All’affermazione di questi requisiti è poi seguita una giurisprudenza coerente.

Il leading case è agevolmente individuabile nella sentenza emessa dalla Grand Chambre il 9 febbraio 1995 nel caso Welch c/o Regno Unito in cui si affermò che “the confiscation order amounted, in the circumstances of the present case, to a penalty”.

L’indirizzo è stato poi consolidato con le sentenze Sud Fondi e Varvara, conclusesi con la soccombenza del nostro Paese.

In entrambi i casi, la Corte di Strasburgo è stata richiesta di qualificare la speciale ipotesi di confisca prevista dall’articolo 44 comma 2 Decreto Presidente della Repubblica n. 380/2001 allorchè una sentenza definitiva del giudice penale abbia accertato l’esistenza di una lottizzazione abusiva.

Un consolidato indirizzo di legittimità attribuiva a tale istituto la natura di sanzione amministrativa reale, ritenendo che il giudice penale dovesse applicarla in conseguenza del semplice accertamento della materialità dell’illecito. In questa visione, la confisca rimaneva quindi doverosa anche se il procedimento penale si fosse concluso con pronuncia di prescrizione.

La Corte EDU non ha tuttavia condiviso questo modo di vedere.

Attenti come sono più ai profili sostanziali che a quelli formali, e non tenendo in particolare conto le definizioni e classificazioni proprie delle legislazioni statali, i giudici dei diritti umani hanno elaborato un ben diverso indirizzo il quale, attribuendo natura sostanzialmente penale alla sanzione della confisca, ha escluso che la sua irrogazione potesse essere disposta senza un previo giudizio di colpevolezza conseguente all’imputazione soggettiva del fatto.

È appena il caso, poi, di ricordare che la corretta definizione della natura dell’istituto non è una questione oziosa poiché alle misure di sicurezza si applica, per effetto dell’art. 200 c.p., il principio “tempus regit actum” che impone l’uso della norma vigente al momento dell’esecuzione della misura, anche nell’ipotesi in cui tale norma contenga disposizioni peggiorative rispetto alla regolamentazione preesistente.

Per contro, l’eventuale qualificazione della confisca allargata come vera e propria sanzione penale assoggetterebbe l’istituto al principio di irretroattività sfavorevole sancito dagli artt. 25 comma 2° Cost. e 1 c.p.

Non mancavano quindi le ragioni per un intervento chiarificatore e la riforma sarebbe stata l’occasione giusta ma così non è stato.

Un secondo e cospicuo fronte problematico è l’accentuazione della tendenza espansiva della platea dei reati ai quali consegue la confisca allargata.

L’elenco aggiornato comprende tutti i reati menzionati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p., il peculato, il peculato mediante profitto dell’errore altrui, la malversazione a danno dello Stato, l’indebita percezione di erogazioni a carico dello Stato, la concussione, la corruzione per l’esercizio della funzione, la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, la corruzione in atti giudiziari, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, la corruzione di incaricato di pubblico servizio, l’istigazione alla corruzione, la concussione (unitamente a induzione indebita a dare o promettere, corruzione e istigazione alla corruzione) di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri, l’utilizzazione di invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d’ufficio.

Nell’elenco è inclusa anche l’associazione a delinquere quando sia finalizzata a commettere i delitti di disastro ambientale, fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di prodotti agroalimentari, prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, usura (anche nella forma impropria in precedenza regolata dall’art. 644 bis ed oggi assorbita nell’art. 644 c.p.), ricettazione (fatta eccezione per i casi di particolare tenuità), riciclaggio, impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita, contrabbando aggravato di tabacchi lavorati esteri, trasferimento fraudolento di valori, produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti o, infine, per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Una congerie di reati, dunque, tra i quali si fatica a trovare un denominatore comune, la cui capacità di produrre arricchimenti ingiustificati è fortemente asimmetrica e, in più di un caso, addirittura dubbia e la cui capacità di generare un diffuso allarme sociale è talvolta totalmente assente.

Sono perfino presi in considerazione, tra i delitti alla cui commissione è finalizzata la fattispecie associativa, reati perseguibili a querela di parte come, ad esempio, quello di fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale.

Di nuovo, la legge di riforma sarebbe stata l’occasione per un riordino ragionato della materia ma il legislatore non si è curato di questa esigenza.

Un terzo aspetto problematico è l’impossibilità di giustificare la sproporzione tra redditi e beni adducendo l’evasione fiscale.

Come già accennato, la precisazione legislativa segue ad una fase in cui la giurisprudenza si era attestata, dopo precedenti incertezze, nel senso esattamente contrario.

A questo risultato interpretativo ha sicuramente cooperato la sentenza n. 33451/2014 delle Sezioni unite penali.

La pronuncia ha testualmente affermato che “Risulta del resto coerente con l’evidenziata diversa struttura normativa che per la confisca ex art. 12-sexies, che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il “reddito dichiarato” o con la “propria attività economica”, si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (…) una simile interpretazione è del resto confortata dal tenore letterale della disposizione, che impedisce l’ablazione del patrimonio quando, indifferentemente, esso sia giustificato dal valore dei redditi formalmente dichiarati ovvero dall’attività economica svolta, quest’ultima normalmente produttiva di reddito imponibile”.

Le Sezioni unite hanno dunque valorizzato tre elementi: la differenza strutturale e finalistica degli strumenti propriamente penali rispetto a quelli preventivi, il tenore letterale dell’art. 12 sexies e la liceità dell’attività economica svolta che rende leciti i redditi e la disponibilità finanziaria che ne derivano anche se occultati al fisco.

La differente soluzione adottata dal legislatore, come correttamente osservato nel parere (a sua volta fondato su una posizione dottrinaria) che l’Unione delle camere penali italiane ha formulato sulla proposta di legge quando era ancora all’esame del Senato, finisce “per allargare l’ambito di applicazione delle forme di confisca in esame a beni in realtà di origine lecita, perlomeno nel senso che non risulta dimostrato il loro valore sproporzionato, trasformando tali forme di confisca in “pene” per l’evasione fiscale, pene di origine pretoria, in contrasto con il principio di legalità, e non commisurate ai normali indici di commisurazione della pena ex art. 133 c.p., innanzitutto la colpevolezza, e quindi sproporzionate. In tali ipotesi nella misura dei redditi leciti, ma non dichiarati, i beni non dovrebbero essere confiscabili, salva l’applicazione della normativa tributaria per il recupero delle imposte evase”.

L’ultimo, ma non certo per importanza, rilievo critico alla riforma della confisca allargata riguarda la previsione che consente l’irrogazione della misura tutte le volte in cui il giudizio penale si concluda con una pronuncia estintiva del reato per amnistia o prescrizione che si però intervenuta dopo una precedente condanna nella fase di merito.

Chi cerchi la spiegazione di una modifica così impegnativa in termini di principi e conseguenze applicative può agevolmente rinvenirla non solo nello “spirito dei tempi” ma anche, assai più specificamente, nella recente sentenza n. 31617/2015 delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione[1].

L’oggetto della questione era costituito dall’istituto, regolato dall’art. 322 ter c.p.,  della confisca diretta o per equivalente del prezzo o del profitto del reato, occorrendo stabilire se si trattasse o no di una sanzione penale alla stregua dei parametri indicati dalla Corte EDU.

Le Sezioni unite hanno attribuito all’istituto la natura di misura di sicurezza.

Hanno ritenuto che per la sua applicazione non sia sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità del destinatario poiché, se così fosse, la confisca si trasformerebbe indebitamente in un’actio in rem.

Hanno quindi affermato che “l’accertamento della responsabilità deve confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo o il profitto del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”.

La confisca può infine essere disposta anche nel caso in cui sia intervenuta una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ma quest’ultima “deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’articolo 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione”.

Le Sezioni unite hanno ulteriormente precisato, rifacendosi alle linee guida tracciate dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che, a proposito di prescrizione, “L’obbligo della relativa immediata declaratoria, infatti, lungi dallo stemperare il “già accertato”, ne cristallizza gli esiti “sostanziali”, sia pure nella circoscritta e peculiare dimensione della confisca del prezzo del reato, dal momento che – altrimenti – al giudice incomberebbe un onere di “conformazione costituzionale” della interpretazione, attenta a salvaguardare anche i “controlimiti” che la pronuncia della Corte costituzionale ha implicitamente, ma chiaramente, evocato. In altri termini, l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione che giustifica “l’oblio”ai fini della applicazione della  pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale”.

Così richiamati i punti essenziali della pronuncia 31617/2015, pare chiaro che il profilo di maggiore interesse e novità è l’affermazione del concetto di “condanna in senso sostanziale” ed il suo utilizzo come grimaldello per legittimare una confisca altrimenti impossibile.

Le conseguenze davvero importanti e – va aggiunto – pericolosissime di questa novità, che potrebbe abbastanza agevolmente essere estesa a tutte le situazioni giuridiche negative il cui presupposto sia una condanna penale, rendono quantomai necessaria la verifica della sua tenuta giuridica e logica.

C’è anzitutto un dato normativo di cui tenere conto ed è quello contenuto nel primo comma dell’articolo 240 codice penale il quale affida al giudice il potere discrezionale di disporre la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto”.

Questo potere è esercitabile – premette la norma – solo nel caso di condanna.

Si è consapevoli che l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative è, per dirla con le parole usate dalla Consulta nella sentenza 1/2013, un “metodo primitivo sempre”.

È vero, il tenore letterale non è di per se stesso sufficiente ma ciò non significa che se ne possa prescindere.

Bisogna allora chiedersi quale sia il significato più corretto da attribuire al termine “condanna” usato dal legislatore codicistico.

Si potrebbe iniziare rilevando che mai nessuno finora, ivi comprese le stesse Sezioni unite in precedenti pronunce sulle medesime questioni, aveva inteso quell’espressione in modo diverso da giudicato formale di condanna. Questa prospettiva non porterebbe però molto lontano perché il suo presupposto logico sarebbe che chi dice qualcosa mai detto prima ha sempre torto. Anche questo sarebbe un metodo primitivo e quindi lo si scarta a priori.

È invece imprescindibile il confronto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione ed il principio di presunzione di innocenza, o meglio di non colpevolezza, ivi contenuto.

Il Costituente non si è accontentato di affermarlo ma ha inteso dargli la massima ampiezza, estendendolo fino al momento della condanna definitiva.

La previsione in esame va letta in modo congiunto con quella contenuta nell’articolo 24 comma 2 la quale, attribuendo alla difesa la natura di diritto inviolabile, lo riferisce esplicitamente ad “ogni stato e grado del procedimento” e con l’ulteriore previsione dell’articolo 111 comma 7 che ammette il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

La Costituzione considera dunque un’imprescindibile garanzia, ancorchè affidata all’iniziativa delle parti, la possibilità di dar vita ad un giudizio scandito in gradi, ognuno dei quali necessario ma non sufficiente per il risultato finale.

In piena coerenza con questo postulato, chi subisce da accusato un procedimento penale ha il diritto di non essere considerato colpevole fino a che il mosaico complessivo delineato dalla Costituzione non si compone per intero.

Sicchè, qualunque lettura che pretenda di anticipare a momenti processuali precedenti al giudicato l’affermazione della responsabilità, e ne tragga per di più spunto per l’irrogazione di sanzioni che presuppongono tale affermazione, viola palesemente la lettera e la ratio del principio di non colpevolezza.

Esposto questo primo e imprescindibile passaggio, già sufficiente a dimostrare l’erroneità della decisione delle Sezioni unite, occorre adesso soffermarsi sulla natura dell’istituto della prescrizione e sul modo in cui esso si incrocia con il processo e il giudizio.

È nella consapevolezza pressochè unanime che la prescrizione appartiene all’ambito del diritto penale sostanziale e trova la sua ragion d’essere nell’esaurimento, una volta decorso un prefissato periodo di tempo, dell’interesse repressivo dello Stato riguardo ad un determinato fatto – reato.

L’effetto della prescrizione è chiaramente esplicitato nel primo comma dell’articolo 157 codice penale e consiste nell’estinzione del reato.

La prescrizione, a differenza delle cause di estinzione della pena, rende quindi definitivamente impossibile l’emissione della sentenza di condanna, facendo mancare il suo necessario presupposto cioè l’esistenza giuridica di un reato.

Proprio per questa ragione ed ai sensi dell’articolo 129 codice di procedura penale, una volta che sia verificata la causa estintiva, il giudice, in qualunque stato e grado del processo, è tenuto a riconoscerne d’ufficio l’esistenza con una sentenza dichiarativa.

L’unica possibilità alternativa a questo epilogo è la sentenza di assoluzione o non luogo a procedere se gli atti processuali già disponibili rendono evidente la ricorrenza di una  ragione assolutoria di merito.

Lo stesso obbligo è posto a carico del giudice dall’articolo 531 codice di procedura penale, per di più esteso anche ai casi in cui vi sia il semplice dubbio dell’esistenza di una causa di estinzione.

È una regolamentazione chiara che è il frutto di un’altrettanto chiara volontà legislativa, realizzatrice di una finalità di indubbia ragionevolezza, tra l’altro fortemente collegata al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena.

Emerge anche per questa via la vistosa forzatura logica in cui sono incorse le Sezioni unite.

In altri termini: collegare, anche in presenza di un epilogo prescrittivo, l’accertamento definitivo della responsabilità all’emissione di una sentenza di condanna non smentita da successive pronunce assolutorie, è come dimenticare che la prescrizione funziona esattamente nel senso di porre nel nulla accertamenti di merito già compiuti ed impedire analoghi accertamenti futuri.

Non si tratta dunque di “un’anodina formula terminativa del giudizio” e non può essere affatto utilizzata come conferma della pronuncia di condanna.

La prescrizione determina al contrario una sorta di cessazione della materia del contendere, conseguente ad un’esplicita rinuncia statale alla pretesa punitiva, che nessun giudice può ignorare a pena di farsi indebitamente legislatore.

Ci sono infine due rilievi da formulare.

Il primo: la possibilità di far luogo alla confisca anche in caso di prescrizione poggia, secondo il ragionamento delle Sezioni unite, sulla disponibilità di un accertamento di responsabilità il quale a sua volta presuppone una cognizione piena del merito.

Questa eventualità è chiaramente impossibile nelle situazioni regolate dall’articolo 129 codice di procedura penale il quale, non a caso, titola “Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”. Il giudice che si confronti con evenienze del genere non può e non deve quindi compiere alcun accertamento di merito.

Potrebbe tuttavia capitare che la prescrizione si maturi dopo il primo grado di giudizio, ad esempio in appello, quando cioè una prima delibazione di condanna nel merito è già disponibile.

È evidente che in un caso del genere, e sempre che non vi sia stata espressa e preventiva rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’impugnazione non potrebbe che prendere atto della causa estintiva e dichiararla.

Si cristallizzerebbe in tal modo la valutazione del merito contestata con l’impugnazione senza che le contestazioni possano dipanarsi e, in ipotesi,  produrre effetti positivi a favore dell’appellante.

Dunque, prescrizione in entrambi i casi ma, secondo le Sezioni unite, confisca possibile solo nel secondo. E non per una qualche apprezzabile ragione ma solo per un accidente legato al momento processuale in cui matura la prescrizione. Sarebbe ragionevole questa diseguaglianza o violerebbe l’articolo 3 comma 1 Costituzione?

Il secondo rilievo: le Sezioni unite hanno introdotto un concetto, quello di “condanna sostanziale”, sconosciuto alla legge ed alla nostra civiltà giuridica e lo hanno usato in malam partem. È possibile questo, è consentito alla luce dei principi costituzionali e generali dell’ordinamento che sono stati illustrati in precedenza?

Una pronuncia largamente censurabile, dunque, e per ciò stesso inadatta a costituire l’antecedente giustificativo di una riforma legislativa così significativa.

Ma c’è di più.

La riforma della confisca allargata si pone in contraddizione con precedenti fonti legislative.

Il punto di partenza obbligato è la Direttiva 2014/42/UE emessa congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 3 aprile 2014.

Il provvedimento europeo è stato assunto sulla base degli artt. 82 § 2 e 83 § 1 TFUE i quali legittimano il Parlamento e il Consiglio ad istituire norme finalizzate ad agevolare la cooperazione penale o reprimere reati transnazionali di elevata gravità.

La premessa, chiarita nel primo “considerando”, è che “le autorità competenti dovrebbero disporre dei mezzi per rintracciare, congelare, gestire e confiscare i proventi da reato. Tuttavia, la prevenzione e la lotta efficaci contro la criminalità organizzata dovrebbero essere conseguite neutralizzando i proventi da reato e dovrebbero essere estese, in alcuni casi, a qualsiasi bene derivante da attività di natura criminosa”.

L’estensione cui pensa il legislatore europeo si desume con chiarezza dal considerando 11: “Occorre chiarire l’attuale concetto di proventi da reato al fine di includervi i proventi diretti delle attività criminali e tutti i vantaggi indiretti, compresi il reinvestimento o la trasformazione successivi di proventi diretti. Pertanto, i proventi possono comprendere qualsiasi bene, anche trasformato o convertito, in tutto o in parte, in un altro bene, ovvero confuso con beni acquisiti da fonte legittima, fino al valore stimato dei proventi confusi. Possono inoltre comprendere introiti o altri vantaggi derivanti dai proventi da reato o da beni nei quali i proventi da reato sono stati trasformati o convertiti o da beni con i quali i proventi da reato sono stati confusi”.

La straordinaria ampiezza ed invasività della mission affidata agli Stati UE trova un contraltare  e un limite nei considerando 14, 15 e 30 i quali hanno tutti cura di precisare che la confisca può avvenire solo in esito a una condanna definitiva.

Il considerando 38 chiarisce a sua volta che “La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la «Carta») e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (la «CEDU»), come interpretate nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La presente direttiva dovrebbe essere attuata conformemente a tali diritti e principi”.

Per ciò che qui di più interessa, il requisito della definitività della condanna è ripreso dall’art. 4 comma 1 della Direttiva laddove si afferma che “le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può anche essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia”.

Il secondo comma dello stesso prevede per la verità eccezioni all’architettura disegnata dal primo comma ma limitate ai casi in cui la confisca non sia possibile per malattia o fuga dell’indagato o imputato.

Dopo questa necessaria premessa, si ricorda che la Direttiva in esame è stata attuata nel nostro ordinamento con il D. Lgs. 29 ottobre 2016, n. 202.

L’art. 1 del Decreto precisa che l’attuazione ha ad oggetto le disposizioni della Direttiva 2014/42 e non contiene nessuna esplicita esclusione di alcuna di esse.

Non solo: l’art. 5 apporta modifiche all’istituto della confisca allargata, con ciò stesso riconoscendo che le previsioni normative che la riguardano rientrano nel raggio applicativo della predetta Direttiva.

Sicchè, in conclusione, l’attuale riforma della confisca allargata, rendendo possibile la confisca anche in assenza di una condanna definitiva, da un lato asseconda un indirizzo giurisprudenziale quantomai criticabile e dall’altro viola norme del diritto europeo già esecutive nel nostro Paese.

 

Conclusioni

Non è e non può essere in discussione la condivisibilità di qualunque politica pubblica che punti a privare chi delinque dei vantaggi acquisiti attraverso la sua condotta illecita.

È invece discutibile l’azione legislativa che, pur ispirata a questo scopo, sacrifichi o comprometta in misura rilevante principi di rango costituzionale e garanzie essenziali per un ordinamento democratico.

La riforma che si è provato a commentare in questo scritto lascia intravedere, pur con tutte le cautele necessarie per un provvedimento appena approvato, plurimi punti critici rispetto ai quali sono auspicabili tutte le correzioni che la prassi e l’interpretazione saranno in grado di apportare e le eventuali revisioni che lo stesso legislatore dovesse in ipotesi ritenere necessarie.

Ciò che appare comunque necessario, più di ogni altra cosa, è una visione complessiva che, mettendo finalmente da parte interventi estemporanei e legati a logiche di breve respiro, sappia coniugare l’efficacia dell’agire col rispetto degli elementi essenziali della nostra civiltà giuridica.

 

 

[1] Il commento che segue è tratto in larga parte da V. Giglio, http://www.filodiritto.com/articoli/2016/06/linsostenibile-lontananza-di-strasburgo cui sia consentito il rinvio.

Vincenzo Giglio

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