Il caso Whatsapp tra gratuità del contratto e clausole vessatorie

Introduzione

Si è concluso con una sanzione di tre milioni di dollari il procedimento che AGCM ha esperito nei confronti di Whatsapp Inc. ad ottobre del 2016 per presunta violazione del Codice di Consumo.
Il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato un’istruttoria a seguito della modifica dei “Termini di Utilizzo” del 25 agosto 2016 in merito al presunto inserimento di clausole vessatorie. Nel corso del procedimento Whatsapp Inc. ha cercato di dimostrare l’insussistenza di violazioni del Codice di Consumo e contesta ad AGCM di aver considerato le limitazioni afferenti a quelle clausole tacciate di vessatorietà trascurando che Whatsapp Messanger è un’applicazione gratuita, un servizio globale unificato offerto a più di un miliardo di utenti in più di 180 paesi. La parte ha affermato dunque che non si potrebbe configurare un’ipotesi di squilibrio a danno del consumatore in quanto il professionista non riceve un guadagno dall’utente.
L’AGCM ha giudicato diversamente. Non ha ritenuto di considerare la gratuità del contratto del consumatore come fondamento giustificativo dell’utilizzo di clausole vessatorie ed ha precisato che, ai fini della qualificazione come contrattuale del rapporto tra Whatsapp ed il consumatore, non rileva la gratuità del servizio. La prestazione è erogata gratuitamente ma ha un vantaggio economicamente apprezzabile che ottiene aliunde .
A questo proposito, l’elaborato si pone l’obiettivo di analizzare la disciplina concernente i contratti del consumatore a titolo gratuito. In particolar modo, traendo spunto dalla difesa dei Whatsapp Inc. nel suddetto procedimento, ci si propone di comprendere se la gratuità del contratto implichi che lo stesso sia esente da interessi patrimoniali e fino a che punto la gratuità del servizio offerto possa legittimare l’uso da parte del professionista di clausole vessatorie ai danni dei consumatori.
CAPITOLO I

LA DISCIPLINA DEI CONTRATTI DEL CONSUMATORE

1. Codice del consumo e tutela dei consumatori.
Il Codice del consumo è un corpus di norme creato con lo scopo di armonizzare e riordinare le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti (art.1). Il legislatore infatti ha voluto rendere più agevole il reperimento della disciplina concernente il consumatore organizzando in un corpo unico le regole scritte fino all’anno della sua emanazione . Un’emanazione recente, figlia di un percorso storico-politico che muove i primi passi oltreoceano e che risente dell’esperienza della Comunità europea.
Le prime politiche in favore del consumatore sono dettate nel 1890 con l’emanazione della normativa “Antitrust” – meglio nota come Sherman Act – la quale disciplina una serie di pratiche scorrete ai danni tanto del piccolo commercio tanto del consumatore. È proprio in questi anni che si sviluppa il concetto di consumerism quale movimento d’opinione e d’azione con lo scopo di accrescere l’interesse dei consumatori rispetto al mercato e ai loro diritti – appunto, diritti dei consumatori. Questo fenomeno sociale viene avvertito intorno agli anni ’60 anche in Europa ed in particolar modo in Paesi come la Francia in cui si emanano le prime normative rivolte all’informazione del consumatore.
La tutela del consumatore così come disciplinata dal Codice nostrano risente in maniera massiccia dell’influenza comunitaria. Un punto di svolta si è avuto in proposito con l’iniziativa del Consiglio di indicare un «Programma preliminare della CEE per una politica di protezione e di informazione del consumatore». Tale programma ha avuto come obiettivo anche quello di rafforzare e coordinare le azioni volte alla protezione del consumatore. Consumatore non è più solo un consumatore di beni e servizi. Consumatore ora è «individuo interessato ai vari aspetti della vita sociale che possono direttamente o indirettamente danneggiarlo come consumatore» . Il consumatore è destinatario di cinque diritti fondamentali: il diritto alla protezione della salute e della sicurezza; alla tutela degli interessi economici; al risarcimento dei danni; all’informazione e all’educazione; alla rappresentanza.
L’esigenza di protezione del consumatore è avvertita più forte in Italia solo negli anni ’90. Il codice civile era monco di una normativa adeguata in materia e non vi era ancora una definizione di consumatore, che invece è offerta dal Codice del consumo. Originariamente fu inserito con l’art. 25 della legge 52 del 6 febbraio 1996 (in attuazione della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993), il capo XIVbis dedicato ai “Contratti del consumatore” (artt.1469 bis-sexises) nel libro IV del codice civile, al Titolo II (Dei contratti in generale). L’art.1469bis offriva per la prima volta una definizione di consumatore, considerato come la persona fisica che agisce “per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”; mentre, per professionista, s’intendeva “la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale” conclude un contratto. Con l’entrata in vigore del Codice del consumo si è ritenuto opportuno raggruppare all’interno di esso anche le disposizioni concernenti i contratti dei consumatori in generale e le conseguenti norme di tutela degli stessi. Gli articoli 1469bis e ss., sono stati ripresi dal Codice del consumo negli articoli 33-37 e sostituiti nel codice civile dall’unico art.1469bis, norma di raccordo tra il nuovo codice di settore e il corpus civilistico rispetto al quale soggiace la normativa dei contratti del consumatore.
Per rispondere alle esigenze di semplificazione e di riassetto normativo della disciplina del consumatore, il Governo è stato delegato con l’art. 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229, a redigere un testo unico che inglobasse le norme fino ad allora emanate, nel rispetto di quattro princìpi:
a) «Adeguamento della normativa alle disposizioni comunitarie e agli accordi internazionali e articolazione della stessa allo scopo di armonizzarla e riordinarla, nonché di renderla strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di tutela del consumatore previsti in sede internazionale.»
b) «Omogeneizzazione delle procedure relative al diritto di recesso del consumatore nelle diverse tipologie di contratto».
c) «Conclusione, in materia di contratti a distanza, del regime di vigenza transitoria delle disposizioni più favorevoli per i consumatori, previste dall’articolo 15 del decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185, di attuazione della direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 1997, e rafforzamento della tutela del consumatore in materia di televendite».
d) «Coordinamento, nelle procedure di composizione extragiudiziale delle controversie, dell’intervento delle associazioni dei consumatori, nel rispetto delle raccomandazioni della Commissione delle Comunità europee».
Il corpus che ne è nato è l’attuale Codice del consumo che si presenta dalla struttura aperta, ossia suscettibile di ulteriori modificazioni, e settoriale nel senso che disciplina le norme che prevedono la tutela del consumatore.
Esso inoltre è diviso in sei parti:
– Parte I: disciplina i princìpi in generale, contiene norme di principio ed enuncia le finalità dello stesso;
– Parte II: tratta dell’educazione al consumatore, delle informazioni fornite al consumatore, delle pubblicità e delle pratiche commerciali;
– Parte III: concerne il rapporto di consumo e tratta dei contratti del consumatore e della disciplina delle clausole vessatorie;
– Parte IV: attiene la qualità e la sicurezza dei prodotti;
– Parte V: disciplina la tutela giurisdizionale del consumatore e l’associazionismo;
– Parte VI: contiene le disposizioni finali.
Il codice è sovente soggetto a modifiche indotte dagli adeguamenti alle numerose direttive di fonte comunitaria.
1.2 Tutela del consumatore e normativa comunitaria.
Forte impulso alla disciplina concernente alla materia del consumo e alla tutela del consumatore è dato dalla normativa comunitaria.
È solo con l’approvazione dell’Atto unico europeo che venne conferito un fondamento giuridico alla politica dei consumatori. Esso dava mandato alla Commissione – organo preposto alla vigilanza sull’attuazione del quadro generale che valuta i risultati delle azioni e dei progetti – di definire le proprie proposte di legislazione per la realizzazione del mercato unico. Il Trattato di Maastricht introdusse un apposito titolo dedicato alla tutela dei consumatori (l’ex Titolo XI, ora XIV), nel quale esplicitamente si affermava l’obiettivo di garantire un “elevato livello di protezione dei consumatori”. Nello stesso titolo si precisava che le iniziative dell’Unione europea, a protezione dei consumatori, dovevano tendere ad integrare e a non sostituire le attività delle autorità nazionali regionali e locali, limitandosi a definire un livello comune di tutela dei consumatori valevole per il mercato unico. L’articolo 129 A cita espressamente:
«La Comunità contribuisce al conseguimento di un livello elevato di protezione dei consumatori mediante:
a) misure adottate in applicazione dell’articolo 100 A nel quadro della realizzazione del mercato interno;
b) azioni specifiche di sostegno e di integrazione della politica svolta dagli Stati membri al fine di tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori e di garantire loro un’informazione adeguata delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite, comprese le zone rurali.»
Fondamentale è l’art.153 del Trattato CE che, dopo aver sottolineato l’esigenza di garantire una più adeguata promozione degli interessi economici dei consumatori, del loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi, sottolinea che la Comunità provvederà a garantire un alto livello di protezione dei consumatori nella definizione e nell’attuazione di ogni sua politica. Inoltre stabilisce che la Comunità contribuisce al conseguimento degli obiettivi sopra citati mediante:
– misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative;
– misure di sostegno, di integrazione e di controllo della politica svolta dagli Stati membri, adottate dal Consiglio secondo la procedura di co-decisione.
Un’accelerazione nei tempi di produzione legislativa si ebbe nel 1992 con il varo del programma per l’attuazione del mercato unico: tra il 1988 e il 1993 furono, infatti promulgate una serie di direttive di portata settoriale che fissavano i requisiti di sicurezza per i giocattoli, i mezzi e le attrezzature di protezione del personale e che disponevano nuovi controlli sanitari e sistemi di etichettatura per gli alimenti e i prodotti agricoli.
Questa disciplina fu completata nel 1992 con una direttiva ad indirizzo generale; essa imponeva ai fabbricanti e ai distributori l’obbligo d’immettere sul mercato prodotti sicuri e attribuiva la responsabilità agli Stati membri in merito all’utilizzo delle strutture di controllo per verificarne l’applicazione.
I riferimenti normativi europei sono anche: l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali, l’art. 12 TFUE e il Titolo XV del TFUE. Gli obiettivi cui il legislatore europeo si rivolge sono molteplici: proteggere i diritti dei consumatori attraverso la legislazione, anche aiutando a risolvere le controversie con gli operatori commerciali in modo rapido ed efficiente; assicurare che i diritti dei consumatori vengano adeguati ai cambiamenti economici e sociali; garantire la sicurezza dei prodotti acquistati all’interno del mercato unico; aiutare a effettuare scelte basate su informazioni chiare, accurate e coerenti.
In attuazione degli obiettivi europei, il legislatore italiano ha avvertito l’esigenza di introdurre dapprima delle disposizioni all’interno del codice civile e poi di organizzare la normativa in un unico testo per una più facile consultazione e ricezione, il Codice del consumo. Strutturato come un codice aperto, il Codice del consumo è spesso sottoposto a modifiche necessarie tra le quali, una tra le più recenti ed importanti, è stata accolta per effetto del recepimento della Dir. 2011/83/UE. La Direttiva mira a tutelare il consumatore in fase di “ripensamento”; essa stabilisce il diritto di ripensamento che il consumatore può esercitare entro un termine di 14 giorni. Nel caso in cui il consumatore non sia stato adeguatamente informato in sede di contrattazione, ha il diritto di recedere entro 12 mesi dalla conclusione del contratto.
Per ultimo, non si può non far riferimento alla Corte di Giustizia Europea che più volte si è pronunciata in materia di protezione del consumatore. Si può citare una delle più recenti pronunce, la sentenza C-75/16 del 14 giugno 2017 in merito al decreto legge n. 50/2017. La c.d. “manovra correttiva dei conti pubblici” si poneva l’obiettivo di introdurre stabilmente nel nostro ordinamento processuale l’esperimento di un preventivo tentativo di mediazione quale condizione di procedibilità nel giudizio civile. A questo proposito, i giudici europei hanno ritenuto che la previsione di assistenza legale del consumatore nella mediazione per le controversie B2C (Business to Consumer) come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, non fosse compatibile con il diritto dell’UE. In particolare, ha ritenuto le norme di cui agli artt. articoli 5 comma 1-bis, 8 comma 1 e 8 comma 4-bis del decreto legislativo n. 28/2010 contrastanti con l’articolo 1 della direttiva 2013/11 nella parte in cui impongono al Consumatore che prende parte a una procedura ADR di essere assistito necessariamente da un avvocato.

 

1.3 Strumenti di tutela del consumatore: AGCM
La tutela del consumatore trova attuazione grazie al lavoro di numerosi soggetti ed organismi ai quali sono attribuiti compiti e funzioni diversi tali da non permettere una ricostruzione unitaria degli stessi. Tra questi ci limiteremo ad elencare:
– Autorità per l’energia elettrica e il gas: ha il compito di fissare periodicamente i prezzi massimi per la fornitura in regime di maggior
– tutela; promuovere interventi di efficienza nel settore energetico; dettare le regole minime al fine di garantire alle utenze un servizio fornito di qualità; controllare che non vengano violate le regole della concorrenza; accogliere reclami degli utenti e cerca soluzioni per le controversie tra utenti e fornitori.
– Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle telecomunicazioni, dell’editoria, dei mezzi di comunicazione di massa e delle poste.
– Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob): ha il compito di regolamentare la prestazione dei servizi di investimento, gli obblighi informativi delle società quotate e le offerte al pubblico di prodotti finanziari; autorizzare la pubblicazione dei prospetti informativi relativi ad offerte pubbliche di vendita e dei documenti d’offerta concernenti offerte pubbliche di acquisto, l’esercizio dei mercati regolamentati, le iscrizioni agli albi di settore; vigilare sulle società di gestione dei mercati e sulla trasparenza e l’ordinato svolgimento delle negoziazioni, nonché sulla trasparenza e correttezza dei comportamenti degli intermediari e dei promotori finanziari; sanzionare i soggetti vigilati, direttamente o formulando una proposta al Ministero dell’Economia e delle Finanze; controllare le informazioni fornite al mercato dalle società quotate e da chi promuove offerte al pubblico di strumenti finanziari, nonché le informazioni contenute nei documenti contabili delle società quotate; accertare eventuali andamenti anomali delle contrattazioni su titoli quotati e compie ogni altro atto di verifica di violazioni delle norme in materia di manipolazione del mercato (fattispecie oggi applicabile in caso di società quotate), abuso di informazioni privilegiate (insider trading) e di aggiotaggio.
– Garante per la protezione dei dati personali: ha il compito di controllare che i trattamenti siano effettuati nel rispetto delle norme di legge; ricevere ed esaminare i reclami e le segnalazioni e provvedere sui ricorsi presentati dagli interessati; vietare anche d’ufficio i trattamenti illeciti o non corretti ed eventualmente disporne il blocco; promuovere la sottoscrizione di codici di deontologia e buona condotta di determinati settori; segnalare al Governo e al Parlamento l’opportunità di provvedimenti normativi richiesti dall’evoluzione del settore; esprimere pareri nei casi previsti; curare la conoscenza tra il pubblico della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali e delle relative finalità e in materia di misure di sicurezza dei dati; denunciare i fatti configurabili come reati perseguibili d’ufficio conosciuti nell’esercizio delle sue funzioni; tenere il registro dei trattamenti; predisporre una relazione annuale sull’attività svolta da presentare al Governo e al Parlamento; essere consultato da Governo o Ministri quando questi predispongono norme che incidono sulla materia; cooperare con le altre autorità amministrative indipendenti; organizzare il proprio ufficio ed il proprio organico ed il loro trattamento giuridico, economico ed amministrativo.
– Banca d’Italia: che concorre alle decisioni della politica monetaria unica nell’area dell’euro e svolge gli altri compiti che le sono attribuiti come banca centrale componente dell’Eurosistema. Può effettuare operazioni in cambi conformemente alle norme fissate dall’Eurosistema.
In questa sede si concentrerà l’attenzione sull’Autorità Garante per la concorrenza ed il Mercato. Meglio nota come AGCM, è stata istituita in tempi recenti con legge n. 287/90 ed è un’autorità amministrativa indipendente italiana che «opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione» . Organo collegiale, è composto da un Presidente, scelto tra persone di notoria indipendenza e che abbiano ricoperto incarichi istituzionali, e quattro membri, scelti tra magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti o della Corte di Cassazione, professori universitari ordinari di materie economiche o giuridiche, o personalità con alta professionalità. Il consesso è nominato con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei Deputati e dal Senato della Repubblica per sette anni senza possibilità di secondo incarico. Non possono esercitare alcuna attività professionale né di consulenza, né possono ricoprire cariche in altri enti od organi pubblici.
L’Autorità, in collaborazione con le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, è tenuta all’espletamento dei propri doveri, quali:
a) Assicurare le condizioni generali per la libertà di impresa, che consentano agli operatori economici di poter accedere al mercato e di competere con pari opportunità;
b) Tutelare i consumatori, favorendo il contenimento dei prezzi e i miglioramenti della qualità dei prodotti che derivano dal libero gioco della concorrenza.
In merito a quest’ultimo obiettivo, l’AGCM si è aperta negli ultimi anni a vagliare il settore del e-commerce e dei contratti «di massa» ossia quei contratti predisposti nel loro contenuto normativo dall’imprenditore, che può essere una persona fisica o giuridica, il quale offre beni o servizi ad una pluralità di consumatori, appunto una massa generalizzata di individui che sono i consumatori. I contratti di massa sono generalmente moduli o formulari predisposti unilateralmente dal professionista i quali richiedono per il loro perfezionamento la semplice sottoscrizione da parte del consumatore. Quest’ultimo è spesso ignaro del contenuto normativo del contratto -complesso e a tratti oscuro- che sottoscrive, non ne conosce le clausole –scritte in modo minuscolo-, né tanto meno ha contezza dell’operazione che compie ma semplicemente compila degli spazi bianchi inserendo i propri dati personali e accettando, con la spunta di un quadratino, condizioni e termini di servizio non letti. Dal contratto discendono obblighi e diritti per entrambe le parti come in un comune contratto di diritto privato: il professionista ha l’obbligo di erogare il servizio o di vendere il bene, il consumatore ha l’obbligo di pagare quella prestazione o quel servizio. Come un comune contratto, è un accordo tra due o più parti per costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico. Ma diversamente da un contratto di diritto privato, il contenuto normativo non è il frutto di un accordo libero e bilaterale tra le parti, ma vi è una parte, il professionista, più forte contrattualmente rispetto all’altra, il consumatore, in quanto ha il potere di determinare il predisporre e imporre le norme negoziali e quindi le condizioni del futuro rapporto giuridico ed economico. Questo fenomeno ha attirato l’interesse e la preoccupazione del legislatore, nazionale ed europeo, che ha cercato di colmare il gap tra le due parti contrattuali. Il professionista infatti, a fronte di una maggiore competizione sul mercato, può abusare del potere contrattuale e somministrare al consumatore, ignaro, clausole contrattuali vessatorie ossia che determinano ai danni di quest’ultimo uno squilibrio tra diritti ed obblighi. Per arginare e prevenire situazioni pregiudizievoli per il consumatore, l’Autorità verifica le modalità di erogazione dei servizi e la trasparenza nelle comunicazioni rivolte al pubblico. L’Autorità si muove in due direzioni:
– Rispetto al consumatore: mira ad informare ed a sensibilizzare; diffondendo conoscenza delle condizioni d’uso dei servizi e offrendo massima trasparenza e concorrenzialità;
– Rispetto al professionista: ha il potere di irrogare sanzioni e accertare che questi agisca senza incorrere in violazioni gravi ai danni dei consumatori.
L’Autorità può avviare un’istruttoria in materia di pratiche commerciali scorrette, d’ufficio o a seguito di una segnalazione con una denuncia on-line. A seguito della denunci, se l’AGCM ritiene di avviare il procedimento, il denunciante verrà informato con lettera o con pubblicazione di un avviso su internet qualora ci fossero molteplici segnalazioni.
L’Autorità può disporre con provvedimento motivato, la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette laddove sussista particolare urgenza. In caso di accertamento positivo di pratica commerciale scorretta, al termine dell’istruttoria, il Garante diffida i responsabili dal continuare a porla in essere e può infliggere una sanzione pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro, a seconda della gravità e della durata dell’azione commessa. In caso di pubblicità ingannevole e comparativa, la sanzione da irrogare va da 5.000 a 500.000 euro.
Nel caso accerti un comportamento illecito può tentare una moral suasion, invitando l’impresa a rimuovere i comportamenti oggetto di contestazione ovvero può imporre la pubblicazione della propria delibera o di una dichiarazione rettificativa, a spese dell’impresa, sui mezzi ritenuti più idonei. Nei casi di particolare urgenza, qualora si ritenga che nelle more del procedimento possano prodursi effetti gravi e irreparabili, l’Autorità può sospendere provvisoriamente in via cautelativa la pratica scorretta o il messaggio ingannevole (art. 27, comma 3, del Codice del consumo e art. 8, comma 3, del Dlgs. n. 145/2007). Al comma 7 del medesimo art.8, si prevede che nelle ipotesi di non manifesta gravità e scorrettezza della pratica le imprese possano presentare impegni idonei a porre fine all’infrazione.
In materia di clausole vessatorie, l’Autorità, d’ufficio o su denuncia, può accertare la vessatorietà delle clausole, sicché adotta un provvedimento che viene pubblicato, anche per estratto, sul suo sito e su quello dell’operatore (il professionista) che ha adottato la clausola ritenuta vessatoria, e viene comunicato con ogni altro mezzo ritenuto opportuno per informare i consumatori.
Per poter svolgere le proprie mansioni, l’Autorità può collaborare con la pubblica amministrazione o altri enti ovvero può chiedere al professionista rispetto al quale avvia un’istruttoria, il recepimento di informazioni. In caso di diniego, essa può comminare sanzioni pecuniarie nel caso in cui il professionista non fornisca le informazioni richieste ovvero qualora le stesse non siano veritiere, nonché in caso di inottemperanza del professionista all’obbligo di pubblicazione del provvedimento che ha accertato la vessatorietà delle clausole.

 

2. Clausole vessatorie nei contratti tra consumatore e professionista
La tutela del consumatore è strettamente legata al mondo delle clausole vessatorie. L’evoluzione delle pratiche commerciali ha diffuso esponenzialmente l’utilizzo dei contratti standardizzati preferendoli ai contratti classici che sembrano esser diventati quasi anacronistici in un’epoca in cui con pochi click si può bypassare la dilatazione dei tempi necessari per la conclusione degli accordi contrattuali. La dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate riconduzione dei contratti standardizzati alla disciplina civilistica del contratto. L’aspetto rispetto al quale si è focalizzata la loro attenzione concerne l’obliterazione dei dettati volontaristici secondo la teoria per cui “la volontà è determinante degli effetti: qui sta la caratteristica propria del negozio giuridico” . Caratteristica, quella della volontà delle parti nel negozio giuridico, che pare non essere pregnante nei contratti tra consumatore e professionista. I contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista, detti contratti di adesione, sono particolarmente meritevoli di attenzione perché si tratta di moduli o formulari prestampati il cui contenuto è predisposto da una sola delle parti, con cui vengono definite a priori le condizioni che regoleranno i rapporti tra un soggetto e l’altro. Sono diffusi soprattutto nel commercio su larga scala, in particolare, nei servizi bancari, assicurativi, nelle società di telecomunicazioni o di fornitura di servizi (gas, luce, acqua).
In questa prospettiva si inserisce il problema dell’utilizzo di clausole e termini sconvenienti per il consumatore ma che lo stesso, spesso ignaro, si trova ad accettare. Sono vessatorie quelle clausole contenute nei contratti che vengono formulate in modo da risultare particolarmente sfavorevoli per il consumatore al carico del quale creano uno squilibrio. Sono disciplinate dall’art. 33 comma 1 del Codice di Consumo il quale cita: “Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.”. Parimenti, anche il codice civile ex art.1341 comma 2, afferma che “in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”.
La disciplina del Codice dei Consumatori (ex art.33) e la disciplina civilistica (ex art.1341) non si sovrappongono ma si integrano l’un l’altra presentando tratti comuni e tratti differenziati. La prima distinzione si rileva sul piano sanzionatorio: le clausole elencate ex art. 33 sono da considerarsi nulle, mentre sono inefficaci invece quelle previste dal codice civile. Altra distinzione si rinviene sul piano della rilevabilità ex officio, prevista dal Codice del consumo, preclusa nel codice civile. Il Codice del consumo prevede anche il principio di trasparenza delle clausole contrattuali, differentemente dalla disciplina civilistica. Aspetto comune è l’idoneità della trattativa individuale ad escludere la vessatorietà delle clausole contrattuali.
Il carattere di vessatorietà delle clausole si desume da un’analisi che accerti l’esistenza di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi del consumatore, tenuto conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto, delle circostanze esistenti al momento della sua conclusione e delle altre clausole del contratto. “La valutazione della vessatorietà non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto o all’adeguatezza del corrispettivo dei beni o servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile” .
Affinché possa essere applicata la disciplina delle clausole vessatorie è necessaria la sussistenza di:
– Presupposti soggettivi: vi deve essere un professionista (ex art.3 C.d.C.) individuata in base a criteri oggettivi consistenti nel fatto di agire non per fine di lucro ma per la propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale. Pertanto anche un’associazione o un ente pubblico non avente scopo di lucro ma attivo sul mercato per offrire beni e servizi dietro corrispettivo è ritenuta tale. Il professionista deve contrattare con un consumatore o utente ossia con colui che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, artigianale, commerciale o professionale.
– Presupposti oggettivi: l’art.34 C.d.C. esclude che siano dichiarate vessatorie quelle clausole frutto di una trattativa privata con la quale il singolo utente ha inciso o influenzato il contenuto del contratto. È sottoposto alla disciplina delle clausole vessatorie il contratto standard ossia quello preformulato ovvero quello che è predisposto unilateralmente dal professionista mentre è da escludere a priori quel contratto in cui il consumatore ha inciso nella determinazione del contenuto contrattuale ovvero quello in cui il consumatore scelga tra due o più regolamenti contrattuali predisposti unilateralmente dal professionista. Non sono da considerarsi vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge ovvero siano riproduttive di disposizioni o attuative di princìpi contenuti in convenzioni internazionali di cui siano parte gli Stati membri o la UE.
I criteri di valutazione di vessatorietà sono disciplinati dall’art. 34 C.d.C. per i quali la vessatorietà va valutata:
1) Tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto;
2) Facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione;
3) Facendo riferimento alle altre clausole del contratto stesso o di altro collegato o da cui dipende.
Al comma 2 si disciplinano i criteri che delimitano l’ambito del giudizio in base ai quali la vessatorietà non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto e all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi purché tali elementi siano stati individuati in modo chiaro e comprensibile.

2.1. Clausole vessatorie: lista grigia e lista nera.
La disciplina delle clausole vessatorie non si esaurisce in quelle contemplate dall’art. 33 del codice dei consumatori ma si estende anche all’art. 36 C.d.C. Le fattispecie tipizzate dal legislatore sono sottoposte ad una presunzione di vessatorietà a priori dal legislatore la quale è relativa per quanto concerne il comma 2 dell’art. 33 ed assoluta per quanto concerne il comma 2 dell’art. 36. A questo proposito la dottrina parla di lista grigia e lista nera di clausole vessatorie.
La lista grigia concerne quelle clausole per le quali è prevista una presunzione iuris tantum di vessatorietà, presunta fino a prova contraria. Secondo l’elencazione prevista dall’art.33.2, si presumono vessatorie quelle clausole che hanno per oggetto o per effetto di:
[…] b) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
[…] d) prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà;
[…] g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;
[…] m) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;
[…] u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore.
Il consumatore può chiedere al giudice che venga dichiarata vessatoria anche la clausola che ha sottoscritto. La prova contraria con cui si accerta la non vessatorietà delle clausole deve essere fornita dal professionista sul quale incombe l’onere di dimostrare che la clausola sospetta non determina un significativo squilibrio ai danni del consumatore e non contrasta con il dovere di buona fede oggettiva. Il significativo squilibrio di diritti e obblighi contrattuali ai danni dei consumatori si deve intendere secondo un’accezione normativa piuttosto che economica attinente alla convenienza economica dell’affare o delle prestazioni. Lo squilibrio contrattuale che danneggia il consumatore incide sulla sua posizione giuridica in quanto ne comporta una incisiva diminuzione di diritti o garanzie contrattuali. La presunzione di vessatorietà non si esclude qualora vi sia approvazione per iscritto della clausola.
L’elencazione delle clausole non è da considerarsi tassativa ma esemplificativa, potendosi ritenere vessatorie anche quelle clausole non espressamente previste dal legislatore purché dirette a realizzare un significativo squilibrio tra professionista e consumatore.
La lista nera contiene invece la disciplina delle clausole che si ritengono sempre vessatorie ex art.36.2 C.d.C. «Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;
b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.»

CAPITOLO II

CONTRATTI GRATUITI E INTERESSI PATRIMONIALI

1. Contratti gratuiti
La riflessione oggetto di questo elaborato concerne l’inserimento delle clausole vessatorie nei contratti gratuiti. In particolar modo, ci si domanda se e fino a che punto sia legittimo l’utilizzo di clausole vessatorie nei contratti che offrono un servizio gratuito. A tal fine, si rende necessario analizzare la categoria dei contratti gratuiti.
Il genus degli atti di autonomia negoziale comprende una serie di classificazioni specificati da nomina iuris particolari e diretti a finalità diverse. Rispetto a questo mare magnum, si rinvengono quegli atti negoziali che differiscono, a seconda dell’assenza o meno del corrispettivo che si è tenuti a dare in cambio del vantaggio da ottenere, in contratti gratuiti e contratti a titolo oneroso. I contratti a titolo oneroso fanno corrispondere una diminuzione patrimoniale all’assunzione di un corrispondente vantaggio. I contratti a titolo gratuito invece comportano un vantaggio a favore di una delle parti contrattuali, parte che non dovrà corrispondere alcuna prestazione o altro sacrificio patrimoniale. Nei contratti gratuiti manca quindi il cd. sinallagma ossia “quel nesso funzionale tra le attribuzioni poste l’una in funzione dell’altra” , il quale si può rinvenire invece in quelli a titolo oneroso in cui le parti si assoggettano vicendevolmente a corrispondere delle prestazioni. “La semplice gratuità implica soltanto l’assenza di un corrispettivo a fronte di un’attribuzione che non comporta un depauperamento in senso tecnico nell’altra parte del contratto”. Il codice civile prevede che fattispecie contrattuali, come il mandato (art.1703 c.c.), il deposito (art.1766 c.c.), il mutuo (art.1813 c.c.), la fideiussione (art.1936 c.c.), possano concludersi tanto in forma onerosa tanto in forma corrispettiva,. Qualora non si specificasse il titolo del contratto si potrà ricorrere alla disciplina del codice civile specificamente al caso concreto. Ad esempio, in assenza di specificazione del titolo, il mandato e il mutuo si presumono onerosi.

1.2 (Segue) Contratti gratuiti e interesse economico
I contratti gratuiti sono finalizzati alla realizzazione di interessi economici apprezzabili, nei quali il sacrificio economico del disponente non è compensato da una controprestazione o da un corrispettivo immediato e diretto, bensì da un vantaggio economicamente apprezzabile ottenuto aliunde . L’utilità che l’autore persegue in corrispondenza della prestazione non è strettamente patrimoniale ma rientra in un’operazione giuridico-economica unitaria.
Rispetto ai contratti gratuiti tipici e reali, quali ad esempio il deposito ed il mutuo, i conflitti sulla natura patrimoniale dell’atto sono risolti con l’istituto proprio del ius Romanorum consistente nella traditio, idonea a soddisfare gli interessi economici dell’operazione. Il contratto coinvolge interessi che possono palesarsi anche in un momento successivo la sua conclusione e che si possono rinvenire da un’attenta lettura delle clausole contrattuali. Ad esempio, rispetto al contratto gratuito di deposito, il depositario avrà l’interessa a ricevere in custodia il bene qualora vi sia un ritorno economico di tipo pubblicitario. Nel comodato invece l’unico interesse del comodatario sarà quello di ottenere la disponibilità del bene o quello del comodante di liberarsi di un bene per avere un vantaggio futuro.
Contratti gratuiti atipici sono invece quelli in cui vi è la controprestazione di dare non valutabile patrimonialmente o la cui controprestazione risponde al soddisfacimento di interessi non economici . Rispetto a questa particolare tipologia di contratti gratuiti, anche se la prestazione gratuita è effettuata in mancanza di un corrispettivo, la prestazione mira a realizzare un interesse patrimoniale o ad ottenere un vantaggio patrimoniale, tale da escludere lo spirito donandi dell’azione. Manca dunque un corrispettivo economico immediato in termini di sinallagmaticità ma ne consegue ugualmente il soddisfacimento di un interesse economico in rapporto di causalità mediata o indiretta. L’ottenimento di un certo vantaggio economico è ciò che spinge il contraente ad effettuare gratuitamente la prestazione. Nonostante vi sia un vantaggio per il disponente è da escludere che il contratto sia di scambio in quanto, se così fosse, il sacrificio dovrebbe essere sopportato da entrambe le parti contrattuali mentre nel contratto gratuito tipico una parte, il beneficiario, non sopporta alcun svantaggio poiché non esegue alcuna prestazione a vantaggio del disponente. Il rapporto tra prestazione e vantaggio fa presumere l’esistenza di un interesse economico nei confronti del soggetto che esegue la prestazione.

2. Gratuità, liberalità e cortesia
La categoria di atti a titolo gratuito ricomprende non solo gli atti gratuiti tipici ed atipici ma anche un’altra sottocategoria costituita dagli atti di liberalità, rispetto ai quali è bene fare le dovute precisazioni.
Gli atti di liberalità sono caratterizzati dalla causa di liberalità consistente nell’arricchimento di una parte contrattuale di qualunque entità attraverso un impoverimento dell’altra parte. Il soggetto rispetto al cui patrimonio si opera un depauperamento opera motu proprio senza che ci sia un dovere giuridico, morale o sociale che lo induca ad arricchire l’altra parte contrattuale. Nel negozio di liberalità rientrano numerose figure negoziali tra le quali emblematica risulta quella che incarna legislativamente lo spirito della liberalità : la donazione. L’art.769 c.c. definisce la donazione come quel contratto a titolo gratuito con cui una parte (il donante), per spirito di liberalità, arricchisce l’altra (il donatario) disponendo a suo favore un diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione. Gli essentialia negotii desunti dalla disposizione codicistica della donazione, ma che vigono per tutti i sottotipi degli atti di liberalità, sono due: spirito di liberalità (animus donandi) del donante e l’arricchimento del donatario. L’animus donandi ha carattere soggettivo in quanto si sostanzia nell’elemento volitivo ossia nella volontà del donante di attribuire al donatario un arricchimento “indebito” poiché non dovuto da alcun vincolo giuridico, morale o sociale, al quale consegue un impoverimento del donante. La causa della liberalità consiste dunque in un arricchimento-impoverimento volontario mentre non assumono rilievo i motivi interni psicologici che inducono a compiere la donazione. Qualora mancasse il requisito soggettivo della volontà, la sola causa della liberalità non integrerebbe tale requisito. Il donante non solo deve voler attribuire un quid pluris al donatario ma non deve neppure esservi tenuto e deve essere cosciente del mancato stato di coercizione. Distinta dalla volontarietà risulta la spontaneità cui il legislatore fa menzione nell’art.2034 c.c. in tema di obbligazioni naturali. In qual caso infatti la spontaneità consiste nella mancanza di costrizione ad adempiere subita dal solvens (chi paga) ma non rileva il fatto che il solvens abbia creduto di dover adempiere ad un’obbligazione civile. È sufficiente che si adempia senza essere sottoposti a costrizioni esterne concrete. Nel caso degli atti di liberalità invece non solo vi deve essere l’assenza di una costrizione esogena ma deve mancare altresì la credenza del donante di essere tenuto a corrispondere al donatario una certa attribuzione. Per quanto attiene al secondo parametro, consistente nell’arricchimento-impoverimento, si denota un carattere oggettivo rilevabile nel mutamento del patrimonio dei due contraenti. L’atto di liberalità imprime un depauperamento al patrimonio del donante ed un arricchimento diretto ed equivalente del donatario. Dunque il donatario deve essere arricchito di quei beni patrimoniali di cui si è volontariamente spogliato il donante tramite trasferimento di un diritto reale o di credito ovvero con la costituzione di un diritto di credito a carico del donante e a favore del donatario. Rispetto alla rappresentazione dell’elemento oggettivo vi sono numerosi orientamenti dottrinari. L’uno afferma che la liberalità si può desumere solo qualora l’arricchimento consista in un plusvalore patrimoniale nella sfera del donatario . Questo orientamento, sostenitore della tesi dell’arricchimento in senso economico, porta a considerare negozio a titolo gratuito quello in cui non c’è vantaggio patrimoniale o che comporti una riduzione del patrimonio del donatario mentre considera di liberalità quell’atto con cui la sfera giuridica del donatario si arricchisce con l’addizione di un nuovo diritto (diritto disposto o obbligazione assunta dal donante) anche qualora non comporti incrementi economici .
È bene però far le dovute distinzioni in merito a negozi gratuiti e liberali. I negozi gratuiti costituiscono un ampio genus nel quale vi rientrano anche gli atti di liberalità, pur non esaurendosi in questa categoria. In merito ai metodi con cui si distinguono atti gratuiti e di liberalità, la dottrina si divide in due orientamenti. “Una parte della dottrina ritiene che tra gratuità e liberalità intercorra un rapporto genus ad speciem” . Non ogni atto gratuito è liberale ma ogni atto liberale (donativo e non donativo) è gratuito . Il negozio a titolo gratuito si caratterizza per la presenza di un’attribuzione senza corrispettivo mentre il negozio di liberalità presenta un quid pluris consistente nel depauperamento del donante in favore di un arricchimento per il donatario . Nei negozi a titolo gratuito il vantaggio consiste nella non richiesta di una contropartita per il beneficio procurato (per esempio nel comodato gratuito vi è il godimento di un bene) . I negozi gratuiti danno luogo ad uno svantaggio e vantaggio patrimoniale qualitativamente diversi da quelli della donazione perché consisterebbe in una omissio adquirendi ossia in una mancata spesa, ben diverso dall’impoverimento che si determina nell’atto di liberalità . Altra dottrina ritiene invece che la distinzione tra le due categorie debba operare, secondo la teoria dell’alterità, sulla base dell’eterogenesi: i negozi gratuiti mirano a realizzare un interesse patrimoniale, quelli liberali un interesse non patrimoniale causa giuridica dell’atto donativo .
Parimenti gratuiti e privi di interesse patrimoniale sono i rapporti di cortesia ossia quelle situazioni che operano al di fuori del diritto, legate dal carattere di gratuità dei comportamenti intersoggettivi i cui limiti sono rappresentati dalla solidarietà sociale . La categoria del rapporto cortese comprende in sé un indefinito numero di relazioni rispetto alle quali prassi giurisprudenziale e teoria, cercano di risolvere di comprendere in presenza di quali condizioni la cortesia assuma rilevanza giuridico-negoziale. Le relazioni di cortesia fanno parte della quotidianità (l’invito a cena di un amico, la promessa di rassettare la casa, la gentilezza di aiutare un’amica a salire i bagagli su un autobus, ecc.). Sono azioni che si compiono in favore di parenti, amici o persino nei confronti di sconosciuti in virtù del cd. “ampio galateo sociale” che impone regole di costume sociale. Parte della dottrina pone a fondamento di queste prestazioni solidaristiche l’art.2 Cost. che sancisce il principio di solidarietà sociale ; altro orientamento le ritiene essere specchio di un comportamento sociale “avente una causa urbanitatis” dal momento che fondarle su un principio costituzionale come l’art.2 richiamerebbe il concetto di doverosità dell’adempimento che in realtà non può convivere con la sostanza delle relazioni cortesi. L’annosa questione in merito alla “forza di attrazione diritto rispetto al non-diritto si manifesta pienamente nei casi in cui la relazione cortese si sovrappone a una precisa tipologia contrattuale” come il mutuo, il comodato o il deposito. Talvolta la sovrapposizione tra il rapporto cortese e quello contrattuale (rispetto a contratti tipizzati) si evolve con la nascita di un contratto con causa gratuita e motivo di cortesia . Rispetto ai contratti non tipizzati e aventi irrilevanza patrimoniale, il diritto non ha alcun interesse a regolare tali situazioni che rimangono nel mondo del non-diritto . La prestazione cortese non è solo gratuita, ma manca anche di un interesse patrimoniale, essendo disinteressata e animata da cortesia. La prestazione ha come motore un intento altruistico che si dimostra anche nel disinteresse dell’agente verso l’arricchimento del beneficiario della relazione cortese. Sotto questo profilo si coglie il discrimen tra cortesia e liberalità in quanto, in quest’ultimo caso, l’agente è teso a che il destinatario si arricchisca mentre nel caso della cortesia la finalità ultima non consiste nella volontà di provocare un arricchimento al beneficiario ma è nell’intento stesso di solidarietà sociale.

3. Affidamento come fonte dei vincoli contrattuali nei contratti gratuiti.
La questione maggiormente meritevole di studio ai fini del presente elaborato consiste nel ragionevole affidamento che le parti contrattuali nutrono vicendevolmente nei contratti gratuiti.
Il legittimo affidamento, definito come “parte dell’ordinamento giuridico comunitario” , può essere inteso come un particolare aspetto del principio di buona fede contrattuale (ex artt.1175 e 1375 c.c.). Si discorre di tutela del legittimo affidamento quando “un soggetto ha confidato nel contegno della controparte e tale stato di fiducia si fonda su circostanze oggettive e ragionevoli” . Secondo la teoria dell’affidamento legittimo “ogniqualvolta sia riscontrabile una divergenza tra volizione interna ed esteriorità della dichiarazione, ciò che conta è verificare se la manifestazione fosse idonea a suscitare un affidamento nel destinatario” . A fondamento di questo principio è l’esigenza di sicurezza e di certezza delle contrattazioni tale per cui è necessario adottare una soluzione che si ancori allo stato soggettivo e al grado di consapevolezza di chi riceve la dichiarazione che deve sempre operare con la diligenza del buon padre di famiglia . “Molteplici sono le ragioni di politica legislativa che la dottrina ha individuato per giustificare il fondamento delle varie norme che proteggono l’affidamento. Per i più, ciò risiederebbe nell’esigenza di garantire sicurezza e stabilità nel commercio giuridico, esigenza che verrebbe realizzata accordando prevalenza, ai fini dell’interpretazione e dell’esistenza stessa dell’atto negoziale, a quanto è stato dichiarato dal disponente o che si può oggettivamente desumere dal suo contegno. Tale tutela assume rilevanza nell’ambito dei contratti e degli atti unilaterali recettizi a contenuto patrimoniale. Una indiscriminata applicazione dei princìpi e dei valori, come quello dell’affidamento, peculiari dei rapporti economici, non appare, infatti, consentita nella disciplina dei rapporto non patrimoniali per la sostanziale diversità dei fenomeni” .
Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti, il principio di affidamento non si può escludere per i negozi a titolo gratuito. Tali atti negoziali rientrano nella categoria dei contratti patrimoniali in quanto realizzano interessi e vantaggi economicamente apprezzabili. “La patrimonialità non è un limite all’autonomia; (…) serve a verificare l’idoneità di un determinato bene ad essere comunque oggetto di atti di autonomia” .

CAPITOLO III

CONTRATTI GRATUITI E CLAUSOLE VESSATORIE: IL CASO WHATSAPP

1. Caso Whatsapp Inc.
Si è concluso nel maggio 2017 il procedimento esperito da AGCM nei confronti di Whatsapp Inc. in merito all’inserzione di clausole vessatorie in occasione del rinnovo dei termini di utilizzo avvenuto nell’agosto precedente. L’Autorità aveva avviato una doppia istruttoria: l’una volta ad indagare la vessatorietà di alcune nuove clausole contrattuali; l’altra invece finalizzata ad accertare che si siano condivisi dati personali degli utenti Whatsapp a Facebook. Non è questo però l’unico ostacolo che intralcia la multinazionale; “è Margrethe Vestager, commissaria Ue alla concorrenza, a rivelare in un’intervista a Bloomberg che l’Unione europea aveva chiesto chiarimenti all’azienda” in merito ai termini introdotti ad agosto che avrebbero violato l’obbligo di non condivisione dei dati a Facebook. La non condivisione, infatti, era stato uno dei punti dirimenti che avevano garantito a Facebook il nulla osta europeo all’acquisizione -di quasi 19 miliardi di dollari- dell’app. L’uso di clausole vessatorie e la condivisione dei dati a Facebook sono costate più di 100 milioni di euro: da un lato l’AGCM ha inflitto a Whatsapp una multa da 3 milioni di euro, dall’altro l’Antitrust UE ne ha chiesti 100 milioni a Facebook (proprietaria di Whatsapp) per aver fornito informazioni fuorvianti al momento dell’acquisto di Whatsapp.
Oggetto di giudizio dell’AGCM sono le clausole ritenute vessatorie ai sensi di quanto stabilito recentemente dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea secondo il sistema di tutela del consumatore istituito dalla direttiva 93/13/CEE e recepito in Italia dal codice dei consumatori, in particolar modo dall’art.33. Il sistema di tutela del consumatore stabilisce che si accerta vessatorietà qualora “il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda, sia il potere nelle trattative che il livello di informazione, situazione questa che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte senza poter incidere sul contenuto delle stesse”. Tali clausole, disciplinate ex art.33.2 C.d.C. sono soggette ad una presunzione relativa di vessatorietà, il che comporta l’onere del professionista di fornire al Garante gli elementi utili per poterne affermare la liceità. Le clausole tacciate di vessatorietà da parte di AGCM concernono:
a) Responsabilità contrattuale: il Professionista si esonera dal fornire garanzie esplicite o implicite in merito all’esattezza, alla completezza, all’utilità delle informazioni, al funzionamento, alla mancanza di errori, alla sicurezza o alla protezione del servizio. La responsabilità del Professionista è altresì esclusa in caso di lucro cessante o danni consequenziali, speciali, punitivi, indiretti o accidentali. Inoltre si afferma che “l’utente accetta di esentare, manlevare e tenere indenni le Parti di WhatsApp da qualsiasi tipo di responsabilità, danno, perdita e spesa (comprese ragionevoli spese e oneri legali) relativi a, derivanti da o comunque connessi a […] il suo accesso ai, o utilizzo dei, Servizi. […].”
b) Disponibilità del servizio: “[…] WhatsApp si riserva il diritto, in qualsiasi momento, di non fornire più alcuni o tutti i Servizi, comprese determinate funzioni e l’assistenza per alcuni dispositivi e piattaforme. […].”
c) Risoluzione del contratto: WhatsApp si riserva il diritto di modificare, sospendere o non consentire all’utente l’accesso ai Servizi o il loro utilizzo in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo pur rimanendo le nuove disposizioni in vigore anche in seguito alla risoluzione o scadenza del contratto con WhatsApp.
d) Modifiche contrattuali unilaterali: WhatsApp si riserva la facoltà di chiedere all’utente di accettare condizioni aggiuntive in futuro per determinati Servizi. L’utilizzo continuativo dei Servizi comporta l’accettazione dei Termini così come modificati altrimenti l’utente dovrà interrompere l’utilizzo dei Servizi.
e) Foro competente e legge applicabile: si stabilisce che il foro competente è situato esclusivamente presso il Tribunale Federale degli Stati Uniti della California settentrionale o presso un Tribunale dello Stato della California situato nella contea di San Mateo in California e accetta di sottostare alla giurisdizione di tali tribunali per la risoluzione di tutte le Controversie.
f) Ordini: Whatsapp si riserva il diritto di non accettare o recedere dagli ordini e di non fornire rimborsi per i nostri Servizi, fatti salvi i casi in cui è richiesto dalla legge.
g) Lingua: i Termini sono stati originariamente redatti in inglese (USA). Le versioni tradotte vengono fornite esclusivamente a titolo informativo. In caso di conflitto tra qualsiasi delle versioni tradotte dei nostri Termini e la versione in lingua inglese, è stata stabilita la prevalenza della versione in lingua inglese.
Di contro, la Parte contesta all’Autorità di non avere attuato alcun “bilanciamento di interessi”, richiesto dalla Direttiva 93/113 e dal C.d.C., non avendo considerato che, offrendo WhatsApp un servizio globale unificato, l’eventuale obbligo di predisporre Termini diversi per ciascuna giurisdizione comporterebbe un ostacolo alla possibilità di erogare il proprio servizio, e dunque si concreterebbe uno svantaggio per i consumatori. Si contesta inoltre di non aver tenuto conto del contesto fattuale e controfattuale di cui all’art.34 c.1 e agli artt.4 comma 1 della Direttiva 93/13 nella misura in cui AGCM ha trascurato di considerare le limitazioni afferenti a quelle stesse clausole tacciate di vessatorietà, le clausole precedenti e successive dei Termini ed il fatto che WhatsApp è un’applicazione unica utilizzata gratuitamente da oltre un miliardo di persone in più di 180 paesi di cui, nel 2016, 30-50 milioni di utenti italiani. Per avallare la difesa, il Professionista richiama un precedente caso deliberato dall’Autorità in relazione al quale la stessa avrebbe riconosciuto la non vessatorietà di alcune clausole che limitavano le facoltà dell’assicurato (consumatore), perché le stesse erano funzionali e con risvolti positivi per i consumatori. Si era quindi tenuto conto dei vantaggi reciproci di assicuratore e assicurato. La Parte invoca l’applicazione della stessa ratio a WhatsApp sul presupposto che gli utenti traggono vantaggio dall’esistenza dell’app di messaggistica proprio perché questa offre un servizio unico ed uniforme, diffuso e disponibile in tutto il mondo e regolato da termini di utilizzo che non potrebbero che essere standardizzati, per il bacino di utenza mondiale al quale sono rivolti. La parte prosegue con le osservazioni a quanto presunto dall’AGCM in merito alla vessatorietà di alcune clausole. Si può così analizzare:
a) Responsabilità contrattuale: non possono considerarsi vessatorie le clausole concernenti la responsabilità contrattuale perché queste sono volte a delimitare l’oggetto del contratto e l’ambito di applicazione delle obbligazioni reciproche tra Whatsapp e utente. L’applicazione di messaggistica comporta, per il suo funzionamento, una pluralità di azioni od omissioni che dipendono dalla condotta dei terzi e sfuggono dal proprio controllo (come nel caso dei fornitori di accesso ad Internet o di reti di telecomunicazioni). La vessatorietà è da escludersi in quanto la limitazione di responsabilità del professionista non genera alcuno squilibrio ai danni dei consumatori perché l’importo massimo per il risarcimento di un eventuale danno arrecato all’utente deve essere commisurato in maniera proporzionale alla gratuità dei servizi Whatsapp.
b) Disponibilità del servizio: Whatsapp sostiene che non vi sarebbe squilibrio in quanto gli utenti possono risolvere il rapporto contrattuale in modo discrezionale, senza preavviso, costi aggiuntivi o ulteriori conseguenze tramite l’opzione ‘elimina il mio account’. Tanto il cliente è libero di sospendere o interrompere il proprio servizio, tanto la controparte dovrebbe avere la medesima possibilità di sospendere il servizio per motivi tecnici o che esulano dal proprio controllo, come nel caso di sviluppi tecnologici di software ai quali si deve adeguare la piattaforma WM.
c) Risoluzione del contratto: l’utente è nella condizione di disattendere il servizio e quindi risolvere il contratto liberamente e discrezionalmente eliminando il proprio profilo all’interno dell’applicazione. Da questo ne consegue il diritto di Whatsapp di risolvere il contratto altrettanto discrezionalmente senza quindi provocare uno sbilanciamento nella sfera dei diritti del consumatore.
d) Modifiche contrattuali unilaterali: la Parte sostiene che l’articolo 33, comma 2, lett. m), del Codice del consumo si applica a fattispecie in cui “gli obblighi di una parte restano immutati per tutta la durata del contratto, mentre l’altra parte è libero di modificare i propri obblighi. Nel caso di specie, l’utente non sarebbe mai vincolato ad adempiere nessun obbligo nei confronti di WhatsApp, incluso qualunque obbligo di pagamento in quanto l’applicazione offre un servizio in modo totalmente gratuito.
e) Foro competente e legge applicabile: la difesa afferma che l’articolo 33, comma 2, lett. u), del Codice del consumo riguarda esclusivamente la scelta del Foro e non anche la scelta della legge applicabile al contratto, clausola che sarebbe equa, in quanto non priverebbe di per sé gli utenti di proporre domande giudiziali presso i tribunali nazionali. È proprio il diritto dell’Unione europea a considerare valida la clausola sulla scelta della legge applicabile nei contratti dei consumatori. La scelta del Foro competente è una scelta derivante dall’elevato numero di utenti che si aggira sul miliardo, tale per cui sarebbe eccessivamente oneroso per il professionista poter affrontare procedimenti giudiziari in fori e con leggi differenti. Anzi, è proprio la scelta dell’applicazione di unici TU a livello globale ad essere garanzia di un’applicazione uniforme che tutela i consumatori di tutto il mondo.
f) Ordini: la società ritiene che i Termini di Utilizzo non le attribuirebbero “un diritto illimitato di cancellare ordini o rifiutare rimborsi, bensì il diritto di cancellare ordini o rifiutare rimborsi in particolare all’interno dell’applicazione WhatsApp quando l’utente violi la clausola ‘Accettabile uso dei nostri servizi’, nel qual caso l’utente non potrà utilizzare WhatsApp per legge o in ragione di una violazione dei Termini, anche a danno di altri utenti.
g) Lingua: la Parte afferma che la prevalenza della versione in lingua inglese sarebbe, diretta a garantire l’applicazione uniforme dei Termini a livello globale e non a privare i consumatori delle tutele loro garantite dalle leggi nazionali
L’articolo 35, comma 2, C.d.C. non proibisce l’uso, nei contratti con i consumatori, di lingue diverse da quella italiana, né richiede la disponibilità di una versione ufficiale dei Termini in lingua italiana. Tale previsione semplicemente dispone in caso di dubbio, la prevalenza dell’interpretazione di una clausola contrattuale più favorevole ai consumatori, indipendentemente dalla lingua in cui tale clausola sia stata redatta.
La difesa di Whatapp non ha sortito esito positivo sì che l’AGCM l’11 maggio 2017 ha deliberato la vessatorietà delle clausole aventi ad oggetto i contenuti sopra esposti, disponendo che il Professionista pubblicasse sul proprio sito web il provvedimento dell’AGCM entro venti giorni, a pena di sanzione amministrativa pecuniaria tra un minimo di 5.000 ed un massimo di 50.000 euro. Per giungere a questa decisione, non soltanto vi è stato uno studio sulle clausole dei termini di utilizzo ma vi è stata anche una riflessione sulle questioni preliminari. Si è osservato che l’utente nel momento in cui installa, accede o utilizza WM stia accettando i Termini di Utilizzo in toto e senza aver la possibilità di incidere nella trattativa avente ad oggetto le clausole di cui si compongono i TU dal momento che queste sono precostituite dal Professionista. La somministrazione delle clausole al cliente al fine della loro accettazione è già sufficiente – a detta del Garante – per dimostrarne la vessatorietà. Per quanto attiene alla questione relativa al “bilanciamento di interessi” invocato dalla Parte in riferimento al caso “Vittoria Assicurazioni”, AGCM replica che ogni decisione presa si fonda su elementi specifici che attengono al singolo caso analizzato e al contesto di riferimento in cui si inserisce. Pertanto non potrà applicarsi una regola generale, che era specifica per un caso, a tutti gli altri casi, indistintamente. Tant’è che un recente provvedimento, del novembre 2016, adottato nei confronti di un Professionista assicurativo ha accertato la vessatorietà di una clausola che, sebbene apportasse un vantaggio al cliente, limitava il diritto di difesa del consumatore. In riferimento alla standardizzazione dei TU, non si ravvede alcun nesso tra questo e l’esigenza di offrire un servizio unico e uniforme, nonché disponibile a tutti e nello stesso modo. Offrire un servizio uguale a consumatori di tutto il mondo è possibile anche adattando i Termini ai diversi contesti giuridici dei paesi in cui si dirige l’attività del Professionista.
L’aspetto più interessante di questo provvedimento rispetto al quale si vuole tirare le fila del lavoro, è quello che attiene al rapporto tra gratuità e clausole vessatorie.
Il Professionista, nel tessere la propria difesa, ha affermato che non vi potesse essere ipotesi di vessatorietà delle clausole esaminate da AGCM in quanto sono sottoscritte da utenti che sono coscienti di utilizzare un servizio gratuito e quindi sono libere di poter disattivare l’applicazione in qualsiasi momento senza dover pagare alcuna mora.
Il Centro di Tutela dei Consumatori, quale associazione interpellata da AGCM volta a tutelare gli interessi dei consumatori, ha evidenziato che la clausola attinente all’esclusione di responsabilità sarebbe illegittima in quanto, nonostante il servizio offerto sia gratuito, nega il legittimo affidamento dell’utente rispetto al servizio ed il consumatore non potrebbe obiettare alcunché in caso di malfunzionamento dell’applicazione.
In verità il servizio non può definirsi gratuito. Il Garante evidenzia l’esistenza di un consolidato orientamento della Commissione europea che riconosce la natura di controprestazione non pecuniaria dei dati degli utenti dei social media i quali offrirebbero un valore economico idoneo a considerare l’esistenza di un rapporto di consumo tra Professionista e l’utente . Secondo la Commissione europea, “i dati personali, le preferenze dei consumatori e i contenuti generati dagli utenti hanno un valore economico de facto e vengono venduti a terzi” . Il consumatore, pur non prestando direttamente un corrispettivo in denaro, presta i propri dati personali i quali vengono utilizzati da Whatsapp come “merce di scambio” con altri Professionisti affamati di ricevere informazioni utili a fini pubblicitari. La rilevanza economica dei dati è stata confermata da una dichiarazione resa dal Professionista nel corso dell’audizione. Whatsapp ha infatti affermato che il modello di business al quale si conforma si basa sull’acquisizione dei dati dei propri utenti e sull’utilizzo dei numeri dei propri utenti.

2. Gratuità e vessatorietà delle clausole.
Interessante si dimostra lo spunto offerto dalla difesa di Whatsapp in merito al rapporto tra gratuità e vessatorietà delle clausole. Il Professionista, pur offrendo un’analisi dettagliata ed analitica sulle clausole oggetto di giudizio da parte dell’Autorità, afferma che siano da presumere legittime le clausole contenute nei novellati TU in quanto il servizio al quale attengono è erogato gratuitamente.
Fino a che punto sono legittime clausole vessatorie apposte in riferimento a contratti gratuiti? Fino a che punto la gratuità del contratto legittima la parte a far venir meno il legittimo affidamento dell’altra? La questione non è affatto semplice.

Il legittimo affidamento quale garanzia di serietà e affidabilità si applica a tutti i contratti concernenti rapporti patrimoniali. E tali sono i contratti a titolo gratuito in cui si perseguono interessi apprezzabili secondo una valutazione economica. In merito a questo, una recente sentenza ha avuto modo di affermare che l’affidamento non necessariamente trova fondamento in un corrispettivo economico alla prestazione contrattuale. Dunque si può affermare l’esistenza di un legittimo affidamento rispetto ad un contratto che è stipulato gratuitamente, ossia senza un corrispettivo alla prestazione offerta. I contratti gratuiti infatti sono un genus ampio nel quale le prestazioni che ne sono oggetto non ricevono un corrispettivo economico o patrimoniale. I contratti gratuiti hanno un interesse patrimoniale e questo può essere anche ingente ma il beneficiario non è tenuto a corrispondere alcunché al suo prestatore. Chi esegue la prestazione gratuitamente è libero di farlo, e lo fa in modo volontario.
Nel momento in cui un soggetto si presta volontariamente ad arricchire in modo giustificato l’altra parte senza voler ricevere un corrispettivo immediato, questi si pone nella situazione di dover rispettare i termini contrattuali che sono stati oggetto di trattativa da entrambe le parti. Pertanto il beneficiario dovrà essere tutelato dall’ordinamento in quanto nutre un legittimo affidamento a che l’altra parte contrattuale agisca in termini di buona fede, quale che sia l’interesse del contratto e quale che sia la sua forma, a titolo oneroso o gratuito.
Nei contratti dei consumatori il cliente non è in grado di incidere nelle trattative contrattuali ma è tenuto ad accettare o rifiutare le condizioni predisposte dal Professionista al fine di ricevere gratuitamente un servizio. Poiché è diritto del beneficiario pretendere un comportamento leale da parte del Professionista consistente nel rispetto dei termini contrattuali sottoscritti, è necessario che gli stessi termini siano leciti ai sensi del codice dei consumatori. Leciti sono quei termini che non importano uno squilibrio delle posizioni contrattuali tale, ad esempio, da permettere al Professionista di defilarsi dalla somministrazione del servizio o dall’offerta di un servizio completo.

3. Conclusione: il caso Whatsapp tra gratuità del contratto e clausole vessatorie.
Per concludere è necessario partire dal quesito che ha indirizzato questa ricerca: è legittimo l’uso di clausole vessatorie nei contratti del consumatore gratuiti? La risposta non è affatto semplice e lineare.
In primis, è necessario comprendere se il contratto stipulato tra Whatsapp e i Consumatori sia un contratto gratuito. Nel contratto gratuito vi è un soggetto che eroga un servizio o una prestazione in maniera gratuita ed un altro che beneficia del servizio. Nel caso esaminato, il Professionista eroga un servizio –quello di messaggistica Whatsapp- e lo fa gratuitamente ossia senza che venga corrisposta una somma di denaro; il beneficiario, ossia il Consumatore, gode del servizio senza l’esborso di alcun importo. Nei contratti gratuiti, il disponente non è sottoposto ad un impoverimento ma ottiene un vantaggio economicamente apprezzabile aliunde con cui soddisfa il suo interesse patrimoniale. Allo stesso modo, Whatsapp Inc. eroga un servizio senza ricevere un guadagno diretto ma lo ottiene tramite i dati che sono conferiti dal consumatore. L’oggetto frutto di interesse economico è l’insieme dei dati personali dei singoli consumatori che il Professionista venderà a multinazionali del settore pubblicitario. Si può quindi affermare che il contratto Whatsapp è gratuito.
In secundis, dopo aver dimostrato che il contratto Whatsapp è gratuito, è bene ricapitolare quanto detto nei paragrafi precedenti. Le clausole vessatorie inserite nei contratti tra professionista e consumatore non sono lecite in quanto “malgrado buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” (art.33 C.d.C.). Questa disposizione trova ragione nella necessità di verificare l’equità e l’equilibrio sostanziale del regolamento contrattuale, non quello economico ma quello dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il consumatore infatti, riveste una posizione debole, in quanto è costretta ad accettare un contratto dal contenuto preformulato dal Professionista. Qualora nel contratto vengano inserite clausole che comportano uno squilibrio di diritti e obblighi a danno del consumatore, queste sono nulle, pur rimanendo il contratto valido. Rispetto a questa disciplina, non rileva che il contratto stabilisca o meno un corrispettivo alla prestazione offerta. Nel caso di specie, il contratto tra Professionista e Consumatore è gratuito. La gratuità, quale mancanza di corrispettivo diretto alla prestazione offerta, non esclude che vigano le disposizioni concernenti le clausole vessatorie e non esclude l’esistenza di un legittimo affidamento. Il Consumatore ripone affidamento nell’altra parte contrattuale e dunque pretende che questa offra il servizio nei termini sottoscritti, termini che devono essere leciti e dunque privi di clausole vessatorie.

Bibliografia
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Giurisprudenza
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Corte di Giustizia, sentenza 30 maggio 2013 in causa C-488/11 (cfr. pt.31); sentenza 14 giugno 2012 in causa C-618/10, sentenza 21 febbraio 2013 in causa C-472/1, sentenza 30 aprile 2014, in causa C-26/13
Caso Vittoria Assicurazioni – Interpello (CV13) del 15 marzo 2015
Consiglio di Stato (Sez. V) 3 ottobre 2017, n. 4614

 

 

 

Dott.ssa Zappatore Margherita

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