1. I BENI DEL DEMANIO MARITTIMO: DEFINIZIONE, FUNZIONE E CLASSIFICAZIONE.
Per beni pubblici destinati alla navigazione s’intendono tutti quei beni demaniali che rientrano tra i mezzi che consentono alla Pubblica Amministrazione di perseguire le proprie finalità in materia di navigazione latu sensu.
Queste finalità sono realizzate in via diretta attraverso l’impiego dei beni ed in via indiretta attraverso il godimento degli stessi da parte di tutti coloro che possano usufruirne. Nell’insieme dei mezzi rientrano, invece, i diritti e le potestà che spettano alla Pubblica Amministrazione sui beni appartenenti ai privati, in relazione al perseguimento dei pubblici interessi attinenti alla navigazione.
Prima di passare in rassegna i beni demaniali marittimi appartenenti allo Stato, occorre soffermarsi sul concetto di mare territoriale, evidenziando come in dottrina si dubiti se lo stesso possa considerarsi bene demaniale dello Stato; infatti quest’ultimo non appartiene allo Stato a titolo di proprietà pubblica, tuttavia, per affinità, la dottrina maggioritaria ritiene che il mare territoriale possa essere trattato come bene demaniale statale sul presupposto che il Codice della navigazione (articolo 524 del Regolamento della navigazione marittima) stabilisce che, per l’occupazione e l’uso di zone di mare territoriale e per l’esercizio della polizia sul mare territoriale, si applicano le disposizioni stabilite per il demanio marittimo.
Il mare territoriale si estende per 12 miglia verso il largo a partire dalla linea di base, detta anche linea verde (carta ufficiale 330 L.B.), che unisce i punti estremi di golfi, seni o baie che non superino tra loro la distanza delle 24 miglia; nel caso di costa non frastagliata la linea di base coincide con la linea di bassa marea (art. 2 c.n.). Le zone di mare comprese tra la linea di base e la costa sono denominate acque interne (la linea di base della costa italiana è stata ricavata secondo considerazioni di natura tecnica ed i suoi limiti sono stati fissati con D.P.R. n. 816/1977).
Il mare territoriale, così come il suo fondo e sottofondo, é soggetto alla sovranità dello Stato che, sebbene sottoposta ad alcune limitazioni, è analoga a quella esercitata nello spazio aereo, sul territorio e sulle acque interne. In particolare, sul mare territoriale lo Stato esercita la polizia della navigazione latu sensu, la vigilanza doganale, il diritto d’esclusione delle navi da guerra straniere dalla navigazione nazionale e la giurisdizione civile e penale (ad esclusione, nel caso di navi straniere, dei fatti che non hanno diretto riflesso sul territorio dello Stato italiano). Nel mare territoriale è inoltre consentito il transito inoffensivo alle navi mercantili straniere, tuttavia, in casi particolari, le acque interne possono anche essere dichiarate chiuse al traffico; mentre per le navi da guerra straniere il transito inoffensivo presuppone una richiesta d’autorizzazione alle autorità centrali. Con L. n. 359/1974 l’estensione del limite delle acque territoriali italiane è stato ampliato a 12 miglia; in precedenza, infatti, le acque territoriali erano estese solo fino a 6 miglia dalla linea di base e le restanti 6 miglia erano denominate zona contigua (tale zona, che in base alla Convenzione di Montego Bay dovrebbe estendersi fino a 12 miglia dal limite esterno delle acque territoriali, non risulta ancora oggi ufficialmente proclamata dallo Stato italiano, tuttavia la sua istituzione implicita parrebbe desumersi dal Decreto Interministeriale del 14.07.2003, in materia di esercizio dei poteri di polizia dell’antimmigrazione). Quanto detto acquista particolare rilevanza se solo si consideri che l’esercizio dei poteri di polizia marittima latu sensu trova uno dei principali limiti proprio nell’ambito spaziale del mare territoriale e della zona contigua; tuttavia è appena il caso di evidenziare che seppure in casi residuali (tratta di schiavi, pirateria, danneggiamento di condutture sottomarine, trasmissioni non autorizzate e navi prive di bandiera) i poteri delle Stato costiero possono estendersi anche alle acque internazionali.
Fatta questa doverosa premessa occorre adesso distinguere, nell’ambito del genus dei beni demaniali appartenenti allo Stato, la species dei beni facenti parte del demanio marittimo statale.
Per demanio statale in generale s’intendono tutti i beni appartenenti allo Stato, destinati per natura o per legge al soddisfacimento di una funzione pubblica e perciò sottratti al commercio, con i quali la collettività entra in rapporto di fruizione diretto e gratuito.
Più in particolare, il demanio destinato a soddisfare gli usi pubblici del mare, riconducendo a tale categoria non solo quelli concernenti le attività in connessione diretta col mare (pesca, navigazione, ecc.) ma anche quelli che presuppongono l’utilizzazione indiretta a favore della collettività (diporto, balneazione, ecc.), rientra nella categoria del demanio marittimo. I beni demaniali marittimi fanno parte del demanio necessario. Il demanio necessario comprende tutti quei beni immobili che devono essere demaniali ipso facto: sono in altre parole demaniali per natura, questi beni sono tutti di proprietà dello Stato, e solo eccezionalmente delle Regioni (ad es. nella Regione Sicilia il trasferimento dei beni demaniali marittimi è avvenuto col D.P.R. n. 684/1977).
I beni demaniali marittimi, per la loro intrinseca conformazione fisica, sono per eccellenza beni del demanio necessario. Infatti, per unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale al criterio naturalistico determinato dall’esame dei luoghi e delle loro caratteristiche morfologiche è riconosciuto rilievo preminente per l’individuazione del bene demaniale. Tuttavia la giurisprudenza, per le situazioni più difficilmente accertabili, ha avvertito la necessità di ricorrere ad altri criteri che confermassero, integrassero o sostituissero quello naturalistico, da qui il ricorso alle mappe catastali. A queste ultime “non può negarsi il valore di un mezzo sussidiario di prova” (cfr. Cass. Sez. II, civ. 11 luglio 2002 n. 10121; Cass. Sez. II, civ. 06 settembre 2002, n. 12976). E’ evidente che nelle predette ipotesi (di difficile accertamento), così come più volte affermato dalla giurisprudenza, vige il criterio generale dettato dall’art. 950 ult. co. c.c., in base al quale nel regolamento dei confini tra due proprietà “in mancanza d’altri elementi il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali essendo al riguardo principio ampiamente condiviso dalla giurisprudenza che la menzionata regola di giudizio trova piena applicazione anche nella determinazione dei confini tra proprietà pubblica e proprietà privata” (Cass. sez. III pen. 1 febbraio 1985, n. 184; Trib. di Palermo, 24 ottobre 1997 n. 6364).
La natura demaniale di tali beni si fonda, preminentemente, sulla potenziale utilizzabilità degli stessi per i cosiddetti usi pubblici del mare (diporto, navigazione, balneazione, pesca, turismo, ecc.) coerentemente con la loro naturale destinazione. Ne consegue che ai fini della demanialità rileva non solo l’idoneità astratta insita nel bene, ma anche la sua funzione pubblica nei confronti della collettività. Da quanto anzidetto scaturisce il terzo criterio su cui si basa l’individuazione del bene demaniale, ossia l’uso pubblico del mare cui fa espresso riferimento l’art. 35 c.n.; sul punto giova ricordare come parte della giurisprudenza abbia affermato che, in alcuni casi, “l’idoneità al soddisfacimento dei pubblici usi del mare si desume implicitamente anche nella stessa destinazione o utilizzazione che i privati ne fanno”.
I beni del demanio marittimo costituiscono, per la vastità dell’estensione territoriale e la particolarità delle utilizzazioni, la categoria di beni pubblici di maggiore rilievo ambientale. Elemento comune di tali beni è il fatto di delimitare o circondare lo spazio acqueo marino.
Il bene demaniale appartiene allo Stato ed è destinato, per natura o per legge, al soddisfacimento di una funzione pubblica, da ciò discende la sua inalienabilità, incommerciabilità ed inespropriabilità. Ne consegue che i beni che fanno parte del demanio in generale e marittimo in particolare non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti da leggi specifiche (Cass., Sez. II, 17 marzo 1998 n. 2844).
L’attribuzione ai privati di diritti di godimento sui beni del demanio marittimo si realizza attraverso provvedimenti unilaterali di concessione, provvedimenti rientranti nell’ampio concetto di provvedimenti di polizia amministrativa, e non quindi attraverso contratti di diritto comune; ed il loro godimento a scopi lucrativi (da parte dei privati) non può avvenire gratuitamente.
Una prima classificazione nazionale (poiché i vari stati preunitari avevano diverse legislazioni in materia) dei beni facenti parte del demanio marittimo si rinveniva nel Codice della Marina Mercantile del 1865 (entrato in vigore il 1° Gennaio 1866), che all’art. 157 elencava fra i beni del pubblico demanio il lido del mare, i porti, i seni e le spiagge. La classificazione definitiva è, invece, da ricondursi al Codice della navigazione (e all’annesso Regolamento per la navigazione marittima) di cui al R.D. n. 327/1942, entrato in vigore il 21 aprile 1942 e tuttora vigente. La principale differenza tra il vecchio e il nuovo Codice della navigazione sta nella scomparsa della categoria dei seni e nell’introduzione di quella delle rade.
In particolare, i beni facenti parte del demanio marittimo sono elencati nell’art. 28 c.n. (generalmente considerato come una specificazione integrativa dell’art. 822 del Codice Civile) che cita testualmente: “Fanno parte del demanio marittimo: a) il lido, la spiaggia, i porti, le rade; b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno una parte dell’anno comunicano col mare; c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo”.
L’elencazione di cui all’art. 28 c.n. comprende diverse tipologie di beni demaniali marittimi che si differenziano, gli uni dagli altri, per i loro intrinseci caratteri fisici e per l’utilizzo che di essi viene fatto. In particolare il Codice della navigazione distingue:
Il lido del mare che, per definizione, è quella porzione di litorale che si trova ad immediato contatto con il mare e che si estende fin dove arrivano le massime mareggiate invernali, con esclusione dei momenti di tempesta. Nella nozione di lido rientrano anche le scogliere, gli scogli, i massi scogliosi, le dighe naturali, i promontori e le punte, in quanto si presentano in aderenza con il mare. Per giurisprudenza ormai consolidata (Cass. n. 2417, Sez. II 23 aprile 1981), ai fini dell’appartenenza di un’area rivierasca al demanio marittimo, si ritengono essenziali i seguenti requisiti: a) che l’area sia normalmente coperta dalle mareggiate ordinarie; b) che almeno in passato sia stata sommersa e che tuttora sia utilizzabile per uso marittimo; c) che, comunque, il bene sia necessariamente adibito ad usi attinenti alla navigazione, anche solo potenzialmente.
La spiaggia è costituita dalla zona che dal margine interno del lido si estende verso terra. Essendo una zona soggetta a modificazione, in quanto si può restringere a causa dell’azione delle forze erosive del mare oppure può ampliarsi qualora le acque si ritirino, in essa vige il principio secondo il quale il mutamento dello stato dei luoghi è idoneo a mutarne il regime giuridico, senza che occorra un apposito provvedimento amministrativo.
Gli arenili sono tratti di terraferma “relitti” del naturale ritirarsi delle acque che pur avendo perso un’immediata idoneità ai pubblici usi del mare ne conservano la potenzialità. Essi hanno natura demaniale marittima fino a quando non intervenga un decreto di sdemanializzazione da parte del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con quello per le Finanze, su proposta del Capo del Compartimento marittimo, come previsto dall’art. 35 c.n..
I porti sono quei tratti di costa, naturali ed artificiali, idonei ad offrire rifugio ed agevolare l’approdo delle navi al riparo dai venti e dalle onde. Questa nozione di porto appare d’ampia portata in quanto non si riferisce alla sola destinazione commerciale, e per questo rappresenta un’innovazione rispetto al vecchio Codice (T.U. n. 3095 del 1885) che suddivideva i porti in due categorie: quelli che interessavano la sicurezza della navigazione in generale e la difesa militare dello Stato e quelli che interessavano il commercio. Tale innovazione risulta altresì recepita dalla L. n. 84/1994, che classifica i porti in base alle loro funzioni e caratteristiche (militari, commerciali, industriali, petroliferi, pescherecci, turistici e da diporto).
Le rade sono zone di mare normalmente prospicienti o prossime al porto, ma anche di mare aperto, che offrono la possibilità di una sosta temporanea alle navi in quanto al riparo dai venti e dai marosi. Le rade si definiscono naturali se il riparo è dovuto ad elementi naturali (isole, banchinamenti, ecc.), ovvero in protetta o foranee a seconda se il riparo è offerto da tutte o da alcune direzioni.
Le lagune sono gli specchi d’acqua situati nelle vicinanze del mare. Si distinguono in lagune vive, se comunicanti con il mare, lagune morte, se separate o stagnanti. Nelle lagune vive le aperture comunicanti con il mare prendono il nome di “bocche di porto”.
Le foci dei fiumi sono state incluse nell’art. 28 c.n. (che considera solo le foci dei fiumi che sboccano in mare) per non interrompere il principio di continuità e di contiguità delle coste e poiché rileva la loro utilizzabilità ai pubblici usi marittimi. In base all’art. 31 c.n. nei luoghi nei quali il mare comunica con i fiumi i limiti demaniali sono fissati dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con le altre amministrazioni interessate e comunque, la fissazione di tali limiti si fonda su criteri di carattere funzionale (come nel caso di porti fluviali).
I bacini d’acqua salsa o salmastra sono bacini di basso fondale d’origine sia marina sia fluviale, esistenti nella terraferma, in cui lo stato dei luoghi rende possibile la penetrazione ed il riflusso dell’acqua del mare, anche solo per una parte dell’anno. La comunicazione può avvenire anche attraverso canali costruiti dall’uomo purché l’acqua del mare possa affluire liberamente al bacino senza l’ausilio di mezzi meccanici. Non è necessario che l’acqua del mare sia l’unica acqua del bacino, purché la miscela sia almeno salmastra.
I canali, penetrando nella terraferma, collegano gli approdi interni con il mare. Sono assoggettati alla disciplina del demanio marittimo indipendentemente dalla natura delle acque, in quanto strumentali agli usi pubblici del mare.
L’articolo 29 c.n. cita, infine, le pertinenze del demanio marittimo ossia: “le costruzioni e le altre opere appartenenti allo Stato, che esistono entro i limiti del demanio marittimo e del mare territoriale, sono considerate come pertinenze del demanio stesso”. Tali opere (fari, moli, argini, ecc.) sono caratterizzate da un rapporto di accessorietà rispetto al bene demaniale, col quale si immedesimano.
Si è in precedenza accennato al fatto che i beni facenti parte del demanio marittimo sono elencati dall’art. 822 c.c. e dall’art. 28 c.n.; che ai sensi dell’art. 822 c.c. costituiscono beni demanio marittimo: il lido, la spiaggia, i porti e le rade; e che l’art. 28 c.n., dopo aver richiamato il predetto articolo del Codice civile, continua con un’ulteriore elencazione che va a ricomprendere anche le lagune, le foci dei fiumi che sboccano a mare, i bacini d’acqua salsa o salmastra che almeno per una parte dell’anno comunicano liberamente con il mare, i canali utilizzabili ad uso marittimo. Dal combinato disposto delle sopra menzionate norme scaturisce un quadro che esplicita il c.d. principio della continuità e contiguità della costa.
In materia di demanio marittimo assumono, inoltre, particolare rilievo gli istituti disciplinati dagli artt. 31 e ss. c.n. (apposizione di limiti, delimitazione, ampliamento, e destinazione ad altri usi pubblici dei beni demaniali marittimi) qui di seguito accennati.
Trattando di apposizione di limiti il Codice della navigazione sancisce che, nei luoghi dove il mare comunica con canali, fiumi o altri corsi d’acqua, i limiti del demanio marittimo sono fissati dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con quelli delle Finanze e dei Lavori Pubblici. La natura di detta apposizione di limiti, e la conseguente iscrizione del bene individuato in appositi elenchi, è ritenuta un atto di ricognizione, non costitutivo della demanialità (cfr. Cass., Sez. II, 29 aprile 2003 n. 6657), né della appartenenza del bene ad una determinata amministrazione.
Per quanto concerne il procedimento di delimitazione demaniale è necessario fare riferimento agli artt. 32 c.n. e 58 r.c.n.. Ratio di tali norme è l’accertamento dei confini delle zone demaniali marittime con i fondi contigui appartenenti a terzi o ad altre tipologie di beni demaniali. Ai sensi dell’art. 32 c.n. “è il Capo del Compartimento marittimo a disporre, quando sia necessario o comunque lo ritenga opportuno, la delimitazione di zone del demanio marittimo”. Dal disposto normativo sembrerebbe trattarsi di attività discrezionale, in realtà la discrezionalità è da intendersi nel senso che l’Autorità marittima procede alla delimitazione allorquando ricorrano due condizioni: che esista un interesse pubblico attuale e concreto, e che vi sia incertezza dei confini tra proprietà privata e demanio marittimo (cfr. Cons. St., Sez. VI, 16 febbraio 1979, n. 80). L’istituto si fonda, quindi, sul presupposto che vi sia incertezza solo sull’estensione della demanialità, non anche sulla qualificazione giuridica dei terreni confinanti (titolo e regime di appartenenza degli stessi). Su tale presupposto, quindi, la giurisprudenza ha stabilito che deve essere affermata la giurisdizione del Giudice ordinario sulla domanda con la quale il privato faccia valere, nei confronti della pubblica amministrazione, il diritto di proprietà su di un determinato immobile (cfr. Cass. S.U. 22 giugno 1978 n. 3068). La certezza dei confini delle zone demaniali è di fondamentale importanza per la legittimità di qualsivoglia provvedimento, sia di polizia amministrativa sia di polizia giudiziaria, posto in essere dall’Autorità amministrativa e che abbia per oggetto l’occupazione delle zone stesse (es. ordini di sgombero, sequestro delle opere abusive, ecc.), nonché per il rispetto di distanze o altri vincoli legali. Proprio per tale ragione, la dottrina ritiene che il procedimento di delimitazione può essere considerato espressione del potere di autotutela dell’amministrazione marittima (ex art. 823 c.c.). Le operazioni di delimitazione sono eseguite in contraddittorio con i proprietari frontisti, questi sono invitati ad intervenire ed a produrre i loro titoli e la loro assenza non pregiudica l’espletamento delle procedure delimitative. Nell’ambito dell’anzidetta procedura agli stessi privati sono comunque garantiti i poteri di difesa (cfr. Cons. St., Sez. VI, 4 dicembre 2001 n. 6054). Il provvedimento di delimitazione e la conseguente apposizione di limiti, è, comunque, da considerarsi un atto di ricognizione non costitutivo, bensì dichiarativo della demanialità già insita nel bene stesso (cfr. Cons. St., Sez. V, 14 novembre 1980, n. 934; Cons. Reg. Sic. 2 marzo 1990, n. 23; Cons. Reg. Sic. 25 giugno 1990, n. 205, ibidem, 916). Per un maggior approfondimento dell’istituto si rinvia all’analitica disciplina contenuta nelle norme del Codice della navigazione e del Regolamento attuativo.
Una diversa procedura è prevista dall’art. 33 c.n. che recita: “quando per necessità dei pubblici usi del mare occorra comprendere nel demanio marittimo zone di proprietà privata di limitata estensione e di lieve valore ad esso adiacenti, ovvero i depositi e gli stabilimenti menzionati nell’art. 52, la dichiarazione di pubblico interesse per l’espropriazione è fatta con decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di concerto con quello per le Finanze. Il decreto costituisce titolo per l’immediata occupazione del bene da espropriare”. Tale procedura detta di ampliamento ha, secondo autorevole dottrina, carattere eccezionale ed è insuscettibile d’applicazione analogica risolvendosi in sostanza in uno snellimento del procedimento espropriativo (cfr. Cons. St., Sez. VI, 23 marzo 1979, n. 178).
L’art. 34 c.n. dispone che determinate parti del demanio marittimo possano essere destinate, con provvedimento del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti (su richiesta dell’amministrazione interessata), ad altri usi pubblici, cessati i quali riprendono la loro normale destinazione. In questo caso, secondo autorevole dottrina, sebbene il potere di gestione sia trasferito all’amministrazione interessata ad un’utilizzazione diversa dai pubblici usi del mare, i poteri di polizia amministrativa e giudiziaria permangono in capo all’amministrazione “concedente”.
Il Codice della navigazione annovera, infine, il procedimento di esclusione di zone dal demanio marittimo o sdemanializzazione (cfr. C. Cass., Sez. II, 3 aprile 2002, n. 4769) disciplinato dall’art. 35 c.n., il quale stabilisce che nel caso in cui certe zone demaniali non siano più ritenute dal Capo del Compartimento marittimo utilizzabili per i pubblici usi del mare (cfr. T.A.R. Sicilia – Palermo Sez. II 13 febbraio 1989, n. 60; Cass. 5 giugno 1991, n. 6349) sono escluse dal demanio marittimo con decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di concerto con quello delle Finanze. L’atto di sdemanializzazione (o sclassificazione), a differenza del provvedimento di delimitazione, ha natura costitutiva (cfr. Cass. 5 novembre 1981, n. 5817; Cass. 14 marzo 1985, n. 1987). Parte della dottrina, per una corretta interpretazione del combinato disposto degli artt. 35 c.n. e 822 c.c., ritiene opportuno (ma non obbligatorio qualora manchino i presupposti) il ricorso a tale procedimento quando sia intervenuta, sul presupposto della non demanialità del bene occupato, una sentenza penale di assoluzione per il reato di occupazione abusiva, non potendo comunque bastare una siffatta pronuncia a far acquistare sic et simpliciter la titolarità di un bene che l’amministrazione ritenga appartenere, per caratteristiche e utilizzo, al demanio marittimo.
2. LA GESTIONE DEL DEMANIO MARITTIMO TRA ACCENTRAMENTO E DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO.
La disciplina giuridica dei beni demaniali marittimi ha da sempre costituito la parte di maggiore interesse per gli studiosi del diritto amministrativo marittimo.
In particolare, la disciplina dei beni demaniali marittimi, ed il conseguente esercizio degli svariati poteri di polizia amministrativa latu sensu (rilascio, revoca, decadenza delle concessioni e/o autorizzazioni, regolamentazione degli spazi demaniali, potere di ingiungere lo sgombero, emanazione di ordinanze di polizia marittima, ecc.), è oggi notevolmente variata a causa del conferimento di tali poteri alle Regioni e agli Enti locali cui ha fatto, inevitabilmente, seguito il delinearsi di una disciplina normativa ed amministrativa di non facile interpretazione.
Fin da prima delle recenti riforme intervenute in materia il Legislatore ha sempre dimostrato una particolare attenzione nei confronti del demanio marittimo, in quanto diretta estrinsecazione del “potere di imperio” dello Stato. Soprattutto all’indomani dei moti risorgimentali il Legislatore si mostrava molto cauto in tale materia. Ciononostante, l’abrogato Regolamento per l’esecuzione del Codice della Marina Mercantile (1789) riconosceva alle Autorità marittime, e per esse al Corpo delle Capitanerie di porto, ampi compiti di polizia amministrativa (es. rilascio di autorizzazioni e concessioni su beni demaniali), successivamente riconfermati dal vigente Codice della navigazione che affiancava a questi ultimi anche i poteri di polizia giudiziaria (su tutti quelli previsti ex artt. 54, 55 e 1161 c.n. per il caso di occupazioni ed innovazioni abusive nell’ambito del demanio marittimo o ancora la potestà sanzionatoria attribuita dal D.P.R. n. 571/82, recante norme attuative della L. n. 689/81 in materia di depenalizzazione dei reati previsti dal Codice della navigazione, e da ultimo dal D.P.R. 15 marzo 2001).
Le attribuzioni che allora potevano sembrare anomalie in uno Stato fortemente accentrato e permeato dal verticismo della pubblica amministrazione sono oggi di grande attualità, soprattutto dopo l’emanazione della L. n. 241/90 (sul procedimento amministrativo) e della cosiddetta riforma Bassanini (in particolare si fa riferimento alle leggi n. 59/97 e n. 127/97), culminata con l’emanazione del D.lgs. n. 112/1998 (decreto concernente l’attuazione del conferimento di poteri alle Regioni ed Enti locali), da molti definito normativa guida del nuovo modello organizzativo dello Stato.
Prima di esaminare l’ampio genus delle funzioni di polizia amministrativa nell’ambito del demanio marittimo è opportuno fare un breve excursus legislativo e giurisprudenziale che servirà a riportare chiarezza nella materia de qua.
L’art. 30 c.n. così recita: “L’amministrazione delle Infrastrutture e dei Trasporti regola l’uso del demanio marittimo e vi esercita la polizia”. In base a tale norma (che oggi è da ritenersi pressoché superata se non tacitamente abrogata) sono affidati all’Autorità marittima l’uso del demanio marittimo ed i relativi poteri di polizia in senso ampio. Tale prescrizione va correlata all’art. 72 r.c.n., che attribuisce alla stessa amministrazione la vigilanza sulle concessioni dei beni del demanio marittimo. Del resto, attraverso il bene demaniale marittimo è consentito alla pubblica amministrazione di perseguire le proprie finalità in materia di navigazione marittima; materia questa che, indubbiamente, continua a rientrare nella primaria competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Poiché l’art. 30 c.n. ha una portata generale per quanto riguarda la disciplina e la polizia del demanio marittimo a detta amministrazione, sino al recente passato, venivano riconosciuti poteri ampiamente discrezionali in materia. Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa in passato (cfr. T.A.R. Liguria 22 aprile 1976, n. 127) ha ritenuto così ampia la discrezionalità dell’Autorità marittima nella materia de qua da escludere l’obbligo, nell’esercizio dei poteri di polizia marittima, sia di dare contezza di indagini istruttorie, allorché si tratti di destinare aree demaniali marittime ad usi strettamente marittimi, sia di giustificare le limitazioni di utilizzazione adottate in conformità alle finalità volute dalla legge.
Tuttavia, il quadro sopra descritto e la disciplina amministrativa da esso scaturente, verso la fine degli anni ottanta, cominciava inevitabilmente ad accusare i segni del tempo.
Infatti, in un primo momento, con l’istituzione del Ministero dell’Ambiente (L. n. 349/1986), era intervenuto il concerto del Ministro dell’Ambiente per quanto concerneva la materia della difesa dell’ambiente marino latu sensu e delle risorse del mare (L. n. 979/1982); successivamente invece l’intera materia, ai sensi dell’art. 1, 10° co., L. n. 537/1993, è stata interamente trasferita al suddetto Ministero. Inoltre, concorrenti competenze dovevano già essere riconosciute in materia urbanistica alle Regioni ed ai Comuni (a seguito della L. n. 10/1977, del D.P.R. n. 616/1977, del D.lgs. n. 112/98 e da ultimo dal D.P.R. n. 380/2001). La stessa giurisprudenza si era già espressa nel senso che la disciplina urbanistica dovesse investire tutto il territorio comunale, comprensivo dei beni dello Stato appartenenti al demanio marittimo (cfr. C. Stato, sez. VI, 18 aprile 1978, n. 492). Peraltro, si osservava come gli interessi urbanistici degli Enti locali non potessero invadere la competenza dell’Autorità marittima disciplinando in modo diverso l’uso dei beni demaniali. Sicché, era qualificato interesse pubblico primario il soddisfacimento delle esigenze di uso marittimo delle strutture demaniali, mentre era qualificato secondario il perseguimento di esigenze connesse ad interessi comunali (cfr. T.A.R. Toscana 23 ottobre 1987, n. 1168).
Oggi il quadro di riferimento normativo nazionale appare notevolmente mutato. In particolare occorre distinguere tra Regioni a Statuto speciale e Regioni a Statuto ordinario.
Nelle prime esistono ancora notevoli differenze rispetto alle seconde; differenze dettate dall’autonomia di tali Regioni e da specifiche disposizioni: ad esempio in base agli artt. 32 e 34 dello Statuto della Regione Sicilia e all’art. 14 dello Statuto della Regione Sardegna tali Regioni sottentrano allo Stato nella proprietà dei beni demaniali nei rispettivi territori, benché dal trasferimento rimangono esclusi i beni che interessano la difesa dello Stato o la difesa del territorio nazionale. Per quanto concerne la Regione Sicilia il D.P.R. n. 684/77 ha espressamente eccettuato dal trasferimento i beni del demanio utilizzati dall’amministrazione militare e quelli che interessano servizi di carattere nazionale.
Nelle Regioni a Statuto ordinario, invece, a seguito del conferimento (in luogo della precedente delega di cui all’art. 59 del D.P.R. n. 616/1977 inerente le sole utilizzazioni turistico e ricreative) dei poteri amministrativi in capo alle Regioni, avvenuto ad opera dell’art. 105 del D.lgs. n. 112/98, la gestione amministrativa del demanio marittimo è ormai di competenza regionale o, per subdelega ex art. 42 del D.lgs n. 96/1999, comunale (cfr. art. 118 Cost. così come modificato dalla L. Cost. n. 3/2001 e L. n. 131/2003), salve rare ipotesi di competenza statale (“in materia di approvvigionamento di fonti di energia” o nei “porti e nelle aree di preminente interesse nazionale” individuate dal D.P.C.M. 21 dicembre 1995).
Occorre tuttavia precisare che ancora prima della “rivoluzione copernicana” in materia di federalismo regionale (rivoluzione che ha interessato anche la materia de qua) l’art. 59 del D.P.R. n. 616/1977 già delegava alle Regioni le funzioni amministrative sul litorale e sulle aree immediatamente prospicienti quando l’utilizzazione del demanio marittimo aveva finalità turistico-ricreative; rimanevano, invece, in capo allo Stato le funzioni riguardanti la navigazione marittima, la sicurezza nazionale, la polizia doganale. L’operatività di tale delega, divenuta effettiva con il D.L. n. 400/1993, era tuttavia subordinata all’emanazione di un Decreto, previsto nel 2° comma dello stesso art. 59, finalizzato all’individuazione dei “porti e alle aree di preminente interesse nazionale” da indicare solo successivamente in relazione agli interessi della sicurezza dello Stato e alle esigenze della navigazione marittima. Tuttavia la delega di cui all’art. 59 D.P.R. n. 616/1977, cui come detto va riconosciuta una portata innovativa, è stata ritenuta dalla giurisprudenza (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. III, 30 novembre 1991, n. 2131; Cons. St., Sez. VI, 24 ottobre 1995) non operante per la mancata adozione del decreto di cui al 2° comma dello stesso art. 59. Infatti, solo dopo 16 anni, l’art. 6 della L. n. 494/1993 ha reso effettivo l’esercizio della delega da parte delle Regioni a partire dal 31.12.1995 (termine successivamente differito da diversi decreti legge), a prescindere dall’effettiva predisposizione degli elenchi di cui all’art. 59, 2° comma, D.P.R. n. 616/1977. E’, peraltro, da sottolineare che con il D.L. 29.12.1995, n. 559, più volte reiterato, si è ovviato a tale lacuna normativa consentendo alle Regioni, di avvalersi della collaborazione delle Autorità marittime (Direzioni marittime e Corpo delle Capitanerie di porto), ricorrendo ad apposita “convenzioni gratuite” da stipulare, di volta in volta, con l’allora Ministero dei Trasporti e della Navigazione (oggi Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti). Nelle suddette convenzioni era stabilito che le Autorità marittime avrebbero dovuto esercitare le funzioni in materia di demanio marittimo ad uso turistico-ricreativo in “relazione funzionale con l’amministrazione regionale”. Di fatto, per la sofferta attuazione dell’art. 59 del D.P.R. n. 616/77 (da ultimo, le aree escluse dalla delega ex art. 59 sono state finalmente individuate con D.P.C.M. 21 dicembre1995, pubblicato sulla G.U. del 12.06.1996) la proroga di tali convenzioni era divenuta prassi amministrativa. Ciò fino all’emanazione del D.L. n. 535/1996, convertito in L. n. 647/1997. Con tale provvedimento si è consentito alle Regioni di avvalersi, in via definitiva e fino al completo passaggio di tutte le funzioni amministrative (fissato per il 31.12.1998, termine poi ancora prorogato per alcune Regioni), dell’ausilio delle Autorità marittime per quel che riguardava la gestione del demanio a scopi turistico-ricreativi. Le Regioni a Statuto ordinario hanno quindi potuto continuare a sottoscrivere, legittimamente, convenzioni gratuite al fine di assicurare la continuità dell’azione amministrativa che altrimenti sarebbe mancata nelle more del definitivo passaggio di competenze Stato-Regione. Si trattava, in pratica, di una forma di amministrazione basata sulla collaborazione tra Regioni e organi periferici dello Stato (nella fattispecie individuati nelle Direzioni marittime e nelle Capitanerie di porto). Tale soluzione, inizialmente avversata da molti nel timore che potesse risultare danneggiata l’autonomia delle Regioni, è stata successivamente valorizzata e accolta con slancio proprio da queste. Alla luce dei risultati positivi ottenuti (anche in ragione degli ottimi rapporti tra Autorità marittime ed amministrazioni regionali), il Legislatore, dopo la riforma Bassanini, è intervenuto per valorizzare il ruolo delle Autorità marittime con l’emanazione del D.P.R. n. 509/1997 e del D.M. n. 342/1998. In particolare, il D.P.R. n. 509/1997 disciplina il procedimento di concessione dei beni del demanio marittimo per la nautica da diporto e coinvolge le Autorità marittime come destinatarie delle domande di concessione, attribuendo ad esse il potere di avvio della relativa procedura istruttoria. Tale provvedimento normativo, in combinato disposto con il D.M. n. 342/1998 (in materia di determinazione dei canoni demaniali per le concessioni turistico-ricreative), assegna alle Autorità marittime un ruolo di primaria importanza, individuando le stesse come centro propulsore dell’attività in questione (tuttavia, come vedremo, parte della dottrina ritiene tale Regolamento tacitamente abrogato per evidente contrasto con l’evoluzione del nostro ordinamento).
3. POLIZIA AMMINISTRATIVA E DEMANIO MARITTIMO: IL PUNTO DELLA SITUAZIONE SULL’ATTRIBUZIONE DECENTRATA DELLE FUNZIONI DI GESTIONE.
Come anticipato, solo di recente il quasi (permangono, come vedremo, alcune eccezioni) completo trasferimento delle funzioni amministrative è stato attuato. Infatti, l’art. 105 del D.lgs. n. 112/1998 (in attuazione alla legge Bassanini n. 59/1997) ha trasferito (rectius: conferito) tutta la gestione amministrativa dei beni demaniali marittimi dallo Stato alle Regioni a Statuto ordinario ad eccezione dell’amministrazione dei beni demaniali afferenti le “fonti di approvvigionamento di energia” (es. concessioni demaniali per industrie petrolchimiche, per piattaforme petrolifere, ecc.) e di quelli ricadenti nei “porti e nelle aree di interesse preminente nazionale” (individuate dal D.P.C.M. 21 dicembre 1995), che, quindi, rimangono sotto la gestione statale. Le Regioni a Statuto ordinario e, per ulteriore delega ex art. 42 del D.lgs. n. 96/1999, i Comuni destinatari della riforma di cui si è detto, sono oggi chiamati a svolgere funzioni nuove e di vasta portata anche in termini di innovazione rispetto ai precedenti sistemi di gestione statale. Molti Enti locali, nell’esercizio concreto delle funzioni concessorie, ormai ad essi generalmente conferite, oltre ad essersi autolimitati, nel senso di aver adottato mediante apposite delibere comunali propri criteri direttivi (cfr. Cons. St. Sez. VI, 30 gennaio 2002, n. 543), in attesa di quei criteri generali di gestione di beni demaniali concessi per attività turistico-ricreative di cui all’art. 2, lett. l), 4° co., L. n. 135/2001, si sono, altresì, legittimamente dotati di strumenti urbanistici demaniali (es. “piani di spiaggia comunali” e “piani di utilizzazione del demanio marittimo regionali”). Specificatamente, poi, per quanto attiene alla durata delle concessioni, è variata la relativa disciplina, essendo intervenuto il passaggio dalla licenza annuale, che costituiva la normalità e la prassi costante delle Autorità marittime per tutte le situazioni concessorie diverse dalle opere di difficile rimozione, alla licenza di durata quadriennale, prima, ed ora, in virtù dell’art. 10 della L. n. 88/2001, a quelle della durata di sei anni (cfr. T.A.R. Abruzzo, Sez. Pescara 25 marzo 2004 n. 284), con previsione di rinnovo automatico (cfr. contra, T.A.R. Abruzzo, Sez. Pescara 25 marzo 2004 n. 288), indipendentemente dalla natura o dal tipo di impianti previsti per lo svolgimento dell’attività, e salva la possibilità per il concessionario di richiedere una diversa durata.
Ed allora, tirando le fila della complessa regolamentazione sin qui esaminata, possiamo sintetizzare il quadro normativo generale delle funzioni relative ai beni pubblici destinati alla navigazione marittima come segue:
A) tutte le funzioni amministrative in materia di demanio marittimo destinato ad uso turistico-ricreativo, esplicate nell’ambito del litorale marittimo di una determinata Regione, sono conferite alle Regioni e agli Enti locali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 59 D.P.R. n. 616/1997; 6 D.L. n. 400/1993 conv. in L. 494/1993; 8 D.L. n. 535/1996 conv. in L. 647/1996; 42 D.lgs. n. 96/1999 e del D.P.C.M. 21 dicembre 1995.
Si tratta di una competenza generale per materia e per territorio.
La delega tuttavia non opera, e quindi le predette funzioni non sono esercitate dalla Regione o dal Comune, nelle seguenti zone o con riferimento alle seguenti modalità di utilizzo dei beni demaniali marittimi:
A.1) nelle “aree”, distinte per Regione, identificate nell’elenco di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 1995, in quanto riconosciute di “preminente interesse nazionale” in relazione agli interessi della sicurezza dello stato e alle esigenze della navigazione marittima;
A.2) nel caso di utilizzo dei beni demaniali marittimi per finalità di “approvvigionamento di fonti di energia” nell’ambito delle aree demaniali marittime e del mare territoriale;
Per le predette aree la competenza rimane statale, centrale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) o periferica (Autorità marittime), a meno che essa appartenga all’Autorità portuale ex L. n. 84/1994, come specificato nel successivo punto A.3);
A.3) nelle aree ricadenti nella circoscrizione di un’Autorità portuale nell’ambito delle quali la stessa ha una competenza generale ed esclusiva per qualsiasi finalità di gestione del demanio marittimo, esercitando direttamente le funzioni di cui agli articoli da 36 a 55 c.n. e 68 r.c.n..
B) Tutte le funzioni relative al rilascio di concessioni di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale, per qualsiasi scopo e finalità, salve le riserve e le deroghe che seguono, sono conferite alle Regioni e agli Enti locali, ai sensi dell’art. 105, co. 2°, lett. l) del D.lgs. n. 112/1998.
Le riserve e le deroghe riguardano:
B.1) il rilascio delle concessioni per finalità di “approvvigionamento di fonti di energia” nell’ambito delle aree demaniali marittime e del mare territoriale;
B.2) il rilascio delle concessioni “nei porti e nelle aree di preminente interesse nazionale”, individuate dal D.P.C.M. 21 dicembre 1995;
Per il rilascio delle predette concessioni, la competenza rimane statale, centrale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) o periferica (Autorità marittime), a meno che essa appartenga all’Autorità portuale ex L. n. 84/1994, come dal successivo punto B.3).
B.3) il rilascio delle concessioni all’interno dei porti, in virtù del nuovo ordinamento e salvo il conferimento (decorrente dal 1° gennaio 2002 ex art. 9, L. n. 88/2001) delle funzioni amministrative concessorie in capo alle Regioni nei porti a rilevanza economica regionale e interregionale, è sottratto al conferimento regionale e comunale. Pertanto, si può concludere che, salvo i porti in cui ha sede l’Autorità portuale ex L. n. 84/1994 e con l’eccezione appena esaminata (porti a rilevanza economica regionale e interregionale), opera una presunzione assoluta di competenza statale, centrale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) o periferica (Autorità marittime), per il rilascio delle concessioni “nei porti e nelle aree di preminente interesse nazionale” individuate dal D.P.C.M. 21 dicembre 1995 e per il rilascio delle concessioni relative all”approvvigionamento di fonti di energia”.
C) Tutte le funzioni relative alla concessione di strutture dedicate alla nautica da diporto, ossia i “porti turistici”, gli “approdi turistici” e i “punti d’ormeggio”, richiedono una distinta, specifica puntualizzazione.
Orbene, per essi, si ritiene che possa configurarsi una competenza funzionale della Regione e del Comune ratio materiae, in virtù della loro destinazione ed utilizzazione per le finalità turistico ricreative, con la conseguenza che dette funzioni sono esercitate dall’amministrazione statale, centrale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) o periferica (Autorità marittime), solo e soltanto se dette opere a carattere turistico e ricreativo siano realizzate nell’ambito di aree escluse dalla delega alle Regioni (“nei porti e nelle aree di preminente interesse nazionale” individuate dal citato D.P.C.M. 21 dicembre 1995).
Un discorso a parte meritano gli “approdi turistici” (ex art. 2, lett. b) D.P.R. n. 506/1997) che, ove siano ubicati nell’ambito di porti a rilevanza nazionale od internazionale, e proprio perchè costituenti porzioni di porti polifunzionali aventi le funzioni di cui all’art. 4, co. 3, L. n. 84/1994 o più precisamente perché ricompresi in un ampio specchio acqueo portuale vero e proprio destinato ad eterogenee e molteplici funzioni, rientrerebbero nella competenza funzionale statale, centrale (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) o periferica (Autorità marittime); tale competenza trova un limite nel caso in cui il porto dove ricade l’opera sia sede delle Autorità portuali ex L. n. 84/1994. In ogni altro caso (porti non rientranti nell’elenco di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 1995 e porti a rilevanza regionale od interregionale non sedi di Autorità portuali) la competenza è della Regione e del Comune.
Pertanto, conclusivamente sul punto, per quanto attiene ai “porti turistici”, agli “approdi turistici” ed ai “punti d’ormeggio”, le relative funzioni possono ritenersi così ripartite:
C.1) se tali strutture ricadono nell’ambito della circoscrizione territoriale di un’Autorità portuale, le predette funzioni sono esercitate da detta Autorità;
C.2) se le strutture stesse ricadono “nei porti e nelle aree di interesse nazionale” di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 1995, le relative funzioni sono esercitate dallo Stato e dai suoi organi periferici (Direzioni Marittime e Capitanerie di porto);
C.3) in tutti gli altri casi (porti non rientranti nell’elenco di cui al D.P.C.M. 21 dicembre 1995 e porti a rilevanza regionale od interregionale non sedi di Autorità portuali), le funzioni medesime sono in capo alla Regione o al Comune.
Dal quadro così delineato viene da chiedersi, in termini problematici, e proprio in relazione alla profonda evoluzione verificatasi nel nostro ordinamento successivamente alla regolamentazione in esso contenuta, quale sia l’attuale portata del riparto di competenze contemplato dal richiamato D.P.R. n. 509/1997 (recante la disciplina del procedimento concessorio di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto) che attribuisce un ruolo primario alle Autorità marittime (Direzioni marittime e Capitanerie di porto). Sui termini della questione la dottrina si è pronunciata nel senso di ritenere tacitamente abrogato il Regolamento de quo per evidente contrasto con l’evoluzione del nostro ordinamento. Contrasto che riguarderebbe sia gli artt. 1, 4 e ss. L. n. 59/1997 e i successivi Decreti di attuazione, di cui agli artt. 105, D.lgs. n. 112/1998 e 42, D.lgs. n. 96/1999; sia la ratio dello stesso art. 59 del D.P.R. 616/1977, che attiene a tutte le funzioni amministrative esplicate sul litorale marittimo per finalità turistico ricreative, tra le quali non possono non ricomprendersi le strutture destinate al turismo nautico; sia i principi riformatori della riforma della legislazione nazionale del turismo di cui alla L n. 135/2001; e sia, infine, la profonda innovazione apportata al titolo V della parte seconda della Costituzione dalla L. Cost. n. 3/2001, nonchè dai principi della successiva L. n. 131/2003 (c.d. legge La Loggia) recante le norme di attuazione.
Concludendo sul punto, a parere di chi scrive ed alla luce delle considerazioni sin qui effettuate, occorre evidenziare che la suddetta riforma lascia ovviamente inalterate le funzioni di polizia giudiziaria in capo al personale militare del Corpo delle Capitanerie di porto, in virtù dei poteri ad esso conferiti dal Codice di Procedura Penale (artt. 55 e 57) e dal Codice della navigazione (artt. 1235 e ss.). Sulle aree assentite in concessione dalle Regioni o dagli Enti locali e più in generale su tutte le aree demaniali marittime, il personale militare del Corpo delle Capitanerie di porto, quindi, continua ad effettuare in concorso e in collaborazione con le altre amministrazioni, oltre i previsti controlli di polizia amministrativa di natura preventiva, quelli di polizia giudiziaria di natura più strettamente repressiva.
4. LA GESTIONE DEL DEMANIO MARITTIMO NELLA REGIONE SICILIA A SEGUITO DELLA RIFORMA INTRODOTTA DALLA LEGGE 8 LUGLIO 2003 N. 172, IN VIGORE DAL 1° LUGLIO 2004: UN “CASO” ANCORA IRRISOLTO.
Quanto finora detto, in merito alla gestione dei beni del demanio marittimo nelle Regioni a Statuto ordinario, trovava, fino al recente passato, alcune evidenti eccezioni nelle Regioni a Statuto speciale.
In particolare nella Regione Sicilia tali diversità diventavano profonde e sostanziali.
Infatti, sino 30 giugno 2004, nella Regione Sicilia, in virtù delle attribuzioni riconosciute alle Autorità Marittime dal combinato disposto degli artt. 30 c.n., 1, 3 e 4 del D.P.R. 1 luglio 1977, n. 684 (secondo cui poteri amministrativi concernenti la gestione dei beni del demanio marittimo trasferiti alla Regione Sicilia sono esercitati dall’amministrazione regionale che esplica le relative attribuzioni, comprese quelle finalizzate al rilascio di concessioni demaniali, avvalendosi delle Capitanerie di porto e degli Uffici dipendenti competenti in materia) e 7 della L. Reg. 16 aprile 2003 n. 4, le stesse potevano concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali marittimi. In particolare, e sino alla modifica introdotta dalla L. 08.07.2003 n. 172, gli organi periferici dello Stato (Direzioni marittime e Capitanerie di porto) erano competenti al rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi. Ne conseguiva che, a differenza di quanto già avveniva nelle Regioni a Statuto ordinario, nella Regione Sicilia continuava a trovare piena applicazione, seppure con le dovute differenziazioni riferibili essenzialmente all’Ente gerarchicamente sovraordinato (che in luogo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti era l’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente), l’art. 36 del Codice della navigazione e il relativo Regolamento per la navigazione marittima.
L’applicazione sistematica e coordinata di tali norme, delineata dalla prassi amministrativa prima e dalla legge dopo (art. 7 L. Reg. n. 4/2003), comportava sul piano amministrativo una ripartizione di competenze in base alla durata delle concessioni e all’eventuale messa in opera di impianti che fossero o meno di difficile rimozione, in particolare:
· le concessioni sul demanio marittimo di durata superiore ad anni 15 erano di competenza dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente (che costituiva il referente, ultimo in sostituzione del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti per quanto concerneva le concessioni sui beni trasferiti alla Regione, ovvero organo all’uopo “delegato” nel caso dei beni demaniali sottratti al trasferimento ai sensi dell’art. 1 co. 3, D.P.R. n. 684/1977) ed i relativi atti di concessione venivano da questo approvati;
· le concessioni sul demanio marittimo di durata compresa tra i 4 e i 15 anni e quelle di durata inferiore a 4 anni ma che prevedevano impianti di difficile rimozione erano di competenza del Direttore Marittimo e venivano dallo stesso approvate;
· le concessioni sul demanio marittimo di durata non superiore a 4 anni, che non prevedevano impianti di difficile rimozione, erano di competenza del Capo del Compartimento marittimo; queste ultime chiamate concessioni per licenza potevano essere rinnovate senza formalità di istruttoria.
Nella prassi il rilascio dei titoli concessori da parte delle competenti Autorità marittime (Direzioni marittime e Capitanerie di porto) avveniva in conformità con quanto previsto dal Regolamento di esecuzione del Codice della navigazione. Tale Regolamento prevedeva all’art. 10 che fosse rilasciata una concessione provvisoria per il periodo compreso tra la scadenza della concessione ed il suo rinnovo. Nel caso di più domande finalizzate ad ottenere la stessa concessione, la preferenza era rivolta verso il richiedente che offriva maggiori garanzie per una più proficua utilizzazione del bene oggetto della concessione, con particolare riferimento all’interesse pubblico (si applicava, quindi, una deroga al principio “prior in tempore potior in jure”); nel caso in cui, invece, non ricorrevano le ragioni suddette per quelle concessioni di durata superiore al quadriennio o che importassero impianti di difficile rimozione, si ricorreva a pubblica gara o a licitazione privata; in caso analogo ma per concessioni di durata inferiore a 4 anni (che non comportavano impianti di difficile rimozione) la preferenza era data al precedente concessionario, venendo così sancito il “principio di insistenza”. La concessione implicava da parte del concessionario il pagamento di un canone la cui entità era stabilita dall’atto stesso ed era quindi variabile in funzione dell’uso e dell’importanza del bene dato in concessione; in caso di concessione ad Enti per fini di pubblico interesse o beneficenza erano fissati canoni di semplice riconoscimento del carattere demaniale dei beni.
La richiesta di concessione poteva tendere al conseguimento di molteplici finalità ma, il rilascio del titolo concessorio, era subordinato alla valutazione da parte dell’Autorità marittima competente, di concerto con l’Assessorato regionale, dell’interesse pubblico ritenuto primario.
Per tale ragione nella Regione Sicilia era previsto un complesso procedimento che constava di tre distinte fasi.
1) Già nella prima, introduttiva, emergeva la rilevanza dell’interesse pubblico, difatti, nella domanda per l’ottenimento della concessione doveva essere specificato l’uso che il richiedente intendeva fare del bene demaniale, conformemente a quanto sancito dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 19 aprile 1995, n. 352; Cons. St., Sez. VI, 26 settembre 1996, n. 1265; Cons. St., Sez. V, 14 novembre 1997, n. 1302; Cons. St., sez. VI, 30 gennaio 2002, n. 543).
2) Nella seconda fase, quella istruttoria, venivano richiesti i pareri delle altre amministrazioni interessate allo scopo di verificare la compatibilità della stessa concessione con i diversi interessi pubblici coinvolti; l’emanazione definitiva sul provvedimento restava, in ogni caso, di competenza dell’Autorità marittima, previo nulla osta dell’Assessorato regionale.
3) L’iter procedurale si concludeva con l’emanazione dell’atto concessorio che richiedeva la forma scritta “ad substantiam”.
Per il vero, a quanto detto, occorre soggiungere che dall’esercizio da parte delle Autorità marittime delle attribuzioni in materia di gestione del demanio marittimo in relazione funzionale con l’amministrazione regionale conseguiva, in capo alla stessa, come più volte evidenziato con apposite circolari, la titolarità delle attribuzioni finalizzate al rilascio dei titoli concessori e il conseguente potere di autorizzare l’adozione dei provvedimenti finali da parte delle Autorità marittime. Da quanto precede, discende che gli Uffici marittimi competenti non potevano, di fatto, rilasciare alcun titolo concessorio, se non previa autorizzazione (rectius: nulla osta) dell’Assessorato regionale.
Fatta questa necessaria disamina relativa alla gestione dei beni demaniali marittimi nella Regione Sicilia e alle modalità di “avvalimento funzionale” delle Autorità marittime da parte dell’amministrazione regionale, occorre adesso analizzare brevemente le modifiche apportate dall’art. 6, co. 7, L. 8 luglio 2003, n. 172, norma attuativa dell’art. 4 del D.P.R. n. 684/1977.
Tale norma ha sancito la definitiva cessazione dell’anzidetto “avvalimento funzionale” e il conseguente passaggio delle funzioni di gestione dei beni demaniali marittimi in capo alla Regione Sicilia a partire dal 1° luglio 2004, facendo, di conseguenza, venir meno l’anzidetta relazione funzionale tra Regione Sicilia ed Autorità marittime ed apportando, quindi, una radicale modifica sul piano giuridico-sostanziale (modifica finalizzata al completo trasferimento alla Regione Sicilia dei poteri di gestione ed utilizzazione dei beni appartenenti al demanio marittimo e ad essa già trasferiti). Pertanto, a partire da tale data, così come da qualche anno avviene su tutto il territorio nazionale, le attribuzioni inerenti la gestione dei beni del demanio marittimo, comprese quelle concernenti il rilascio dei titoli concessori, saranno esercitate direttamente ed esclusivamente dall’amministrazione regionale, facendo venir meno in tal modo ogni residua competenza in capo allo Stato e per esso ai suoi organi periferici (Direzioni marittime e Capitanerie di porto).
Più in particolare, è da sottolineare che, in virtù di tale legge, la funzione concessoria appartiene adesso globalmente alla Regione Sicilia in un unica esclusiva istanza, a prescindere dalla durata della concessione, dalla sua entità e dalla caratteristiche delle opere previste, incentrandosi in essa le competenze prima ripartite tra Assessorato regionale, Direzioni marittime e Capitanerie di porto. Conseguentemente, al di là del sostanziale mutamento del quadro delle attribuzioni funzionali conseguente la riforma, sia per le concessioni assentite con licenza, sia per quelle con atto formale, la competenza in materia spetterà unicamente all’amministrazione regionale; variando il relativo titolo concessorio solo in ragione della natura e delle opere realizzate, con una notevole semplificazione del procedimento amministrativo e con la concreta attuazione del principio di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa.
Se questo è vero, non può tuttavia sottacersi che la Regione Sicilia si sia fatta trovare assolutamente impreparata a tale nuovo regime di gestione dei beni demaniali marittimi. In particolare sembra attualmente arenato il disegno di legge Parlavecchio, che peraltro, ad un primo esame, evidenziava diverse lacune e non poche perplessità in merito alle procedure di rilascio delle concessioni, ovvero all’esercizio delle funzioni di polizia demaniale. Pertanto, ad oggi, nonostante la perentorietà della delega, operante dal 1° luglio 2004, non risulta ancora disciplinato l’esercizio diretto delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e l’accorpamento dei compiti di coordinamento ed indirizzo in un’unica struttura.
E’ indubbio che l’attuale silenzio del Legislatore regionale pone le Autorità marittime in una “fase di stallo” non potendo le stesse esercitare, dal 1° luglio 2004, alcun potere di gestione dei beni demaniali marittimi regionali, configurandosi in caso contrario, l’illegittimità degli atti per un’evidente situazione di carenza di potere; e nel contempo l’amministrazione regionale, destinataria della riforma de qua, nell’impossibilità a svolgere le funzioni nuove e di vasta portata che impongono la necessaria costituzione di strutture ed uffici adeguati e con personale qualificato. In tale prospettiva, de iure condendo, appare sempre più urgente e pressante l’emanazione di una legge regionale d’attuazione del precetto di cui all’art. 6, co. 7, L. n. 172/2003, a meno che non si voglia perseguire la stessa strada, inserendo così un nuovo granello in un meccanismo già parecchio insabbiato, intrapresa all’atto delle delega di funzioni sui beni demaniali marittimi alle Regioni a Statuto ordinario, ossia la stipula di apposite “convenzioni gratuite” tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e l’amministrazione regionale. Soluzione, questa, che tuttavia, a parere di chi scrive e nel silenzio del Legislatore regionale si presenta come l’unica via d’uscita dall’altrimenti inevitabile fase d’empasse.
Nella speranza che il tempo richiesto dal Legislatore regionale porti consiglio allo stesso, l’auspicio di chi scrive è quello che il “tempo perduto” sia ripagato dall’emanazione di una legge ad hoc che sia in grado di disciplinare l’esercizio delle attribuzioni sui beni demaniali marittimi assegnati alla Regione Sicilia (ai sensi dell’art. 32 dello Statuto e delle relative norme di attuazione approvate con il D.P.R. n. 684/1977), ed orientare l’azione amministrativa al fine di garantire la tutela e la fruibilità dei beni del demanio marittimo, in accordo con gli strumenti di pianificazione territoriale, favorendo al tempo stesso lo sviluppo sostenibile delle attività economiche e sociali compatibili con gli usi pubblici del mare e con la conservazione dell’ambiente naturale costiero e marino; nonché, sulla falsa riga di quanto avvenuto sul resto del territorio nazionale, che contempli la previsione di una diversificata competenza delle attribuzioni concernenti il rilascio delle concessioni finalizzate all’approvvigionamento di fonti di energia.
In tale prospettiva, al fine di scongiurare le futuribili problematiche relative all’esercizio dei poteri di polizia marittima e di controllo tecnico amministrativo, già sperimentate nella sofferta attuazione della delega di funzioni nelle Regioni a Statuto ordinario, occorrerà altresì che il Legislatore regionale evidenzi, con forza, la necessità di un concorso-supporto di funzioni tra gli organi periferici dello Stato (Autorità marittime) e quelli della Regione, con particolare riguardo all’esercizio dei poteri di controllo preventivo/ispettivo e all’esercizio dell’attività sanzionatoria e di polizia giudiziaria sulle aree demaniali marittime assentite in concessione dall’amministrazione regionale.
5. NECESSITA’ DI UNA RIVISITAZIONE DELLE NORME ATTINENTI L’ESERCIZIO DEI POTERI DI POLIZIA AMMINISTRATIVA SUI BENI DEMANIALI MARITTIMI: CHIOSE A MARGINE.
Da quanto finora detto, diversa gestione amministrativa statale, regionale, portuale o comunale dei beni demaniali, coacervo di norme che disciplinano la materia de qua, applicabilità residua delle norme del Codice della navigazione (art. 31 e ss.) e non ultimo la considerazione che il Codice della navigazione è, per forza di cose, fortemente permeato da principi che oramai male si adattano alla tradizione civilistico-amministrativa italiana, si comprendono le inevitabili difficoltà applicative dell’attuale normativa in materia di polizia amministrativa demaniale, difficoltà che potrebbero finire con lo svilire lo spirito della riforma, tutto ciò con inevitabili riflessi sulla gestione trasparente ed efficiente dei beni demaniali.
Con le leggi Bassanini (D.lgs. n.ri 59 e 127 del 1997), passando per il D.lgs n. 112/98, per finire alla L. n. 172/2003, infatti, come si è avuto modo di vedere è profondamente mutano il regime della gestione dei beni demaniali marittimi, tale cambiamento mal si concilia col vigente Codice della navigazione cui, tra l’altro, tali leggi dedicano poche norme e, tra queste, quelle dedicate al demanio marittimo sono appena accennate.
In particolare, dall’art. 105 lett. e) ed l) sono conferite alle Regioni a Statuto ordinario le funzioni relative alla programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di bonifica, manutenzione e costrizione dei porti di rilievo regionale e interregionale e delle opere al servizio dell’Autorità portuale. Ancora, spetta alle Regioni a Statuto ordinario, a seguito del subingresso allo Stato nella gestione dei beni demaniali marittimi, il rilascio delle concessioni di beni del demanio marittimo per scopi diversi (come testé detto) dall”approvvigionamento di fonti di energia”, eccezione fatta per i “porti e le aree di interesse nazionale”, che rimangono sotto la potestà amministrativa dello Stato e dei suoi organi periferici (Autorità marittime). Lo stesso articolo dispone altresì che le Regioni e gli Enti locali si avvalgano delle Capitanerie di Porto per quel che riguarda la pesca marittima e il diporto. Inoltre, a seguito del conferimento di funzioni amministrative alle Regioni, ulteriori dubbi suscita il combinato disposto degli artt. 16, 103 co. 1 e 104, co. 1 del D.lgs. n. 507/1999, nonché il D.P.R. 15 marzo 2001, che, in materia di illeciti depenalizzati commessi in ambito demaniale, ha previsto il subingresso di alcune Regioni, nella qualità di Autorità competenti a ricevere i rapporti ex art. 17 L. n. 689/1981, in luogo dei Compartimenti marittimi.
Queste scarne e schizofreniche previsioni normative, basate sul principio che le competenze non attribuite espressamente allo Stato spettano alle Regioni e agli Enti locali, sembrano molto distanti dal definire un organico quadro normativo di riferimento com’era, sino a poco tempo fa, il Codice della navigazione. Allo stato, risulta, quindi, difficile coniugare le suddette previsioni con le norme del Codice stesso relative alle funzioni dell’Autorità marittima in tema di delimitazione, sclassificazione o di ampliamento del demanio marittimo (tuttavia, a riportare chiarezza è intervenuta la giurisprudenza amministrativa ritenendo che tutti i provvedimenti che incidono sull’aspetto dominicale del demanio marittimo permangano in capo allo Stato) o, ancora, con l’art. 59 del Regolamento per la navigazione marittima, recante disposizioni sul potere di ordinanza del Comandante del porto. Allo stesso modo, l’art. 105 del D.lgs. n. 112/1998 difficilmente si armonizza con gli articoli 5 e 18 della L. n. 84/1994 in cui è previsto che, nei porti in cui non ha sede l’Autorità portuale, è l’Autorità marittima competente al rilascio delle concessioni di aree e banchine alle imprese che svolgono attività industriali o commerciali.
Tutto ciò comporta inevitabili conflitti d’attribuzioni tra le diverse amministrazioni coinvolte (Autorità marittime, Autorità portuali, Autorità regionali ed Enti locali) e, di conseguenza, notevoli difficoltà che si ripercuotono nel concreto esercizio delle funzioni di polizia amministrativa dei beni demaniali, che non di rado si tramutano in problematiche operative sul piano dell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.
In questo coacervo di norme risulta difficile, per gli operatori, individuare le attribuzioni dei vari soggetti coinvolti. Nonostante tali evidenti lacune, comunque, non può essere negata l’importanza della riforma che, ad ogni modo, deve essere sostenuta dallo sforzo sinergico di tutte le amministrazioni interessate. Queste, da parte loro, devono fornire le indicazioni e gli spunti necessari al perfezionamento della riforma stessa, fermo restando il principio del Codice della navigazione secondo il quale è, e resta, il Comandante del porto il centro propulsore e regolatore dell’attività marittima latu sensu. È anche vero, d’altra parte, che sia il Legislatore sia la giurisprudenza amministrativa hanno manifestato segni premonitori miranti alla revisione della disciplina del demanio marittimo che, però, sono stati accolti tiepidamente dalle varie amministrazioni.
De iure condendo sarebbe, quindi, auspicabile una rivisitazione delle norme codicistiche di concerto con l’irrimandabile introduzione di un Testo unico in materia demaniale ovvero di un intervento chiarificatore finalizzato ad individuare e definire quelle “zone grigie” che ancora oggi pervadono la materia de qua.
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(*) Tenente di vascello (CP) – Capo Ufficio Affari giuridici e Diritto internazionale marittimo del Comando Forze da pattugliamento per la Sorveglianza e la Difesa Costiera.
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