In particolare, secondo una prima pronuncia (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 28187 del 20 aprile 2017) la previgente disciplina era più favorevole in quanto, anche se si era ammesso che “Occorre pure tener conto dell’abrogazione dell’art. 3 comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, che aveva operato la nota distinzione tra colpa lieve e colpa grave”, si concludeva che la stessa Corte di piazza Cavour “aveva interpretato tale riforma nel senso più ampiamente aderente al principio di colpevolezza; ritenendo che, nei contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, si fosse verificata la decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve. In conseguenza, si è ravvisato che, sempre nell’ambito indicato, residuasse la responsabilità colpevole solo per colpa grave: interpretazione aderente alle movenze della riflessione dottrinale e consonante con l’orientamento di altre normative nazionali. L’abrogazione della legge del 2012 implica la reviviscenza, sotto tale riguardo, della previgente, più severa normativa che, per l’appunto, non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa. Infatti la novella del 2017 non contiene alcun riferimento alla gravità della colpa. Naturalmente, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., il nuovo regime si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma. Per i fatti anteriori, come quello in esame, sempre in applicazione dell’art. 2 cod. pen., può trovare applicazione, invece, quando pertinente, la ridetta normativa del 2012, che appare più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave”.
Secondo una diversa e più recente pronuncia (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 50078 del 19 ottobre 2017), invece, sarebbe la nuova disciplina quella più favorevole, perché annuncerebbe una causa di esclusione della punibilità dell’esercente la professione sanitaria “operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alla specificità del caso) nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse”.
Appare utile a questo punto, per il richiamo fatto dalla prima delle dette sentenze, e prima di offrire la soluzione delle Sezioni Unite, evidenziare come veniva affrontato il tema della responsabilità medica in ambito penale dalla giurisprudenza prima dell’intervento della L. Balduzzi. Ci si chiedeva se la colpa dovesse essere valutata alla luce dei criteri di natura penale di cui all’art. 43 c.p., ovvero se potesse trovare applicazione, anche in campo penalistico, il criterio di carattere civilistico della responsabilità professionale di cui all’art. 2236 c.c. La giurisprudenza meno recente prediligeva il primo degli orientamenti detti pur ammettendo che l’ars medica doveva essere valutata con larghezza e comprensione, e riteneva che l’art. 2236 c.c. non fosse suscettibile di estensione analogica poiché norma eccezionale anche in ambito civilistico. Così, perché potesse affermarsi la responsabilità penale a titolo di colpa, non doveva prestarsi attenzione alla gravità della stessa, dato rilevante solo ai fini del quantum della pena (art. 133 c.p.). Successivamente la giurisprudenza ha cambiato indirizzo e, per appurare la responsabilità penale medica, si è servita delle norme di natura civilistica in tema di professioni intellettuali – anche in campo civile prima non si faceva neanche riferimento al contratto di spedalità ma a quello di opera intellettuale[2] – riferendosi prima all’art. 1176, comma 2, c.c. e poi all’art. 2236 c.c.: il professionista veniva considerato esente da responsabilità ove l’eventuale danno del paziente fosse causato da colpa lieve, laddove il caso affrontato in concreto fosse di particolare difficoltà. Sul tema si è poi registrato un intervento della Corte Costituzionale[3] il quale riportava che “La particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli artt. 589 e 42 (e meglio, 43) del codice penale, in relazione all’art. 2236 del codice civile, per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, é il riflesso di una normativa dettata (come si legge nella relazione del Guardasigilli al codice civile n. 917) “di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista” stesso”. In questo modo il Giudice delle leggi confermava l’orientamento formatosi e chiariva che la necessità della presenza di colpa grave ai fini del riconoscimento della penale responsabilità in capo all’esercente la professione sanitaria è ragionevole solo quando vi sia un errore tipicamente professionale scaturito da difetto di perizia ma non anche in presenza di imprudenza o negligenza. Ad ogni modo si riteneva che ambedue gli orientamenti comportavano delle problematiche: la tesi che sostiene l’applicazione delle norme civilistiche di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c. introduceva un sistema anomalo in quanto l’impianto penale non contemplava una diversificazione della colpa ed era (com’è) incentrato sul principio di tassatività e del divieto di analogia; l’indirizzo opposto, invece, rendeva già diametralmente differenti gli accertamenti civili e penali nel campo della responsabilità medica in contrasto col principio dell’univocità dell’accertamento giuridico e limitava molto l’interprete nell’adattamento della responsabilità penale al caso concreto[4]. Intervennero comunque gli Ermellini con la sentenza n. 39592/2007 così ammettendo l’applicazione dell’art. 2236 c.c. per accertare la responsabilità penale del medico, non generalmente ed astrattamente, ma unicamente al caso concreto ed il giudice, nel valutare la responsabilità colposa del medico, doveva quindi tener conto della specificità dell’intervento praticato. Orbene un tale assetto normativo e giurisprudenziale ormai consolidato da decenni è stato alternato dall’introduzione dell’art. 3 del. D.L. 158/2012, convertito con modificazioni dalla L. 189/2012, sulla scorta della necessità di limitare in qualche modo l’ormai dilagante fenomeno della responsabilità medica.
Su segnalazione della stessa Quarta Sezione Penale, oggi, il Primo Presidente ha assegnato alle Sezioni Unite il compito di risolvere quindi il contrasto sulla rilevanza penale della colpa medica a fronte del rispetto delle linee guida dettate in materia dalla Legge Gelli-Bianco.
Dopo l’udienza del 21 dicembre scorso, dunque, le SS.UU. fornivano il seguente principio di diritto: “L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: – a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; – b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia: 1) nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 2) nell’ipotesi di errore rimproverabile nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l’obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse; – c) se l’evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”.
Ancora, dunque, si fa riferimento al concetto di “colpa” (grave o lieve). Ora, a parere di chi scrive, anche per il riferimento nella stessa informazione provvisoria al comma 1 dell’art. 3 L. Balduzzi, pare si possa già legittimamente opinare che, pure per quanto previsto espressamente invece dall’art. 6, comma 2, L. Gelli-Bianco (anch’esso richiamato), ovvero che “all’articolo 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, il comma 1 è abrogato”, intenzione del legislatore dell’ultima riforma non sarebbe comunque stata quella di far rivivere quella giurisprudenza precedente al 2012 (addirittura riconosciuta nella prima sentenza n. 28187/2017 maggiormente sfavorevole) e che così facendo si finirebbe di applicare un mero “calcolo algebrico” tra disposizioni normative post abrogazione in contrasto con quanto anche richiesto dai tempi. Soprattutto considerando la lett. c), si rischia di comprimere fortemente la portata dell’esimente della imperizia per come in riforma: il medico, non solo ha ben scelto e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate o adattate al caso concreto, ma risponde per imperizia, in nome di una colpa grave (che si è voluta espressamente abrogare) anche se deve comunque tenersi conto di altri criteri di giudizio quali il grado del rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico. Si consideri infine al riguardo che una delle principali finalità della riforma voleva certamente essere quella di almeno ridurre il fenomeno della medicina difensiva “riparando” il medico e la importante procedura per formare le linee guida (art. 5 L. Gelli)[5]. Ma forse anche una migliore formulazione del disposto legislativo non graverebbe nemmeno alla causa poiché il conflitto potrebbe considerarsi in realtà anche solo apparente, in quanto gli orientamenti di cui alle due recenti sentenze hanno fotografato aspetti parimenti veri della riforma, la quale presenta tratti che rendono la disciplina penale sostanziale della responsabilità medica contemporaneamente più favorevole, in particolare laddove si è estesa l’area di non punibilità anche a casi di imperizia grave (anche se invece ancora ammessa nell’accezione di cui alla lett. c) della informazione n. 31), e più sfavorevole, con la reintroduzione di una punibilità per imprudenza e negligenza lievi (tra l’altro su quanto sempre contenuto nella informazione provvisoria sul punto ci sarebbe anche da dire in quanto anche queste forme di colpa sono posti alla base di una responsabilità penale del medico leggendo la lett. a), con ciò fomentandosi il dubbio che sia rispettato ancora il principio di cui all’art. 2, comma 4, c.p. pur tenendo in considerazione la formulazione della questione controversa per come inizialmente indicato o che si sia persa comunque un’occasione per fare chiarezza). Poteva apparire inevitabile, quindi allo stato precedente al 21 dicembre scorso, che la disciplina più favorevole in concreto, da applicare agli esercenti la professione sanitaria che si vedano imputati, sarebbe dovuta essere il risultato di un mix tra le due legislazioni susseguitesi, nel quale selezionare gli aspetti di ciascuna che risultino di volta in volta più favorevoli in concreto[6].
Si legga comunque la requisitoria della Procura Generale presso la Corte di Cassazione alla udienza pubblica del 21 dicembre scorso che bene evidenzia i vantaggi e gli svantaggi della riforma rispetto al regime precedente e laddove si faceva già presente che “Tuttavia, la sorte di questo processo deve fare i conti, ed è la ragione per cui siamo oggi dinanzi alle Sezioni Unite, con il chiaro mutamento del quadro normativo per effetto dell’introduzione dell’art. 590 sexies ad opera della legge 8.3.2017, n. 24 (cd. Gelli Bianco), per effetto del quale “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida” definite e pubblicate dalle legge, se adeguate alla specificità del caso concreto, o, in mancanza, dalle buone prassi. Come è noto, tale norma abroga la legge Balduzzi (d.l. 158/2012, conv. in l. 189/2012) il cui art. 3 esentava da responsabilità il medico che si fosse attenuto al rispetto delle linee guida e delle buone prassi accreditate dalla comunità scientifica quand’anche fosse riscontrabile una sua colpa lieve. Orbene, un’interpretazione della novità legislativa ferma al dato letterale, operata attraverso la sentenza n. 50078/2017 (Cavazza) della Quarta penale, porta ad affermare che: a) restano fuori dalla causa di non punibilità (apparente o reale che sia la sua natura giuridica) la colpa per negligenza e la colpa per imprudenza, che tuttavia sono rarissime nel caso di responsabilità dei sanitari; b) resta fuori dall’ambito applicativo della norma il caso non disciplinato da linee guida o non sorretto dalla sperimentata esperienza delle buone prassi; c) mentre, non risponde degli eventi dannosi riconducibili alle sue condotte il medico che, individuate correttamente le linee guida, le abbia applicate fedelmente; d) laddove, invece, continua a risponderne chi le abbia male individuate o le abbia male applicate. Per tale decisione la graduazione della colpa nell’ambito dell’imperizia è stata abolita, sicchè non potrebbe attribuirsi alla colpa grave “un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità”. Tale convincimento è rafforzato dall’interpretazione storica, posto che il novum normativo avrebbe esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile. La rinuncia alla pena nei confronti del medico si giustificherebbe nell’ottica di una scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva. Tale esegesi giurisprudenziale non dialoga, sembra quasi anzi ignorare, la precedente pronuncia della stessa Sezione Quarta, n. 28817/2017, che invece faceva uno sforzo intellettuale oltre la lettera e forse oltre le stesse finalità della legge, tentando la strada della lettura costituzionalmente orientata. In ballo, in effetti, ci sono principi costituzionali importanti, quali la tutela della salute del cittadino (ex art. 32 Cost.) ed anche ragioni di coerenza del sistema evincibili dall’art. 3 Cost., laddove si registrassero la non punibilità dell’imperizia grave ed, invece, la perdurante punibilità di una negligenza lieve. Il dato di partenza della decisione è quello dell’impossibilità della rinuncia a leggere la norma secondo il principio di colpevolezza, fondato sui consueti canoni della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. Nel contempo altra esigenza da cui sembra partire la pronuncia è quella di evitare la ipervalorizzazione della linee guida, che devono essere considerate non come norme tariffarie, ma come direttive generali, come orientamenti, come istruzioni di massima […] Due interpretazioni a confronto, dunque, si diceva. Ma entrambe con degli evidenti problemi, a parere di questo PG. L’ultima in ordine cronologico (n. 50078/2017) non è sostenibile, nella misura in cui recepisce supinamente il dettato legislativo, inconsapevolmente accettando il rischio del vulnus di alcune garanzie costituzionali. a) In primis quella dell’art. 3 Cost., atteso che l’imperizia grave resterebbe non punibile differentemente da altre forme di colpa, inquadrabili nella negligenza o nell’imprudenza, ancorchè manifestatesi in forma lieve; sempre quella dell’art. 3 Cost., avuto riguardo all’incoerenza del sistema ove la colpa medica venga confrontata con la disciplina riservata ad altre categorie professionali, che non godrebbero di analogo vantaggio; b) dell’art. 25 Cost., posto che vi è un chiaro problema di tassatività della norma laddove la causa di non punibilità è agganciata a linee guida non pubblicate ai sensi di legge ma, piuttosto, a mere buone pratiche e raccomandazioni desumibili aliunde senza altra precisazione normativa; c) dell’art. 27 Cost., attesa la rinuncia a ragionare in termini di responsabilità colpevole, utilizzando gli schemi tradizionali della prevedibilità ed evitabilità dell’evento e, soprattutto, della graduazione della responsabilità caso per caso; d) dell’art. 32 Cost., atteso che la salute del cittadino è meglio tutelata allorquando il medico si sforzi il più possibile di adattare la terapia alle peculiari caratteristiche del paziente piuttosto che rifugiarsi nell’acritica applicazione di protocolli; e) dell’art. 2 Cost., proprio perché la dignità della professione medica sarebbe meglio garantita dal riconoscimento di una maggiore libertà terapeutica, consentendo al professionista di uscire da schemi che a volte diventano esiziali e mortificanti della fantasia stessa dell’operatore sanitario, in modo da fargli abbandonare paradossali, sebbene più comode, logiche impiegatizie; f) del combinato disposto degli artt. 24, 101, 102 e 111 Cost., laddove il legislatore consente un’irragionevole limitazione del controllo del giudice, costretto a registrare in maniera notarile il rispetto delle linee guida, e a dover escludere il reato, una volta effettuata detta constatazione, senza poter fare altre valutazioni. L’applicazione letterale della nuova norma, in altri termini, non risolve il problema della difesa di questi valori irrinunciabili, né tantomeno ne propone un bilanciamento. La legge, cioè, dovendo individuare un centro di equilibrio tra tranquillità professionale del medico e garanzia del paziente di avere un trattamento il più possibile personalizzato, semmai a costo del superamento di protocolli e prassi, sposta chiaramente il baricentro a favore della prima esigenza. Questo stato di cose è ritenuto di fatto inevitabile dall’orientamento giurisprudenziale in esame ma è, francamente, inaccettabile. Dal canto suo, invece, la prima pronuncia (n. 28187/2017, Tarabori) tenta la strada dell’interpretazione conforme ai principi costituzionali, ma lo fa ad un prezzo troppo alto, pagato in termini di incertezza delle regole da applicare e, perfino, in termini di neutralizzazione della riforma. Certamente, l’esigenza costituzionale di continuare a pretendere che anche l’imperizia, vale a dire l’inosservanza delle leges artis, sia suscettibile di graduazione, è insopprimibile. Ma costituisce un dato certo, che la legge Gelli Bianco abbia abrogato il riferimento alla colpa lieve e che al posto di essa abbia inserito un’equazione chiara, che suona così: “applicazione corretta del protocollo giusto = nessuna imperizia = nessuna colpa = nessun reato”.
La Procura Generale concludeva chiedendo inoltre di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 590 sexies in relazione agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 101, 102 e 111 Cost. che forse, anche alla luce del precedente intervento del 1973 e del riferimento della Cassazione nel provvedimento del 21 dicembre scorso all’art. 2236 c.c., sarebbe stato anche utile al fine di dirimere alcune discussioni, vertenti su un (ipotetico) mancato rispetto di alcuni punti della riforma Gelli alla Costituzione, in essere tra gli operatori del diritto.
[1] http://www.salvisjuribus.it/colpa-medica-le-sezioni-unite-penali-risolvono-il-contrasto/; http://www.responsabilecivile.it/sezioni-unite-penali-legge-gelli-peggio-della-balduzzi-medico/.
[2] Cass. Sez. III, n. 6141 del 21 dicembre 1978.
[3] Sentenza n. 166 del 22 novembre 1973.
[4] M. L. Missiaggia, La responsabilità sanitaria, guida operativa alla riforma Gelli (L. 8 marzo 2017, n. 24), LaTribuna, p. 20.
[5] Ciò anche considerando la modifica apportata dall’art. 11, lett. a) del DDL Lorenzin ormai approvato definitivamente al Senato il 22 dicembre 2017: “all’articolo 5, comma 3, primo periodo, le parole: «con la procedura di cui all’articolo 1, comma 28, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni,» sono soppresse”.
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