Profilo relativo all’impugnazione del lodo, con riguardo imlicito – laddove vi sia necessità di distinguere – all’arbitrato “rituale”
È noto che nel processo ordinario esiste un complesso sistema di impugnazioni (appello, ricorso per cassazione, revocazione, opposizione di terzo), che consente in certe circostanze e seguendo determinati percorsi procedimentali di rimettere in discussione una decisione resa su una controversia.
Per quanto riguarda l’arbitrato, l’intero sistema delle impugnazioni del lodo è concentrato invece in cinque soli articoli (artt. 827-831 c.p.c.): oltre ai rimedi processualcivilistici tradizionali della opposizione di terzo e della revocazione, il legislatore prevede un particolare strumento per censurare il lodo, l’azione di nullità ex art. 829 c.p.c.
A voler confrontare siffatta azione di nulità con l’appello, rimedio impugnatorio alla sentenza resa dal Tribunale quale giudice di primo grado, emerge fin da subito una differenza ontologica notevole: l’appello è un mezzo di gravame che consente di mettere in discussione la sentenza resa dal giudice senza particolari restrizioni in ordine alle censure e alle contestazioni. Si è scritto in dottrina che, con l’appello, si può denunciare anche semplicemente “l’ingiustizia” della sentenza, non è necessario che vi siano particolari vizi. Anche se in questo senso si deve dare atto di una tendenza recente del legislatore a meglio definire i confini interni e esterni dell’appello, si pensi alla disciplina delle ipotesi di inammissibilità (che impone, in sostanza, un obbligo sull’appellante di indicare circostanziatamente le specifiche parti della sentenza che si contestano e, secondo alcune letture giurisprudenziali, persino l’onere di formulare una proposta di sentenza alternativa). L’appello può quindi tendenzialmente essere proposto per contestare qualsiasi vizio della sentenza, sia in ordine al rito che al merito, sia in punto di fatto che di diritto.
L’azione di nullità del lodo arbitrale è invece uno strumento di impugnazione “a critica vincolata”, cioè sottoposto a un filtro a livello legislativo: il lodo può essere impugnato unicamente se presenta alcuno tra i vizi che sono contenuti in una espressa elencazione normativa. È l’art. 829 c.p.c., rubricato non per avventura “casi di nullità”, che contiene l’elencazione: si tratta di dodici ipotesi, cui si aggiungono alcune altre eventualità prospettate nei commi terzo e quarto.
Il giudice della nullità è la Corte di Appello competente per territorio in base alla sede dell’arbitrato,
In questa sede, vorremmo previamente interrogarci sulla possibilità di contestare con l’azione di nullità i profili di fatto sottesi alla decisione della controversia. Nella struttura della sentenza, prima di procedere all’indagine nel merito giuridico della vicenda, il giudice è chiamato anche a ricostruire le vicende e gli accadimenti per come risultanti nel contradditorio delle parti e all’esito dell’(eventuale) istruzione probatoria. Nella struttura classica della pronuncia giudiziale, tale ricognizione si colloca sotto la rubrica del “fatto”. Nell’appello avverso la sentenza del giudice ordinario, l’appellante può contestare anche la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, chiedendo che il nuovo giudicante ne operi una revisione. SI badi fin d’ora che non necessariamente sarà necessaria una nuova istruzione probatoria o comunque l’assunzione di nuove prove o la riassunzione di quelle del giudizio di prime cure: lo stesso compendio probatorio può infatti innescare nel giudice d’appello un convincimento diverso, del quale questi darà conto nella pronuncia documentandone i motivi.
Ad una prima lettura dell’art. 829 c.p.c. e a una rassegna consapevole dei 12 “casi di nullità” emerge chiaramente un primo dato importante: nessuna tra le ipotesi previste fa riferimento errata ricognizione dei fatti. Manca, a livello testuale, una menzione agli “errori di fatto” compiuti dal giudice, mentre la norma dedica appositi riferimento a quelli di diritto. Siffatto silenzio ha generato non pochi interrogativi in dottrina ed è stato ritenuto a più riprese un segnale eloquente del legislatore, nel senso di una impossibilità assoluta di rimettere in discussione i profili di fatto. Tale conclusione muta radicalmente il significato stesso dell’impugnazione per nullità: il giudice di appello soffrirebbe una profonda mutilazione dello spettro del suo sindacato sul lodo. L’impossibilità di mettere in discussione i profili di fatto costituisce infatti un limite importante per una corte che riesamini una decisione già resa da altro giudice, si pensi ad esempio a come tale limite si atteggia con riguardo ai giudizi innanzi alla Suprema Corte di Cassazione (che non a caso è definita “giudice di solo diritto”).
La giurisprudenza prevalente e la manualistica più diffusa ritengono che il silenzio siffatto serbato nell’art. 829 c.c. debba e essere interpretato nel senso che i profili di fatto sono blindati innanzi alla Corte d’Appello. Questa posizione, che attinge a piene mani dal dato testuale, implica una importante differenziazione dell’arbitrato dal processo civile ordinario: nel primo, il giudizio sul fatto si risolve praticamente in unico grado, attribuendo quindi agli arbitri una responsabilità importante nel suo accertamento. La giurisprudenza sul punto ha assunto una posizione particolarmente restrittiva, ribandendo in più sedi l’inderogabile tassatività dei motivi di impugnazione ex art. 829. In tal modo, si è probabilmente tentato di circoscrivere al minimo la censurabilità del lodo, conferendo un certo spessore di specialità a tale strumento di risoluzione alternativa delle controversie ed evitando che l’arbitrato si risolvesse in una grossolana privatizzazione del primo grado di giudizio, con riserva di spiegare ogni critica al momento dell’impugnazione.
Secondo certa dottrina, una strada interpretativa per supplire al silenzio dell’art. 829 in merito agli errori di fatto poteva aprirsi facendo breccia nell’ipotesi di nullità al numero 11. In particolare, il n. 11 sanziona di nullità il lodo che “contiene disposizioni contraddittorie”. La produzione giurisprudenziale sull’argomento ha intepretato la disposizione nel senso che solo una contraddittorietà evidente contenuta nel dispositivo del lodo possa contaminarlo di nullità. Una eventuale incongruenza, anche grave, tra le argomentazioni che sono addotte in motivazione a fondamento della pronuncia arbitrale non può quindi venire in rilievo sotto tale profilo. È evidente che, se la norma fosse stata interpretata in senso ampio, gli errori di fatto avrebbero potuto essere agevolmente censurati rifugiandosi proprio in un’impugnazione sotto l’usbergo del n. 11, art. 829. La lettura interpretativa data dalla giurisprudenza è però obiettivamente suffragata dalla lettera della legge che parla testualmente di “disposizioni” contraddittorie.
Conclusivamente è possibile affermare che, ad oggi, l’errore di fatto da cui sia affetta una pronuncia arbitrale sembrerebbe – alla luce di certa giurisprudenza e in accordo con autorevole dottrina – non censurabile nel giudizio di impugnazione per nullità. Peraltro, e probabilmente non a caso, il legislatore ha escluso anche il rimedio della revocazione ordinaria con riguardo al lodo arbitrale. Da un punto di vista sistematico, questa scelta del legislatore – per come risultante dalla lettura che ne ha voluto dare la giurisprudenza – potrebbe essere inquadrata come un tentativo di differenziare profondamente l’arbitrato dal primo grado del processo civile. In particolare, sembrerebbe volersi limitare l’ampiezza della strada impugnatoria, quasi a voler circoscrivere il controllo del giudice “tradizionale” ai soli vizi gravi o macroscopici, senza consentirgli un potere di revisione incondizionato della decisione arbitrale.
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