La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 6 dicembre 1999, n. 13655, Ric. Panini, è tornata ad occuparsi di una questione a lungo dibattuta in materia di interpretazione degli artt. 1590 e 1591 c.c., rispettivamente intitolati alla “restituzione della cosa locata”, il primo, ed ai “danni per ritardata restituzione”, il secondo.
E’ invero assai frequente, nella prassi dei contratti di affitto di immobili ad uso abitativo, che, proprio il momento in cui il proprietario rientra nella disponibilità dell’alloggio, sia caratterizzato da tutta una serie di controversie e discussioni fra le parti, relative ai danni eccedenti il normale degrado, che si assumono subiti dall’appartamento stesso.
Più in particolare, ed in ciò è da individuarsi il vero punctum dolens risolto dalla pronunzia che qui si commenta, risulta difficile stabilire se a carico del conduttore debbano gravare o meno le spese per il pagamento dei canoni ulteriori, fino al momento della restituzione effettiva dell’immobile al legittimo proprietario.
Il dettato delle norme coinvolte è piuttosto chiaro:
art 1590, comma 1, “Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta, …., salvo il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto”;
art. 1591, “Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”.
Pacifico appare dunque, secondo la legge, il diritto del proprietario di continuare a percepire il canone per tutto il tempo necessario al conduttore per effettuare le necessarie riparazioni sull’immobile, allo scopo di ricondurlo all’originario stato in cui esso si trovava quando il contratto è stato stipulato.
Il problema diventa invece quello di delineare con maggior precisione il concetto di mora del conduttore, posto che da questa scaturisce l’obbligo legale, per lo stesso conduttore, di pagare il canone di locazione per la durata dei lavori di riparazione e di ripristino da compiersi sull’alloggio.
Da questo punto di vista, va notato come la giurisprudenza di legittimità si sia di recente attestata su posizioni consolidate ed indubitabilmente coerenti con il dato legislativo, all’esito tuttavia – ed è ciò che ci preme evidenziare – di un percorso evolutivo che non ha mancato di dar luogo ad orientamenti interpretativi contrastanti.
Basti a tal fine ricordare una fra le tante pronunzie della Suprema Corte, risalente al 1976[1], ove si afferma che “…nei confronti del conduttore che abbia restituito la cosa locata, in uno stato diverso da quello in cui l’ha ricevuta, il locatore può agire soltanto per il risarcimento dei danni, ex art. 1590 c.c. e non per il pagamento dei canoni, fino al ripristino dello stato iniziale della cosa medesima, essendo quest’ultima azione prevista solo nel diverso caso di mora del conduttore nella restituzione (art. 1591 c.c.)”.
Un primo indirizzo giurisprudenziale, formatosi a partire dagli anni Settanta, e fatto poi proprio dal legislatore del 1978 con il testo sull’equo canone, ha dunque arginato con decisione gli spazi di una responsabilità del soggetto conduttore dell’immobile, obbligato al risarcimento dei danni derivanti da un uso non conforme del bene posseduto entro i ristretti limiti dell’art. 1590.
L’aver cagionato danni all’appartamento assumeva un rilievo del tutto autonomo, senza che ciò potesse in alcun modo ricollegarsi alla situazione oggettiva che, proprio a motivo di quella condotta del conduttore, si concretizzava ad ulteriore nocumento del proprietario dell’alloggio: per eseguire le opere di ripristino, infatti, l’immobile non poteva essere locato con le ovvie conseguenze di una perdita, pur momentanea, della sua utilità economica.
Con il passare degli anni, e con un rinnovato clima di attenzione, da parte delle Istituzioni, anche alle ragioni della proprietà immobiliare, si è finalmente determinato un nuovo corso nell’evoluzione giurisprudenziale, il quale, passando attraverso alcune coraggiose tappe intermedie, è di recente approdato alla sua più compiuta maturazione.
“Il rifiuto del locatore di ricevere la restituzione della cosa locata – si legge in Cass. Sez. III, 18.6.1993, n. 6798 – quando essa presenti deterioramenti dovuti all’omessa esecuzione delle riparazioni è illegittimo, ma il locatore medesimo ha diritto al risarcimento del danno, consistente nella somma di denaro occorrente per l’esecuzione delle riparazioni di piccola manutenzione omesse dal conduttore e nel mancato reddito ritraibile dalla cosa nel periodo di tempo necessario per l’esecuzione dei lavori di riparazione, e questa seconda serie di danni va determinata in relazione all’epoca in cui i lavori possono essere iniziati dal locatore usando l’ordinaria diligenza ed alla presumibile epoca del loro compimento”.
Inizia così a farsi strada, nella massima riportata, l’idea di un’interpretazione collegata degli artt. 1590 e 1591 c.c., scindendo da essa l’ulteriore questione della risarcibilità del “maggior danno”, desumibile dall’ultimo inciso dell’art. 1591 c.c., anch’essa frutto di una rinnovata sensibilità verso le prospettive di tutela della proprietà.
Nell’insieme delle ragioni di diritto fatte valere dal locatore confluiscono più voci di danno risarcibile: l’una, riconducibile alla somma di denaro necessaria per l’esecuzione dei lavori di riparazione dell’immobile deteriorato; l’altra, da far risalire all’ammontare dei canoni non percepiti dal locatore a causa dell’impossibilità di affittare l’appartamento per tutto il periodo di tempo necessario a compiere i suddetti lavori; l’ultima, infine, derivante dall’eventuale maggior danno sofferto dal locatore stesso.
In questo allargamento della sfera del danno che deve essere risarcito al proprietario dell’immobile , va individuato l’obiettivo centrato dal cammino di evoluzione giurisprudenziale del quale in questa sede si dà conto; un danno non più considerato, come in precedenza, “a compartimenti stagni”, ma rispetto al quale, invece, la mancata utilizzazione economica del bene da parte del locatore, per ragioni del tutto indipendenti dalla sua volontà, trova un suo giustificato e puntuale indennizzo.
Del resto, è apparso altresì evidente dalla stessa ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale in precedenza fornita che il dato conclusivo, cui è giunto il lavoro ermeneutico della Suprema Corte, non si discosta di gran lunga dal significato letterale delle norme di legge coinvolte.
Basti al riguardo riassumere il contenuto di una sentenza del 1995[2], per cogliere appieno le coordinate cui si orienta il nuovo corso della giurisprudenza di merito e di legittimità, nonché, da ultimo, la pronunzia che qui si commenta.
“L’obbligo del conduttore in mora nella restituzione della cosa – si legge nella suddetta sentenza – di pagare al locatore il corrispettivo convenuto sino alla riconsegna, ai sensi dell’art. 1591 c.c., costituendo una forma di risarcimento minima per la mancata disponibilità dell’immobile, prescinde dalla prova di un danno concreto subìto dal locatore, essendo tale prova necessaria solo per gli eventuali maggiori danni”.
Viene in tal modo del tutto superata quella scissione nella quantificazione del danno sofferto dal locatore, in forza della quale le sentenze di due decenni fa separavano il risarcimento ex art. 1590 c.c. dal pagamento dei canoni dovuti durante i lavori di riparazione: la logica interpretativa più recente prevede infatti che in ogni caso il conduttore sia obbligato a tale ultimo pagamento, configurandosi, a suo carico, una vera e propria mora ex lege.
Una presunzione di mora, cioè, che si determina in capo al conduttore per il solo fatto di aver egli cagionato danni all’immobile a seguito di un utilizzo non conforme del bene: tale circostanza, che di fatto “blocca” ogni possibile ulteriore sfruttamento economico dell’immobile, dà di per sé luogo al diritto del locatore di continuare comunque a percepire i canoni dall’inquilino in affitto.
Alla luce di quanto sino ad ora premesso può meglio comprendersi il senso della pronunzia della Suprema Corte del dicembre 1999, la cui massima vale del resto a suggellare un importante cammino evolutivo compiuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.
“Qualora in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna l’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto ad uso normale, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire quei danni e tale risarcimento deve coprire non solo il costo delle opere indispensabili alla rimessione in pristino, ma anche l’importo del canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario ai fini dell’esecuzione e del completamento di tali opere, e ciò a prescindere da concrete possibilità del locatore di provare di aver ricevuto da terzi richieste, non soddisfatte a causa dei lavori, di prendere in locazione l’immobile”.
Quest’ultima evenienza, che deve essere circostanziatamente provata dal locatore, può dar luogo, in ossequio all’inciso finale dell’art. 1591 c.c., al risarcimento dell’eventuale maggior danno patito dal proprietario dell’immobile.
note
[1] Cfr. Cass. 12.5.1976, n. 1678, rv. 380453, in “Codice civile” commentato, 1999, edizioni giuridiche Simone.
[2] Cfr. Cass., 7.6.1995, n. 6368, rv. 492710.
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