Analizziamo allora la sentenza in esame e vediamo in quali casi ai superstiti della vittima può essere concesso il risarcimento.
Niente risarcimento se la vittima muore dopo 4 ore
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito dalla Corte d’Appello e negato il risarcimento da danno biologico ai superstiti di un uomo morto quattro ore dopo l’incidente, subito dopo il trasferimento in ospedale. Questo perché le quattro ore trascorse tra il sinistro e il decesso sono state considerate un lasso di tempo troppo breve, e poiché non è stato provato che la vittima sia rimasta cosciente dopo l’incidente.
La Suprema Corte ha anche argomentato che l’importo da risarcire, quantificato dal tribunale di primo grado in oltre 370mila euro, era sbagliato poiché era stato calcolato in relazione alla probabile aspettativa di vita della vittima anziché in relazione alla sua durata effettiva.
Ma allora, come si calcola e quando è risarcibile il danno biologico da morte?
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Il danno biologico o terminale
La questione è molto complessa, ed è stata affrontata dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015. Proprio a tale, importantissima pronuncia si rifà la sentenza in esame della Suprema Corte quando divide il danno da morte in danno biologico (o terminale), danno morale (o catastrofale) e danno tanatologico.
Il danno biologico è quello che deriva dalla lesione al bene salute causata dall’altrui fatto illecito, e consiste “nei postumi invalidanti” che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato fino alla sua morte. Per questo motivo, il danno biologico si produce solo quando sia passato un “apprezzabile lasso temporale” tra le lesioni prodotte e il decesso. Le quattro ore del caso di specie non sono sufficienti, dunque il danno non è risarcibile.
Il danno morale alla vittima
Diverso, ma collegato, il danno morale soggettivo o catastrofale. La Cassazione definisce tale danno come quello che provoca “uno stato di sofferenza spirituale od intima” alla vittima, ossia la paura o il patema d’animo che devono essere sopportati dal moribondo nella coscienza che la propria condizione esistenziale stia procedendo verso l’ineluttabile fine-vita. Perché il danno morale venga prodotto, come è evidente dalla sua definizione, è necessario che la vittima si trovi in stato di “cosciente e lucida percezione”; in caso contrario, questa non potrà provare paura o sofferenza.
Nel caso di specie, non è stata fornita prova che la vittima fosse cosciente dopo l’incidente; dunque, non si ha diritto al risarcimento.
Il danno tanatologico non può essere risarcito
Per ultima, la questione più controversa. Il danno tanatologico, ossia il danno vero è proprio da morte immediata, secondo l’orientamento oggi prevalente non può mai essere risarcito. Questo perché tale danno rappresenta specificamente la perdita del “bene vita”, del tutto diverso rispetto al “bene salute” –e il danno da privazione della vita è fruibile solo dal titolare e “insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”. Non esiste, in altre parole, un soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene.
Tale orientamento, però, rimane problematico. Se la morte avviene immediatamente o dopo poco tempo dall’incidente, in sostanza il danno rimane irrisarcibile. Con la conseguenza non solo che gli eredi non possano trovare giustizia, ma anche che paradossalmente sia in alcuni casi più conveniente in termini economici provocare la morte di una persona che causare lesioni gravi. Sembra inoltre illogico come di fatto non sia possibile risarcire una vittima e i suoi eredi della perdita del bene considerato dalla stessa Costituzione il più prezioso: la vita.
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