Aspirante pubblicista: come si dà la prova della regolare retribuzione
Aspirante pubblicista: è del 16 ottobre scorso, la sentenza n. 24345 della seconda sezione della Corte di Cassazione, che si è pronunciata in relazione alla professione di pubblicista. La Suprema Corte ha affermato che, affinché l’aspirante possa iscriversi all’albo dei pubblicisti, è tenuto a dimostrare una serie di requisiti. Tra questi, quello di essere stato regolarmente retribuito dall’editore per il lavoro svolto. Precisamente, non sono sufficienti né le certificazioni dell’editore né le quietanze rilasciate dal lavoratore stesso, ma occorre l’esibizione di adeguata documentazione, che attesti il regolare pagamento di somme a favore dell’aspirante pubblicista, con cadenza annuale, da almeno due anni.
Il caso di specie
Nel caso di specie, venivano prodotte solo le quietanze della lavoratrice e il pagamento delle ritenute d’acconto, in unica soluzione, senza che vi fosse traccia certa degli avvenuti pagamenti. Tale comportamento delle parti rivela un interesse di entrambe a procedere all’iscrizione: da un lato, l’aspirante ha senza dubbio interesse ad essere inserita nell’albo e diventare pubblicista a tutti gli effetti. Dall’altro, l’editore ha senza dubbio l’interesse a non affrontare spese e sostenere costi per retribuire il lavoro svolto dalla praticante. Situazione che, purtroppo, si realizza molto spesso in certi contesti lavorativi.
L’attività dev’essere non occasionale
Proprio per evitare l’aggiramento dell’effettività dei requisiti richiesti, nonché per evitare che vi sia anche uno sfruttamento del lavoro di un’aspirante professionista, la Corte di legittimità ha ritenuto non sufficiente tale produzione documentale ai fini dell’iscrizione. Dagli atti prodotti, invero, non era possibile accertare con sicurezza che l’aspirante fosse stata regolarmente pagata.
La prova è fondamentale perché da essa si deduce che il lavoratore non ha svolto l’attività né in modo occasionale né a titolo gratuito.
La Corte fa applicazione delle norme di riferimento (artt.35 e 36 della L.69/1963), ricordando che la normativa richiede una retribuzione periodica e richiamando l’interpretazione dell’Ordine nazionale in materia, per cui si diffida dai pagamenti effettuati in unica tranche, appena prima della domanda di iscrizione. Peraltro, i fatti di causa si sono svolti quando la legge sulla tracciabilità dei pagamenti era già entrata in vigore.
La convenuta aveva l’onere di provare gli avvenuti pagamenti, onere a cui la stessa non ha adempiuto; pertanto, in applicazione delle regole processuali, la stessa è necessariamente soccombente in giudizio.
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