La facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti è disciplinata dall’art. 199 del cod. proc. pen. il quale al 1° comma dice: “I prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre. Devono tuttavia deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato”.
Per l’individuazione dei prossimi congiunti dell’imputato o della persona sottoposta ad indagini preliminari, l’art. 199 c. p. p. rimanda all’art 307 c. p. di cui fa espressa menzione. Secondo quest’ultimo, infatti, “s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”.
Tale norma, poi, estende l’efficacia del proprio contenuto anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione, non operandosi alcuna distinzione tra l’adozione di minori d’età e quella di maggiorenni.
Nel silenzio della legge deve ritenersi che entrambe le ipotesi siano da ricomprendere nella previsione legislativa; peraltro, posto che l’adozione ordinaria non recide i legami con la famiglia d’origine, chi viene adottato da altri non può essere obbligato a deporre neppure contro il proprio congiunto “naturale”.
Nessun richiamo si rinviene, invece, nell’art. 199 c. p. p., all’affido familiare che spesso è caratterizzato da legami affettivi non meno coinvolgenti di quelli dell’adozione. Considerato l’avvenuto riconoscimento della rilevanza giuridica di situazioni di convivenza “di fatto”, tranquillamente si sarebbe potuto garantire la facoltà di astensione, sia pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi durante la convivenza stessa, anche in quelle situazioni in cui il tribunale per i minorenni ha operato l’affidamento di un minore ad un determinato nucleo familiare, attribuendo ai genitori affidatari l’esercizio della potestà di cui all’art. 316 cod. civ.
L’art. 199 cod. proc. pen. si applica, infine, limitatamente ai fatti appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale, anche a: 1) colui che pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con esso; 2) al coniuge separato dell’imputato; 3) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato.
In particolare, come si evince dal 3° comma, numero 1) del suddetto articolo, l’estensione della previsione di questa ipotesi di esenzione dall’obbligo testimoniale costituisce l’effetto della sentenza n.6/1977 della Corte Costituzionale, la quale ha precisato che il legislatore deve farsi carico delle situazioni di convivenza di fatto, ai fini del riconoscimento di determinate garanzie anche nel processo penale.
A tal proposito è di fondamentale importanza, poi, ricordare la decisione – in tema di convivenza di fatto – della Corte d’Assise di Torino (19/11/93), con la quale quest’ultima ha assimilato, come presupposto della facoltà di astensione dal testimoniare, la convivenza tra soggetti omosessuali a quella tra soggetti eterosessuali, ravvisando anche nella prima la situazione psicologica determinata dal vincolo affettivo da cui trae fondamento la disposizione dell’art. 199 c. p. p.
Secondo la Corte d’Assise di Torino, infatti, gli elementi essenziali del rapporto di coniugio vanno identificati nell’esistenza di un legame affettivo stabile che includa la reciproca disponibilità ad intrattenere rapporti sessuali, il tutto ricompreso in un contesto in cui siano presenti atteggiamenti di reciproca assistenza e solidarietà; tali elementi, dunque, non risultano esclusi dalla sola uniformità di sesso fra le persone in relazione, per cui quando essi sono presenti in una convivenza more uxorio tra persone dello stesso sesso, consentono al testimone di astenersi dal deporre nel procedimento nei confronti del convivente imputato.
Concludendo vediamo, quindi, che la ratio posta alla base della facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti risponde a varie esigenze. La prima di esse risiede nella necessità di preservare il processo dal pericolo di introduzione di prove potenzialmente non genuine, data la delicata situazione psicologica in cui versa il congiunto di un imputato, dibattuto dal conflitto interiore di dover, o nuocere al proprio familiare, o deporre il falso. La seconda si riconnette al rispetto di precisi doveri morali, di obblighi naturali, che il prossimo congiunto chiamato a testimoniare sente di avere verso il proprio parente imputato, in virtù di quel vincolo di solidarietà che lega fra loro gli appartenenti al medesimo nucleo familiare.
Ora, da un punto di vista teorico, la soluzione più idonea a soddisfare la prima esigenza sarebbe senz’altro quella della previsione di un divieto probatorio, o, meglio, di una regola di esclusione nei confronti della testimonianza dei prossimi congiunti. Sarebbe certamente questa la soluzione più radicale, e, nel contempo, la più sicura; essa corrisponde, del resto, alla soluzione che storicamente vediamo adattata nel processo inquisitorio, quando si parlava di incapacità a testimoniare dei prossimi congiunti, di loro inidoneità, di testes non integri.
Se è vero che l’esigenza di genuinità della prova potrebbe essere soddisfatta attraverso una soluzione del genere, è però altrettanto vero che nella moderna concezione del processo, tale esigenza si scontra con l’orientamento politico – legislativo di ridurre al minimo l’ambito delle prove aprioristicamente sottratte alla valutazione del giudice. Alla luce di questo secondo interesse, davvero fondamentale, ci si è resi conto che l’esigenza di profilassi del processo a livello di prova testimoniale poteva soddisfarsi anche soltanto attribuendo al giudice la valutazione sull’attendibilità delle testimonianze dei prossimi congiunti.
Muovendo da un simile ordine di idee si potrebbe essere indotti a ritenere, allora, che il problema non sussiste più, e cioè che i prossimi congiunti dell’imputato o dell’indagato possono essere normalmente ammessi ed assunti come testimoni, dato che poi sarà il giudice a selezionarne i contributi, giudicando se sono o non sono credibili.
A questo punto, tuttavia, emerge l’altra esigenza di cui si diceva prima, cioè l’esigenza di avere riguardo per il prossimo congiunto nei suoi rapporti all’interno della famiglia, intesa latu sensu, e perciò di rispettarne i vincoli morali ed i sentimenti ispirati alla solidarietà familiare.
Si è imposta, quindi, una soluzione che tenesse conto del complesso di esigenze, di interessi e di valori cui s’è fatto cenno, e la soluzione più adatta allo scopo, fra le molte che si sono profilate in dottrina e sono state accolte attraverso i secoli nei vari ordinamenti, sembra quella di non porre un divieto alla testimonianza dei prossimi congiunti, ma di consentire loro la possibilità di scegliere essi stessi, in piena libertà, se vogliano o meno testimoniare.
Infine è meritevole di considerazione anche la tesi secondo cui trattandosi, nella maggioranza dei casi, di persone sfornite di cultura giuridica, poco o non informate circa i propri diritti, si è posto, in capo al giudice – così come al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria – l’obbligo di avvertimento che impone a questi ultimi di chiedere loro, in modo chiaro e preciso, se intendono avvalersene.
Per quanto concerne le modalità ed il contenuto dell’avviso si deve ritenere che, pur non richiedendosi l’uso di espressioni sacramentali, esso dev’essere rivolto all’interessato in forma esplicita ed univoca, in modo da focalizzare l’attenzione del teste sulla possibilità di avvalersi del diritto di astensione e di evitare l’alternativa tra il danneggiare un congiunto col riferire la verità o dire il falso rischiando l’incriminazione per falsa testimonianza.
Va, altresì, sottolineato che l’obbligo di avvertire a pena di nullità i prossimi congiunti, sostiene la Suprema Corte di Cassazione, si pone come principio generale che va osservato ogni volta in cui nei vari momenti procedimentali, le dichiarazioni dei prossimi congiunti devono essere assunte per esigenze di ordine processuale e, quindi, si caratterizza al tempo stesso per l’autonomia delle singole scelte di volta in volta operate dal testimone.
Sono tenuti ad avvertire quest’ultimo, dunque, della facoltà riconosciutagli dalla legge sia il giudice monocratico o il presidente del collegio, prima che inizi l’esame in sede dibattimentale, sia il giudice per le indagini preliminari qualora l’assunzione della testimonianza debba avvenire nel corso di un incidente probatorio.
A tal proposito si ribadisce che l’esplicito richiamo dell’art. 199 c. p. p. contenuto nell’art. 362 c. p. p. fa rientrare tra i destinatari dell’obbligo anche il pubblico ministero, il quale, nel corso delle indagini preliminari, se intende assumere informazioni da prossimi congiunti che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, è tenuto ad avvisare gli stessi della facoltà di astenersi loro riconosciuta. Ciò per effetto dell’art. 5 del D. L. 8 giugno 1992 convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992 n. 356.
Nell’ipotesi di omissione dell’avviso, però, le dichiarazioni documentate con le modalità previste dall’art. 373 c. p. p. non potranno avere alcun utilizzo processuale, a meno che il teste rinunci, in dibattimento, alla facoltà di astenersi e faccia integrale richiamo ad esse.
E’ di fondamentale importanza, poi, l’estensione della disciplina ora enunciata all’art. 351 c. p. p., novellato dall’art. 4 della suddetta legge, che impone l’obbligo di avvertimento anche alla polizia giudiziaria in sede di assunzione di informazioni utili per l’indagine dai prossimi congiunti dell’indagato.
Il 1° comma dell’art. 199 c. p. p. prevede alcune deroghe al principio generale di astensione dal testimoniare, motivate dalla necessità che vengano sentiti, in fase dibattimentale, coloro che hanno emesso un giudizio di riferibilità dell’illecito al prossimo congiunto e, per ciò stesso, hanno dimostrato con il loro contegno di aver vinto ogni interiore esitazione. La proposizione della denuncia, della querela o dell’istanza di procedimento rende non operante la facoltà di astensione; qualora, infatti, non fosse consentito al giudice di obbligare il querelante, il denunciante o l’istante a sottoporsi all’esame ed al controesame in contraddittorio con tutte le parti, si eliminerebbe dal processo una indispensabile fonte di prova.
Per quanto riguarda in particolare i denuncianti, si è ritenuto che gli stessi debbano rivestire la qualità di congiunti o nel momento della commissione del reato o, quanto meno, nel momento della presentazione della denuncia. Si discute, poi, in dottrina se l’atto debba consistere in una denuncia “formale” o se sia sufficiente, per precludere in seguito la facoltà di astensione, che le sommarie informazioni acquisite dal congiunto a norma degli artt. 351 e 362 c. p. p. e verbalizzate, contengano dichiarazioni accusatorie nei confronti dell’accusato.
E ancora va ricordato l’orientamento dottrinale secondo cui non opera il divieto di astensione quando il congiunto sia costretto a presentare denuncia in forza di un obbligo legale, quale per esempio, quale quello connesso alla sua qualità di pubblico ufficiale.
Queste eccezioni alla facoltà di astensione dal testimoniare dei prossimi congiunti prevista dal 1° comma dell’art. 199 c. p. p. non collimano, purtroppo, con i tempi del processo, i quali dovrebbero essere tali da consentire una celebrazione del dibattimento a breve distanza dalla commissione del reato. E’ noto, infatti, come la lentezza della giustizia determina, il più delle volte, la fissazione di giudizi penali a parecchio tempo dai fatti.
Si può verificare in tali ipotesi, quindi, che il familiare da cui proviene la notitia criminis o la querela non ha più alcun interesse ad una condanna o ad una prosecuzione del processo. L’indagine giudiziaria viene, dunque, a turbare una serenità tra l’imputato ed il congiunto accusatore, magari difficilmente riacquistata con il passare del tempo, e pone il teste nell’angoscioso conflitto tra una falsa testimonianza ed una deposizione dannosa per l’imputato e talora per il teste stesso.
Questa ipotesi rende ancor più complicata la risoluzione di un conflitto interiore, quando si tratta di reati perseguibili d’ufficio, per cui la rimessione della querela non è di per sé sufficiente per evitare la testimonianza.
L’obbligo di avvertimento, ai prossimi congiunti di un imputato o di un indagato, della facoltà di astensione dal deporre non è privo, in caso di inosservanza, di conseguenze sanzionatorie, soprattutto quanto ai tempi necessari per rilevare l’anomalia.
Nell’attuale previsione legislativa, l’ipotesi di mancato avvertimento è sanzionata con la nullità della stessa deposizione. Difatti qualora si verifichi l’ipotesi di mancato avviso, in sede di assunzione di informazioni ad opera della polizia giudiziaria o del pubblico ministero, oppure durante l’incidente probatorio, la nullità deve essere eccepita, a pena di decadenza, prima che sia pronunciato, dal giudice delle indagini preliminari, il decreto che dispone il giudizio o la sentenza di non luogo a procedere ex art. 424 c. p. p.
Per quanto riguarda la fase dibattimentale, invece, la nullità per mancato avvertimento deve essere eccepita, sempre a pena di decadenza, con l’impugnazione della relativa sentenza.
Va, però, innanzitutto precisato che ciò che la rubrica dell’art. 199 c. p. p. impropriamente definisce “facoltà d’astensione”, costituisce, in realtà, un vero e proprio divieto probatorio, nel senso che il giudice non può obbligare determinati soggetti mediante i mezzi coattivi ex art. 207 c. p. p.; giacché scatterebbe la sanzione processuale della inutilizzabilità di quanto acquisito (art. 191, co. 1°, c. p. p.).
Al profilo del divieto probatorio – per il giudice – corrisponde un vero e proprio diritto dei testimoni, congiunti ed assimilati, a non rispondere; la ricostruzione, in termini di vero e proprio diritto, di ciò che soltanto per considerazioni di ordine tralatizio continua a chiamarsi facoltà, è imposta dalla osservazione di due dati: in primo luogo, il chiaro tenore dell’art. 199, co. 2, c. p. p. ove si prevede che il giudice, a pena di nullità – da intendersi, ai sensi degli artt. 178, 179 e 181 c. p. p., quale relativa e dunque da eccepirsi dalle parti nei termini scanditi dall’art. 181, commi 1, 2 e 4, c. p. p. – debba avvisare il teste dell’esistenza della facoltà di astensione e domandargli se intenda avvalersene o meno; in secondo luogo, il rilievo che tale previsione consente di superare le incertezze che scaturivano dal testo dell’art. 350 cod. abr., dove l’inciso “se ne è il caso”, riferito all’avviso, induceva a dubitare dell’esistenza di un vero e proprio obbligo in capo al giudice di rendere edotti i testimoni.
Premesso ciò bisogna dire che le opinioni, in dottrina e in giurisprudenza, sono divergenti.
C’è chi afferma che l’omesso avviso configuri una nullità relativa (come sopra delineato), e chi afferma, invece, che debba essere sancita l’inutilizzabilità della testimonianza del prossimo congiunto. Ora possiamo dire, a nostro modesto avviso, che entrambe le tesi sono esatte se si tiene conto del dato originario su cui, costoro, fondano le proprie opinioni.
E’ innegabile, infatti, a sostegno di coloro che affermano che si tratti di nullità relativa ai sensi del combinato disposto degli artt. 199 – 181 c. p. p., che il dato originario è costituito proprio dalla previsione legislativa, e che quindi nessun’altra norma potrà essere applicata, se non quella prevista dal legislatore penale.
Invece, il dato originario su cui si fonda la tesi secondo cui l’omesso avviso dà luogo ad una inutilizzabilità, ex art. 191 c. p. p., della testimonianza dei prossimi congiunti, è costituito dal fondamento logico – giuridico secondo il quale meglio avrebbe fatto il legislatore se, accogliendo le istanze della dottrina, avesse comminato direttamente l’inutilizzabilità della prova illecitamente assunta, senza riservare tale sanzione al solo caso in cui il giudice (nell’ipotesi presa in esame), sprezzante della volontà espressa dal congiunto di volersi avvalere del diritto d’astensione a seguito dell’avvertimento ricevuto, lo obblighi, comunque, a testimoniare.
Il non aver esteso l’inutilizzabilità della prova anche al caso delineato, presta il fianco a facili e non improbabili possibilità di aggiramenti normativi che non sono in alcun modo ineliminabili: una volta sanata la prova illecita, infatti, e consolidata definitivamente la sua efficacia, essa andrà ad arricchire il ventaglio di prove che il giudice porrà a base della sentenza.
A supporto, invece, della inutilizzabilità delle dichiarazioni dei prossimi congiunti dell’imputato sono le recenti pronunce della Suprema Corte nelle ipotesi di legittima acquisizione delle stesse, ma che possono divenire tali in taluni casi.
Infatti, ad esempio, qualora il prossimo congiunto di un imputato, in un processo con più imputati, dopo aver riferito quale persona informata sui fatti in fase di indagini, si sia avvalso della facoltà di astenersi dal deporre in sede dibattimentale, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate, ai sensi dell’art. 512 c. p. p., per il tramite della lettura delle dichiarazioni rese nei confronti del prossimo congiunto; ben si può, anzi si deve, invece, sostiene il Supremo Collegio, procedere alla lettura delle dichiarazioni rese precedentemente dal suddetto testimone nei confronti dei coimputati del prossimo congiunto, essendo imprevedibile un rifiuto di ribadire una testimonianza precedentemente resa.
Qualora, poi, una sentenza fondi le proprie motivazioni su prove inutilizzabili la Cassazione può procedere alla cosiddetta “prova di resistenza”, nel senso di valutare se gli elementi di prova acquisiti abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, controllando la struttura argomentativa della motivazione per stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa, anche senza quegli elementi, grazie ad altre prove ritenute sufficienti a giustificare l’identico convincimento.
Un problema si pone, invece, a parere di chi scrive, riguardo alla testimonianza di chi, in fase di indagini preliminari rende dichiarazioni e poi, solo in una fase successiva acquisisce lo status di prossimo congiunto dell’imputato.
Si potrebbe, dunque, sostenere, in tale fattispecie, una soluzione positiva circa l’utilizzabilità delle prove raccolte, in quanto nessun rapporto legava i due al tempo dell’acquisizione delle informazioni in sede di indagini preliminari.
A ciò, però, si può obiettare, ed a giusta ragione ad avviso di chi scrive, che anche in tale ipotesi le suddette prove sono inutilizzabili proprio in base al dettato dell’art. 199 c. p. p. che parla specificamente di prossimi congiunti dell’imputato, non rilevando, all’uopo, i rapporti intercorrenti, in epoca di indagini, tra il testimone e l’imputato stesso.
All’obbligo testimoniale la legge, dunque, ammette alcune eccezioni tra cui quella disciplinata dall’art. 199 c. p. p.
La facoltà ivi prevista riguarda l’esenzione dall’obbligo di rispondere, non di presentarsi per essere interrogato, poiché soltanto l’interrogazione mette l’interrogato in condizione di esercitarla.
Manifestamente la facoltà di astenersi non può essere accordata, se non per la tutela di un interesse prevalente su quello che si usa chiamare interesse di giustizia. Tale interesse si tutela mediante il segreto, il quale allude ad una separazione tra fatti che possono essere conosciuti e fatti che non debbono essere conosciuti oltre una certa sfera di rapporti.
Per scoprire le radici profonde, non del tutto facile da farsi, del cd. segreto familiare, occorre risalire al bisogno fondamentale dell’individuo di essere sé stesso, ossia diverso dagli altri. Questo bisogno si ravvisa nella esigenza che certe manifestazioni della sua vita siano sottratte alla conoscenza altrui.
E poiché l’individuo non basta, da solo, a raggiungere alcuno dei suoi scopi, codesto bisogno fondamentale si risolve in quello di scegliere la persona o le persone delle quali si fida, così che i fatti che egli vuole sottrarre all’altrui conoscenza non siano da esse comunicati agli altri.
Alla base, poi, dell’interesse del prossimo congiunto alla facoltà di astensione dal deporre vi è qualcosa in più: il fondamento dell’esenzione è costituito, infatti, dall’interesse alla coesione della famiglia, la cui importanza è tale per la comunità da superare l’interesse alla punizione del colpevole. La famiglia è il germe della società; nessuna cura, pertanto dev’essere trascurata per garantire l’incolumità di questo germe e la fiducia, fondata sull’affetto, è la forza di coesione della famiglia; perciò costringere un prossimo congiunto a testimoniare, se non vuole, significa incrinare la compagine della famiglia, cioè di quella comunità di individui, costituzionalmente tutelata, fondamenta di ogni società civile.
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