Abuso di posizione dominante
In una prospettiva globale, prima ancora che europea, il mercato e la strenua competizione al suo interno, necessitano di regole stringenti che consentano agli operatori economici di agire nel pieno rispetto di una logica di equità concorrenziale e di opportunità di sviluppo.
Regole stringenti ma che, al contempo, consentano agli organi deputati al controllo una vasta discrezionalità decisionale in ordine alla valutazione di comportamenti che siano, anche solo potenzialmente, dannosi per l’evoluzione fisiologica del mercato comune interno.
«C’è però da dirsi che una mera legislazione per principi non risulta di per sé sufficiente a garantire il soddisfacimento di quel bisogno di certezza in campo contrattuale che si è posto come punto di partenza della riflessione della Commissione con riguardo a questo settore. Se infatti i principi e le clausole generali costituiscono un importante correttivo dello strictum ius in quanto dotati di un’elasticità che apre all’intervento dell’interprete, allo stesso tempo lo strictum ius si pone come strumento indispensabile in termini di prevediibilità del diritto. Queste norme assolute potrebbero risultare di più difficile accoglimento da parte dei singoli stati nazionali rispetto alle norme elastiche rappresentate dai principi generali, l’adozione di queste ultime può però costruire un punto di partenza che spiani la strada in vista della possibile adozione, in tempi futuri, di un testo normativo europeo dotato di un contenuto più forte»[1].
L’elemento normativo fondante la disciplina di tale controllo, anche se sarebbe più corretto discorrere di supervisione, è presente nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, versione consolidata, da ultimo modificato dall’articolo 2 del trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, all’art. 102, precedentemente contenuto nell’art. 82 CE.
Tale norma proibisce ad una o più imprese che ricoprono una posizione dominante nel mercato interno, o su una parte sostanziale dello stesso, di trarre un’indebito vantaggio dallo sfruttamento abusivo di tale posizione, arrecando effetti pregiudizievoli al commercio tra gli Stati del Mercato comune europeo (MEC).
Si evincono quattro elementi, necessari e cumulativi tra di loro, che devono concretizzarsi affinchè possa delinearsi la fattispecie sussunta nella norma in esame:
- un’impresa o associazioni di imprese;
- una posizione dominante nel mercato interno o su una sua parte sostanziale;
- un abuso di tale posizione;
- che tale comportamento abbia l’effetto di influenzare il mercato comune.
Va preliminarmente chiarito che una posizione dominante non è di per sé proibita, rappresentando essa un elemento certamente necessario ma non sufficiente, dal momento che ciò che viene punito è l’abuso di tale posizione ed il conseguente effetto distorsivo sulle normali dinamiche del mercato interno comune.
Difatti «per il diritto comunitario l’obiettivo è tutelare la concorrenza sul mercato come strumento per incrementare il benessere dei consumatori e per assicurare un’allocazione efficiente delle risorse»[2], vigilando sulle possibili evenienze distorsive, così come specificato nelle Comunicazione della Commissione europea 2004/C 101/08, “Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 81.3 del trattato”.
Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea non fornisce una definizione assoluta di impresa, dovendosi essa ricavare dalla elaborazione giurisprudenziale dei Tribunali dell’Unione. Nello specifico, la Corte di Giustizia Europea, nel caso Hofner & Elser C-41/90 (1991), ha statuito che il concetto di Impresa, comprende ogni entità coinvolta in un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico della stessa e dal modo in cui è finanziata. Ancora nel caso Pavlov & Altri C-180-184/98, la Corte aggiunge un ulteriore elemento a questa definizione, includendo ogni attività consistente nell’offerta di beni o servizi in un dato mercato.
Un elemento estremamente importante che ne delinea ulteriormente i contorni, è ricavabile dal caso Wouters C-309/99 (2002), nel quale la Corte di Giustizia Europea chiarisce che le regole della concorrenza non si applicano ad attività che per natura, scopo e regole a cui sono soggette, non rientrano nella sfera di attività economica o che sono legate all’esercizio dei poteri di un’Autorità Pubblica.
Secondo il dettato dell’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea rientrano tra gli accordi vietati anche le decisioni di associazioni di imprese che abbiano il medesimo fine distorsivo.
Dall’esame dei casi giurisprudenziali più rilevanti e dalle norme desumibili dal Trattato si delinea dunque una definizione molto ampia di impresa, con l’eccezione escludente della Pubblica Autorità.
Altro elemento è l’effetto di influenzare il mercato comune. Anche in questo caso non abbiamo una definizione ben precisa ma è un concetto molto vasto ricavabile in parte dall’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea e soprattutto dalla giurisprudenza europea.
Proprio quest’ultima asserisce ( cfr. GlaxoSmithKline Services Unlimited T-168/01 (2006); T-Mobile Netherlands C-8/08 (2009); Ahlström Oy vs. Commissione (Woodpulp) C-89/85 (1988) ) che per una definizione esatta, occorre un’attenta interpretazione ed una scrupolosa analisi degli accordi e, quando questi manchino perché non verbalizzati, dei comportamenti e delle reazioni dei soggetti coinvolti.
Nello specifico, sulla Commissione ricade l’onere di provare tale effetto distorsivo illustrando ed evidenziando i concreti effetti anticoncorrenziali o gli accordi volti a produrre questi ultimi.
Questo perché non è facile e neanche scontato poter dedurre da accordi e/o decisioni tra imprese un’interpretazione chiara e lineare a sostegno delle tesi della Commissione, sulle volontà di influenzare iniquamente il mercato comune.
È in effetti improbabile che le imprese possano suggellare per iscritto accordi chiaramente anticoncorrenziali che devono invece essere oggetto di attenta esegesi, affiancata finanche da una scrupolosa analisi della corrispondenza e delle comunicazioni tra i soggetti coinvolti, finendo per esaminare anche le reazioni e le dinamiche aziendali nel periodo di tempo preso a riferimento dalle indagini della Commissione Europea.
In linea generale, affinché si verifichi l’effetto distorsivo del mercato attraverso un comportamento anticoncorrenziale nel commercio, non è necessario che vi sia un effettivo scambio di prodotti e servizi da un paese membro all’altro, ma è sufficiente che si creino delle condizioni ostative o fortemente limitative della concorrenza entro i confini nazionali di uno Stato membro, tali da restringere sostanzialmente o addirittura impedire la competizione in quello spazio che è pur sempre area del Mercato comune europeo.
«Incombe sull’impresa dominante (o alle imprese dominanti) di non compromettere lo sviluppo di un sano ambiente concorrenziale con le proprie politiche e strategie commerciali. In tale prospettiva, l’asimmetria tra la posizione dell’impresa dominante e quella delle altre imprese si traduce in una differente valutazione antitrust dei loro comportamenti: condotte commerciali considerate legittime, perché riconducibili alla normale attività economica di un’impresa, possono essere qualificate come abusive se realizzate da un’impresa in posizione dominante»[3].
La definizione di posizione dominante nel mercato interno è ricavabile ancora una volta dalla giurisprudenza comunitaria, nello specifico dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza Hoffmann – La Roche & Co. AG C 85/76 (1979) secondo la quale la posizione dominante esiste quando un’impresa può agire in misura apprezzabilmente indipendente dai suoi concorrenti, dai clienti e, infine, dai suoi consumatori.
Sempre la Corte di Giustizia, nel caso Akzo Chemie C – 62/86 (1991) ha stabilito una presunzione di dominanza, laddove l’impresa coinvolta possieda una quota di mercato che superi il 50%, tuttavia in tal caso sarà sempre onere dell’impresa dimostrare il contrario.
Principio fondamentale è che la posizione di dominanza di per sé non è proibita, ma è solo l’abuso di tale posizione ad essere oggetto di divieto nella lettera dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea il quale indica tra le pratiche abusive:
- l’imposizione di prezzi o di condizioni non eque;
- limitazioni nella produzione o nello sviluppo in danno ai consumatori;
- condizioni dissimili per prestazioni equivalenti a svantaggio della concorrenza;
- subordinare la conclusione dei contratti a prestazioni supplementari estranee all’oggetto dei contratti.
Ad ogni modo tale elenco contenuto nell’art. 102 non è esaustivo, ma fornisce solo una prima sommaria indicazione di quali possano essere i comportamenti abusivi.
«Le disposizioni sopra richiamate, tuttavia non forniscono né la nozione di posizione dominante, né quella di sfruttamento abusivo della stessa. Con riguardo al primo di tali concetti, la Corte di Giustizia ha precisato, con sentenza 13 febbraio 1979, causa 85/76, Hoffman La Roche c. Commissione, che tale posizione si identifica con una situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato di cui trattasi ed ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti, e, in ultima analisi, dei suoi consumatori»[4].
È possibile individuare, infatti, altri comportamenti non espressamente menzionati in esso ma ugualmente proibiti e ricavabili dalla giurisprudenza comunitaria.
In generale possiamo distinguere tra abusi di sfruttamento e abusi di esclusione.
«Nei primi rientrano le condotte in cui l’impresa dominante sfrutta iniquamente il suo potere di mercato, a prescindere dall’impatto della condotta sulla struttura concorrenziale del mercato. Un esempio può essere l’imposizione di prezzi o altre condizioni di transazione ingiustificatamente gravose […]»[5]
Gli abusi di esclusione rappresentano quei comportamenti di un’impresa dominante che impedisce l’accesso al mercato agli altri concorrenti rendendo impraticabile una concorrenza effettiva.
Tale concetto è stato puntualizzato nella sentenza Hoffman – La Roche del 1979 nella quale la Corte ha elaborato una distinzione tra concorrenza basata sul merito e condotta di esclusione che costituisce un abuso. Tale distinzione è difficile da rilevare nella pratica e richiede la necessaria comprensione delle complesse realtà economiche del mercato.
Esempi di condotte di esclusione sono il rifiuto di fornire un prodotto, prezzi predatori, rapporti di esclusiva e sconti condizionati.
- Concentrazione di imprese
Un’altra causa di distorsione del mercato comune da tenere in considerazione è la fusione tra imprese, ulteriore tema affrontato dalla normativa europea sulla concorrenza.
Le leggi che disciplinano tale fenomeno non sono fonti primarie in quanto non contenute nei Trattati europei, bensì sono fonti secondarie essendo contenute nel Regolamento n. 139/2004.
Prima del 1990 l’Unione Europea non aveva una normativa specifica in tema di concentrazione e la Commissione doveva fare riferimento agli articoli 101 e 102 del trattato sul Funzionamento dell’unione Europea per disciplinare i problemi di concorrenza generati dalle fusioni. L’attuale regolamento è stato promulgato nel 1997, è entrato in vigore nel 1999 ed ha conseguito la sua attuale forma nel 2004.
Una fusione si verifica quando due o più imprese uniscono le loro attività in un’unica entità su una base duratura. Lo scopo del controllo di tali fusioni da parte dell’Unione Europea è quello di consentire alle autorità per la concorrenza di regolare tali cambiamenti nel mercato.
«Sebbene la concentrazione nei settori riduca il numero dei soggetti dal lato dell’offerta – ponendosi quindi in antitesi con l’idea neoclassica di concorrenza – in certi casi può comunque beneficiare i clienti e i consumatori. La concorrenza internazionale spinge le imprese a essere competitive, anche tramite concentrazioni, per fronteggiare imprese di paesi con vantaggi competitivi che il sistema – Europa non può offrire»[6].
Il controllo su tale fenomeno da parte delle Autorità dovrebbe aiutare ad identificare quelle concentrazioni che creano ostacoli alla concorrenza.
L’attuale regolamento si applica a tutte le concentrazioni di dimensione comunitaria che impediscono significativamente l’effettiva concorrenza nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso. Nello specifico, tale effetto sul mercato si esplica nella creazione, o addirittura nel rafforzamento, di una posizione dominante. Si possono quindi estrapolare tre criteri: concentrazione, dimensione europea ed impedimento significativo dell’effettiva concorrenza.
Il regolamento all’art. 3 definisce la concentrazione come una situazione dove due o più imprese sono nel mercato comune, o dove una o più imprese nel mercato acquisiscono il controllo su un’altra.
Il secondo elemento è la dimensione europea che determina se siano applicabili le norme europee sulle concentrazioni o le norme nazionali del singolo Stato membro. Se ne deduce che la legge europea può essere applicata solo laddove tale concentrazione abbia un impatto oltre i confini nazionali di uno Stato, sulla base di una strenua analisi quantitativa del volume d’affari.
Quando la concentrazione raggiunge la soglia indicata dall’art. 1 del Regolamento 139/2004, l’Unione Europea ha giurisdizione in merito.
Una concentrazione è di dimensione comunitaria quando il fatturato totale realizzato a livello globale dall’insieme delle imprese interessate è superiore a 5 miliardi di euro, e ancora, il fatturato totale realizzato individualmente nella Comunità da almeno due delle imprese interessate è superiore a 250 milioni di euro, salvo che ciascuna delle imprese interessate realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale nella comunità all’interno di un solo e medesimo Stato membro.
L’art. 1 prosegue poi ulteriormente nell’elencazione di ulteriori soglie ed elementi in base ai quali determinare la dimensione comunitaria.
In ogni caso, quando una concentrazione raggiunge la soglia relativa al caso di genere, è necessario che questo venga notificato alla Commissione Europea. Vale a dire che le aziende coinvolte dovranno comunicare alla Commissione il piano di fusione delle loro attività.
Dal punto di vista procedurale, una volta comunicato alla Commissione il piano di fusione, questo deve essere sospeso fintanto che la stessa non avrà concluso le sue indagini. In caso di violazione di tale sospensione, quest’ultima potrà imporre ammende, così come stabilito dall’art. 14 del regolamento Comunitario sulle Concentrazioni. La Commissione avrà 25 giorni lavorativi, estendibili fino a 90 in caso di particolare complessità, per assumere una decisione.
Al termine dell’istruttoria, la Commissione potrà ammettere la concentrazione, vietarla oppure ammetterla a determinate condizioni.
Questo tipo di sistema crea il vantaggio non indifferente di effettuare un’unica comunicazione all’organo europeo anziché alle singole rispettive autorità nazionali sulla concorrenza dei 28 Stati membri. Al contrario, quando tale concentrazione non raggiunge invece le soglie europee indicate, non vi sarà bisogno di comunicarlo alle autorità europee ma solo a quelle nazionali.
Nei casi in cui le concentrazioni non raggiungano nemmeno la soglia prevista dalle normative nazionali, non sarà necessaria alcun tipo di comunicazione, questo perché le aziende coinvolte avranno un volume d’affari di dimensioni relativamente poco significative per essere prese in considerazione.
Quanto all’effetto prodotto dalle concentrazioni, ovvero il significativo impedimento alla concorrenza effettiva attraverso la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante, l’analisi economica è assolutamente necessaria. La Commissione sarà chiamata a valutare, infatti, da un lato gli eventuali effetti dannosi alla concorrenza, e dall’altro lato gli eventuali benefici. Il discrimine nella valutazione di una concentrazione dannosa è dato dalla significativa riduzione del numero degli attori sul mercato tale da comportare una sostanziale riduzione della concorrenza effettiva.
«Va sottolineato come la configurazione di una violazione dell’articolo 102 TFUE non richiede la dimostrazione dell’esistenza di effetti concorrenziali concreti, conseguenti allo sfruttamento della posizione dominante, essendo sufficiente accertare la potenzialità abusiva di tale condotta, vale a dire idoneità a produrre effetti di esclusione o di sfruttamento sul mercato (CG, sentenza Akzo, cit., p.ti 76-82). Peraltro, occorre aggiungere che, qualora un’impresa dominante attui effettivamente una pratica il cui fine sia l’estromissione di un concorrente, il fatto che il risultato atteso non si realizzi non è sufficiente ad escludere tale comportamento dalla nozione di abuso di posizione dominante ai sensi dell’articolo 102 TFUE (Trib., sentenze 30 gennaio 2007, causa T-340/03, France Télécom c. Commissione, Racc, II-107; 1 luglio 2008, causa T-276/04, Compagnie Maritime Belge, Racc. II-1127, p.ti 104 e 149; CG, sentenza Irish Sugar, cit., p.to 191)»[7].
- Procedure di concorrenza e poteri d’indagine della Commissione
«L’orientamento delle istituzioni comunitarie è sempre stato nel senso di limitare la libertà d’azione dell’impresa dominante che ricorre a mezzi diversi da quelli su cui s’impernia la concorrenza normale tra prodotti e servizi, fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza e il suo sviluppo»[8].
Con il Regolamento n. 1/2003 concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato si è avuto un effettivo rafforzamento delle regole sulla concorrenza decise dall’Unione Europea.
Si dispone adesso di un’applicazione decentralizzata delle regole sulla concorrenza e un rafforzamento del controllo da parte della Commissione. In altre parole le aziende sono più libere di decidere dove e quando far ricadere le loro attività, dentro o fuori il diritto concorrenziale europeo; ciò significa che la Commissione ora è in grado di focalizzarsi prettamente sui casi più seri di lesione della legge europea sulla concorrenza.
C’è bisogno di assicurarsi che le regole della concorrenza riguardanti accordi, decisioni di associazioni di imprese, pratiche concordate e abusi di posizione dominante siano applicate in modo tale da consentire alla Commissione di condurre accurate indagini, attribuendole tutti quei poteri ritenuti necessari, in particolare quelli relativi all’applicazione di sanzioni che si basano sulle decisioni prese a conclusione di approfonditi procedimenti d’indagini.
«La Commissione Europea dispone del potere di avviare indagini conoscitive di natura generale nei settori economici nei quali l’evoluzione degli scambi, il comportamento dei prezzi o altre circostanze indichino la sussistenza di restrizioni concorrenziali. Tali procedimenti, che non sono direttamente volti all’accertamento della natura anticompetitiva di una determinata condotta (ma dai quali ovviamente possono anche scaturire istruttorie individuali), hanno lo scopo di indagare la struttura del mercato interessato nel suo complesso, le relazioni con i mercati contigui, i comportamenti delle imprese e le dinamiche concorrenziali che vi si dispiegano»[9].
La commissione esercita questi poteri a seguito di una denuncia da parte di un’azienda, di un concorrente o di un semplice cittadino dell’Unione Europea, a seguito dei quali valuterà eventuali violazioni delle prescrizioni contenute negli articoli 101 e 102 del Trattato.
Le imprese interessate da procedure di infrazione avranno la possibilità di negoziare con la Commissione: la stessa azienda, difatti, può proporre un impegno concreto volto a risolvere e ad eliminare eventuali profili di violazione, come il porre fine ad una particolare intesa o accordo che abbia effetti distorsivi della concorrenza.
Da rilevare che una volta raggiunto un accordo, questo diventerà completamente vincolante per l’impresa che lo ha negoziato.
Può anche accadere che a seguito delle indagini non vengano semplicemente ritenuti applicabili gli articoli 101 e 102. Quando questo si verifica, è perché la Commissione ha una vasta gamma di ragioni a sua disposizione, potendo ad esempio rilevare che sussistano le condizioni di cui all’art. 101 co. 3 del Trattato. Nello specifico, gli accordi in questione devono contribuire a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti oppure a promuovere il progresso tecnico o economico, evitando di imporre restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi, e dare a tale impresa la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi.
La Commissione, nel prosieguo delle indagini, potrebbe ancora appurare che le condizioni di cui all’art. 101 co. 1 non siano presenti e dunque che non siano presenti profili di irregolarità.
Infine può accadere che vi sia in gioco una pubblica autorità.
Nel prendere le sue decisioni, la Commissione non opera in maniera isolata, ma dà l’opportunità ai soggetti interessati di essere ascoltati sugli aspetti e sui comportamenti eccepiti ed oggetto d’indagini. Le parti avranno anche il diritto di accesso ai documenti in possesso dell’organo competente, a patto che ciò non comporti la divulgazione o la perdita di segreti commerciali.
La Commissione ha anche la capacità e la competenza di chiedere alle autorità governative nazionali sulla concorrenza le necessarie informazioni. Del resto però va detto che tutte le autorità nazionali garanti della concorrenza che agiscono sotto il comando della Commissione, non hanno l’obbligo di divulgare le informazioni che hanno acquisito o scambiato internamente.
Essa dispone di ampi poteri d’indagini, necessari per poter supportare le decisioni che contestano determinati comportamenti. Ha il potere di scegliere un settore particolare, laddove ad esempio, l’andamento degli scambi tra Stati suggerisce che potrebbero esservi circostanze che portano ad una concorrenza nulla o distorta in quel particolare mercato.
Può richiedere alle imprese o associazioni di imprese, con semplici istanze o veri e proprie decisioni, di fornire tutte quei dettagli ritenuti necessari per svolgere le loro funzioni e per svolgere le loro indagini.
Quello che si delinea è una situazione nella quale la Commissione, prima ancora che ad imporsi, mira ad instaurare un rapporto volto alla cooperazione, perché è nell’interesse delle imprese collaborare per cercare di risolvere la situazione.
Essa, inoltre, può acquisire alle indagini dichiarazioni e intervistare qualsiasi persona fisica o giuridica che acconsenta, non essendovi nessun obbligo giuridico in merito.
Il potere più rilevante che possiede è quello di poter effettuare ispezioni, quando siano ritenute necessarie al fine di acquisire elementi probanti per la decisione finale. Le imprese, peraltro, non possono rifiutarsi e dovranno necessariamente sottoporvisi.
La Commissione avrà quindi il diritto di accedere ai locali delle aziende, ai terreni, alle case degli amministratori o dei dirigenti o di altri membri del personale, e persino di ispezionare i mezzi di trasporto, ma tutto sarà consentito solo in combinato disposto con la legislazione nazionale e se sussiste un ragionevole sospetto.
Tra le altre attribuzioni previste, ha anche il diritto di esaminare i libri e qualsiasi altro documento connesso all’azienda, che potrebbe trovare all’interno dei luoghi sopra indicati, per prenderne copie, estratti o atti; può sigillare i locali commerciali, prendere visione di libri o documenti per la durata degli accertamenti e in misura necessaria al loro espletamento, per consentire ispezioni successive o per esaminare i computer e gli hard disk e riportare tutte queste informazioni acquisite al corpo delle indagini.
Ovviamente la Commissione, nell’esercizio di tale potere, deve agire nel pieno rispetto dei diritti di difesa, i quali impongono innanzitutto un’autorizzazione scritta che specifichi l’oggetto e lo scopo dell’ispezione e le eventuali sanzioni di non conformità.
Le Autorità nazionali molto spesso poi agiscono a stretto contatto con l’Autorità europea per la concorrenza, e talvolta addirittura per conto di essa, eseguendo ispezioni mirate al fine di raccogliere informazioni per conto della Commissione.
- Penalità e sanzioni
Le pene maggiori che può infliggere sono le sanzioni economiche, che possono essere imposte però solo per un totale non superiore al 10% del fatturato totale realizzato durante l’esercizio sociale dell’anno precedente.
Gli atti sanzionatori delle infrazioni degli articoli 101 e 102 del Trattato, infliggono gravi danni alle aziende, e proprio per tale ragione, per determinare l’ammontare dell’ammenda, l’Autorità tiene conto sia della gravità dell’infrazione che della sua durata.
Oltre a ciò, la Commissione è in grado di irrogare alle imprese o associazioni di imprese penalità di mora il cui importo può giungere sino al 5% del fatturato medio giornaliero realizzato nel precedente esercizio sociale, per ogni giorno di ritardo.
Al fine di costringere le aziende a rispettare una decisione che pone fine ad una infrazione, la Commissione emana provvedimenti provvisori raggiunti sulla base di una cooperazione da entrambi le parti, per effetto della quale l’impresa o l’associazione di imprese, si impegnano ufficialmente a ripettare i termini della decisione o a fornire in maniera completa ed esatta l’informazione richiesta, oppure a sottoporsi agli accertamenti ordinati.
« Il regolamento comunitario n.1 del 2003, attribuisce alle autorità garanti della concorrenza statali (art.5) ed alle giurisdizioni nazionali (art.6) la competenza ad applicare gli artt. 101 e 102 TFUE alle intese di rilevanza comunitaria. Le autorità nazionali possono ordinare la cessazione dell’infrazione, disporre misure cautelari, accettare impegni, comminare ammende, penalità di mora o qualunque altra sanzione prevista dal diritto nazionale. Il diritto antitrust così riformato intende ridurre l’ambito dell’attività repressiva diretta della Commissione ed instaurare un sistema di cooperazione tra la stessa e le autorità garanti della concorrenza degli stati membri, nonché tra queste ultime. Il fine è raggiungere quella interoperabilità orizzontale tra sistemi nazionali, che permetterebbe il superamento dei limiti della dimensione statale. Al riguardo debbono essere ricordati i meccanismi di cooperazione come disciplina del controllo indiretto dell’attività della Commissione operato dalle Autorità nazionali e del controllo vincolante della Commissione esercitato nei confronti delle autorità nazionali. A fronte del decentramento del diritto antitrust così introdotto, sono stati rafforzati i poteri di enforcement della Commissione, di indagine e sanzionatori. Anche in tal caso si profila, a livello sovranazionale, un rapporto tra decisione amministrativa e sindacato giurisdizionale, fondato sullo scrutinio di proporzionalità: a fronte di decisioni delle istituzioni comunitarie nell’esercizio di potere discrezionale, come le valutazioni economiche complesse espresse dalla Commissione in materia di tutela della concorrenza, il controllo giurisdizionale è limitato alla verifica del rispetto delle norme procedurali e di motivazione, all’esattezza materiale dei fatti ed all’assenza di errori di diritto, di travisamento dei fatti o di sviamento di potere»[10].
Si evince dunque che la Commissione, ai sensi del regolamento 1/2003, gode di un ampio spettro di poteri sia per quanto concerne i poteri d’indagine sia per gli strumenti di cui dispone per far fronte alle violazioni delle leggi sulla concorrenza.
La decisione finale dell’autorità tuttavia non è definitiva ma è sottoposta all’eventuale vaglio della Corte di Giustizia Europea, che ha la competenza giurisdizionale per estinguere, ridurre o aumentare l’ammenda oppure la penalità di mora irrogata.
- Profili di criticità
Quanto appena detto è estremamente importante per comprendere a fondo il quadro di riferimento all’interno del quale si vogliono sviluppare alcune riflessioni.
È giusto imporre una regolamentazione al mercato in un momento di stagnazione economica?
La regolamentazione europea è effettivamente efficace per dissuadere le imprese da comportamenti scorretti?
Quale è la percezione dei cittadini e delle imprese europee riguardo l’attività svolta dalla Commissione? Quali interventi potrebbero eventualmente migliorarla?
Per quanto concerne il primo quesito, risulta fondamentale comprendere come una regolamentazione, sia essa blanda o stringente, deve essere studiata con il precipuo scopo di favorire la collettività ed evitare comportamenti scorretti da parte di terzi, che potrebbero arrecare un danno al bene comune ed ai singoli individui. Al contempo, risulta parimenti chiaro come, in un periodo caratterizzato da una forte stagnazione economica, il porre vincoli ad un mercato economico già gravato dalla crisi possa essere percepito come una scelta ciecamente burocratica che non tiene conto delle criticità contingenti. Probabilmente, optando per una salomonica scelta sub-ottimale, si potrebbe perseguire una scelta di regolamentazione attenuata sotto alcuni profili. Se è vero, infatti, che alcune posizioni dominanti potrebbero distorcere la concorrenza con ricadute negative sull’utente finale, è altrettanto possibile che i benefici in termini indiretti (come la creazione di forti sinergie fra più imprese a livello internazionale o lo sviluppo di un nuovo volume d’affari per l’indotto) superino i costi legati alla distorsione. «Nonostante sia sempre auspicabile perseguire l’ottimo, purtroppo, specialmente in situazioni così particolari come la congiuntura economica nella quale si trovano oggigiorno i Paesi europei, è necessario contemplare l’ipotesi che porti ad accettare un male necessario affinché vi possano essere delle esternalità positive maggiori»[11].
Passando ad analizzare il secondo interrogativo, bisogna rilevare senza indugio che l’autorità della Commissione è fortemente rispettata dalle aziende ed il deterrente legato alle sanzioni viene percepito come reale e determinante per molte delle loro scelte strategiche. Anche società di dimensioni estremamente rilevanti guardano con profonda deferenza a quanto espresso da questo soggetto istituzionale, specialmente perché in un periodo già così profondamente gravato dalla scarsità dei profitti, non è assolutamente possibile rischiare di incombere nei severi e cospicui provvedimenti sanzionatori. Questo deterrente vale anche, ed a maggior ragione, per le società di dimensioni relativamente più piccole: le loro scelte strategiche, infatti, potrebbero collidere con le soglie inferiori stabilite dal TFEU, facendole incappare in sanzioni decisamente insopportabili per società che spesso si trovano alle prese con un non particolarmente facile accesso al credito.
«Analizzando, infine, la percezione culturale dei cittadini e delle europee rispetto al TFEU ed all’attività della Commissione è bene rilevare come la situazione, seppur variegata a livello dei vari stati, dimostri chiari segnali di scarso interesse (Eurobarometro, 2015)»[12]. Nonostante il necessario distinguo da operarsi a livello nazionale, infatti, è dimostrato un sempre più scarso interesse verso le attività condotte a livello delle istituzioni europee, con conseguente calo della fiducia nelle azioni poste in essere dai vari soggetti che le compongono, come appunto la Commissione.
Al fine di migliorare questa percezione, ed ottenere anche un’eventuale credito d’immagine con i cittadini e le imprese, potrebbe essere utile promuovere una mirata ed organica attività di informazione volta a rappresentare le azioni portate avanti dalla Commissione ed i risultati positivi che esse hanno consentito in termini di garanzia della concorrenza e benefici per la comunità. In un momento di progressiva e sempre più profonda disaffezione per le istituzioni europee, infatti, un’azione di questo tipo potrebbe essere un viatico ottimale per rafforzare l’operato della Commissione e la percezione globale degli enti europei da parte dei cittadini e delle imprese.
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[1] Irini Liakopoulou, (2011). Le Politiche Comunitarie dell’Europa allargata, 308
[2] Laura Ammannati – Paola Bilancia, (2008). Governance dell’economia e integrazione europea vol.2, 28
[3] Bernardo Cortese, Fabio Ferraro, Pietro Manzini, (2014). Il diritto antitrust dell’Unione Europea 62
[4] Francesco Scaglione, (2007). Correttezza Economica e Autonomia Privata , 245
[5] Lorenzo F. Pace, (2013). Dizionario Sistematico del Diritto Della Concorrenza , 108-109
[6] Flavio Borghese, Maria Pia Caruso, Stefano Riela, (2005). La competitività dell’Unione Europea dopo Lisbona, 42
[7] Bernardo Cortese, Fabio Ferraro, Pietro Manzini, (2014). Il diritto antitrust dell’Unione Europea, 62-63
[8] Enrico Ghirotti, (2008). Il patto di non concorrenza nei contratti commerciali, 75
[9] Umberto Filotto, Stefano Cosma, (2011). Manuale del credito al consumo – II edizione, 121
[10] L. C. Ubertazzi, (2012). Aida. Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo, 216-217
[11] Giorgio Caridi, (2013). Conoscenza, benessere, coesione sociale e welfare
[12] AA. VV. (2015). Eurobarometro. Servizio di ricerca del Parlamento Europeo
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