Sulla necessità della forma scritta “ad substantiam” nel contratto d’opera tra un Ente ed un professionista
Un chiaro ed emblematico esempio di contatto e/o scambio di consensi tra P.A. e soggetto privato confluente in un accordo è rappresentato dal contratto d’opera professionale.
Quest’ultimo, difatti, si sostanzia in un contratto di tipo sinallagmatico, atteso che il professionista assume l’obbligo, verso il committente, di eseguire, dietro pagamento di un corrispettivo liberamente pattuito ovvero in base a tariffe professionali, una prestazione intellettuale.
In quanto tale, è necessaria la compresenza di tutti i requisiti essenziali previsti ex lege dall’art. 1325 c.c., quali: accordo, causa, oggetto e forma, quando richiesta ad substantiam, ovvero a pena di nullità.
E proprio quest’ultimo requisito è stato in più occasioni oggetto di studio, soprattutto da parte della giurisprudenza. Basti pensare che già in passato il S.C. ha tracciato un percorso argomentativo assolutamente innovativo che ha rappresentato un vero e proprio referente anche per la giurisprudenza successiva e più recente. In proposito, merita attenzione la sentenza della Cassazione n. 14570 del 2004, che prende le mosse dal conferimento di un incarico professionale di progettazione e direzione dei lavori di un edificio da destinare ad una nuova sede del Comando Generale dei Carabinieri, da parte del Comune.
Nel caso de quo, il professionista, in qualità di ricorrente, citava in giudizio il Comune per sentirlo condannare al pagamento della somma dovutagli quale corrispettivo delle prestazioni svolte in esecuzione dell’incarico attribuitogli dall’Ente.
Il Comune, dal canto suo, rilevava, nel merito, la nullità della delibera di conferimento dell’incarico per mancata sottoscrizione da parte del Sindaco nonché la nullità del contratto stesso.
Al riguardo, gli Ermellini nel motivare la propria decisione si soffermano sull’importanza che la forma riveste nell’ambito della contrattualistica pubblica, soprattutto ai fini della validità del negozio giuridico, evidenziando come il contratto d’opera professionale stipulato con la p.a. rientri tra quelle tipologie di negozi giuridici per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam. E di qui giungono alla conclusione che, ai fini della valida conclusione del contratto d’opera intellettuale, non possa rappresentare una valida proposta contrattuale l’esistenza di una determina o di una delibera con cui gli organi collegiali di un dato ente autorizzino il conferimento dell’incarico professionale.
La ratio giustificatrice di tale impostazione è facilmente comprensibile : le determinazioni collegiali seppur presentano una autonoma rilevanza giuridica comunque hanno solo natura autorizzatoria.
Viene così ad essere manifestata la necessità della forma scritta ad substantiam, costituendo un principio generale della materia delle obbligazioni contratte da una P.A..
Ancor più, a detta dei giudici, si stratta di una esigenza di sostanzialità che trova giustificazione nel duplice ruolo che il citato requisito formalistico è chiamato a svolgere. Difatti, se per un verso rappresenta un valido strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività pubblica, per altro, tende a facilitare l’espletamento della funzione di controllo, con la conseguenza che si pone quale espressione massima dei ben più noti criteri di rilevanza costituzionale, quali l’imparzialità e il buon andamento (cfr. art. 97 Cost.)[1].
Posizione, quest’ultima, che viene ad essere avallata anche più recentemente dalla stessa giurisprudenza di legittimità. In particolare, nel 2016 con la sentenza n. 21537 il Supremo Consesso ha nuovamente propeso per la necessità della forma scritta in relazione ai contratti d’opera professionale siglati con un’amministrazione pubblica. Sottolineando che non valgono eventuali comportamenti omissivi e/o concludenti, dovendosi, al contrario, ritenere necessaria la contestuale sottoscrizione del professionista e del rappresentante legale dell’ente. Con la conseguenza che la mancanza della forma scritta determina la nullità del contratto[2].
Sulla prova dell’incarico professionale: anche le comunicazioni per e-mail hanno valenza probatoria
Altro profilo più volte dibattuto in sede giurisprudenziale concerne la prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico professionale, consistente in consulenze e assistenza nei confronti di un ente. Sul punto, è da annoverare la pronuncia n. 1792 del 24 gennaio 2017, con la quale i giudici della Cassazione hanno inteso risolvere la questione aderendo ad una posizione estensiva, ricomprendendo anche le e-mail nel novero degli elementi a valenza probatoria.
Di seguito i fatti.
Un professionista ricorreva in Cassazione denunciando l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione addotta dal giudice di secondo grado. Ciò in ragione del fatto che la Corte d’Appello aveva ritenenuto indimostrato il conferimento dell’incarico professionale nonostante la presentazione, da parte del ricorrente, di specifica documentazione atta a provare l’esatto contrario.
Il riferimento è a delle comunicazioni avvenute via fax nonché ad e-mail intercorse tra le parti.
La soluzione offerta dai giudici di legittimità è di segno positivo per il professionista, avendo questi accolto la sua richiesta e proceduto a cassare la sentenza impugnata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’Appello.
In sintesi, questi i passaggi argomentativi che caratterizzano il dispositivo in commento.
In prima battuta, la Corte si sofferma sulla prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, ponendo a sostegno della propria tesi precedenti giurisprudenziali[3]. In particolare, sostiene che la dimostrazione del conferimento di una prestazione professionale può essere data dall’attore mediante qualsiasi mezzo istruttorio, ivi comprese le presunzioni. Al giudice di merito, invece, spetta effettuare i dovuti accertamenti circa l’attendibilità della prova, dovendosi considerare tale valutazione sottratta al giudizio del giudice di legittimità allorquando risulti essere motivata in maniera adeguata e coerente.
In secondo luogo, il S.C. pone attenzione al profilo inerente l’omessa o insufficiente motivazione nel ragionamento del giudice di merito, quale vizio dedotto da parte ricorrente a sostegno della propria linea difensiva. Sul punto, la Cassazione tiene a precisare che il suindicato vizio ricorre allorquando sia “riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia”. Ancor più, evidenzia che è la stessa legge[4] a distinguere in maniera netta quelli che sono i compiti spettanti, rispettivamente, al giudice di legittimità nonché al giudice di merito. Difatti, se per un verso, alla Corte di Cassazione va riconosciuto solo il potere di controllare – sotto il versante logico-formale nonché della correttezza giuridica – la disamina e la valutazione precedentemente eseguita dal giudice di merito, per altro, invece, al giudice d’appello spetta valutare le fonti del proprio convincimento, ben potendo questi considerare elemento probatorio ogni documento idoneo a dimostrare i fatti in causa. A tal scopo, è tenuto a valutare le prove, controllarne l’attendibilità ed operare una scelta tra quelle che risultano idonee a dimostrare i fatti.
E propria sulla scorta di tali osservazioni, gli Ermellini giungono a sostenere che la prova dell’incarico professionale ben può discendere anche da presunzioni, le quali devono ugualmente essere oggetto di studio da parte del giudice di merito nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti, ma con una precisazione. Ovvero che il procedimento di selezione (seguito dal giudice di secondo grado) deve essere necessariamente articolato in due fasi. Una di carattere analitico, nel senso che deve essere finalizzata a selezionare gli elementi che presentino una positività in termini di valenza probatoria, sia essa parziale che meramente potenziale. Deve seguire una seconda tappa, di natura sintetica, avente un preciso fine: la valutazione complessiva di quanto precedentemente rilevato, per accertare l’effettiva valenza presuntiva degli elementi raccolti.
Di qui, il giudice di legittimità accoglie il ricorso presentato dal professionista, sottolineando come nel caso di specie, la Corte d’Appello non avesse tenuto conto della produzione, da parte del ricorrente/professionista, delle comunicazioni intercorse tramite fax e posta elettronica con l’ente affidatario dell’incarico e/o prestazione professionale. Verificandosi, in tal modo, una inosservanza delle fasi caratterizzanti l’iter di selezione richiesto ai fini del convincimento nonché una pretermissione, senza alcuna motivazione, di fattori aventi una oggettiva portata indiziante. Ovvero, riprendendo testualmente le parole della Cassazione, una “totale obliterazione di elementi che avrebbero potuto condurre ad una diversa soluzione ovvero l’obiettiva carenza del procedimento logico”.
[1] Sulla stessa posizione si collocano le SS UU con pronuncia n. 6827/2010.
[2] Sempre nel 2016 la Cassazione è reintervenuta sulla tematica in oggetto, ponendosi a sostegno di una linea di pensiero più moderata. Se per un verso, difatti, sottolinea che il contratto di prestazione d’opera professionale, firmato dalle parti, deve, anche ai fini di un eventuale contenzioso, contenere una serie di presupposti, quali: la descrizione dettagliata dell’opera o del servizio richiesti; i tempi di consegna da parte del committente; i materiali necessari alla progettazione e/o realizzazione; i tempi di consegna del lavoratore; il prezzo pattuito; i tempi di pagamento; data e modalità di recesso. Per altro, invece, precisa, che il suddetto contratto ben può essere siglato anche per via orale, con la necessità che in quest’ultimo caso il professionista e/o committente dimostri l’opera che era stata programmata ed il corrispettivo concordato nonché l’ulteriore contenuto dell’accordo (Cfr. Cass., sez. VI, sent. N. 8484/2016).
[3] In senso conforme, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3016 del 10/02/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1244 del 04/02/2000; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2345 del 01/03/1995.
[4] Cfr. d.l. n. 83/2012, convertito nella Legge n. 134/2012.
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