Secondo l’opinione prevalente in dottrina, i comportamenti sleali e disonesti consistono in una serie di attività rivolte non solo ad alterare la normale applicazione del principio del contraddittorio ed ottenere effetti vantaggiosi in conseguenza di un concorrente difetto di normale diligenza della controparte, ma anche in quelle consistenti in manovre scorrette con fini defatigatori e pretestuosi, le quali intralciano o semplicemente ritardano il regolare svolgimento del processo[1].
Possono essere fatti rientrare in tale categoria di comportamenti, ad esempio, la sottrazione dal proprio fascicolo di un atto o documento, già acquisito al processo, che possa avvantaggiare la controparte; l’affermazione di fatti contrari al vero (come la falsa indicazione della propria residenza per impedire alla controparte di eccepire l’incompetenza per territorio); la tardiva produzione di documenti, anche se autorizzata dal giudice[2]; la sleale richiesta al giudice, da parte del difensore, di un rinvio affermando di essere già d’accordo con il difensore avversario, assente all’udienza.
La violazione del dovere previsto dalla norma de quo implica l’irrogazione di sanzioni di natura disciplinare e processuale e ciò conferma la natura sia morale che giuridica di tale dovere.
Inoltre, il comportamento sleale è causa di applicazione di ulteriori norme: è consentito al giudice di desumere argomenti di prova dal contegno delle parti stesse nel processo[3] o di esercitare un controllo sull’attività delle parti provvedendo al fine di avere un procedimento leale[4]. Si pensi ancora – anche se è un caso più estremo – ai casi di opposizione da parte degli aventi causa o dei creditori di una delle parti alla sentenza, quando questa (sfavorevole al loro dante causa o debitore) sia stata pronunciata per effetto di dolo o collusione a loro danno[5].
La violazione della norma in commento può integrare sia un motivo di impugnazione della sentenza sia un’ipotesi di responsabilità per danni nei confronti della parte o del difensore. La parte, infatti, può essere condannata, anche se non soccombe, al rimborso delle spese processuali che l’altra parte abbia dovuto sostenere a causa del comportamento illecito (si veda l’art. 92, comma 1, c.p.c. il quale prevede espressamente che “il giudice, […] può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte”).
Ove il dovere di lealtà e probità venisse violato da parte del difensore, il giudice dovrà informare il Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato che pone in essere tali comportamenti scorretti, il quale, appurata la sussistenza della infrazione alle regole della deontologia professionale, dovrà applicare le relative sanzioni disciplinari. Non è necessaria l’istanza della parte in quanto il giudice agisce ex officio[6]. È comunque bene inoltre evidenziare in merito che, la sollecitazione della parte affinché il giudice, in caso di mancanza dei difensori al dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., riferisca alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi, non concreta una domanda in senso tecnico processuale alla quale corrisponda per il giudice un obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 112 c.p.c.[7]. Inoltre, quest’ultimo non è tenuto a verificare la slealtà del comportamento essendo questo un accertamento di fatto; tuttavia, laddove decida di farlo, avrà l’obbligo di informare ufficialmente il Consiglio dell’Ordine detto. Se, invece, le autorità professionali competenti prendono notizie di tali trasgressioni da altre fonti, possono autonomamente dare impulso al procedimento disciplinare[8]. Quindi l’art. 88 secondo comma c.p.c., il quale, in caso di inosservanza da parte del difensore del dovere di lealtà e probità, prevede che il giudice ne riferisca all’autorità esercente il potere disciplinare, non esclude né interferisce sulla potestà dei competenti organi professionali di promuovere autonomamente il procedimento disciplinare per detta inosservanza, ove ne ricevano notizia aliunde.
Riguardo questo preciso dovere delle parti (e per quel che riguarda l’intervento del giudice) rileva inoltre la recente sentenza degli Ermellini a SS. UU., n. 10090/2015, la quale precisa che in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, il dovere di probità, dignità e decoro, sancito dall’art. 6 del Codice deontologico forense (in particolare si veda il comma 2), ha riscontro nell’art. 88 cod. proc. civ. che non solo sancisce il dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ma impone al giudice, ove il patrocinatore lo infranga, di riferirne all’autorità disciplinare:“è sufficiente al riguardo considerare che l’obbligo dell’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro, colà sancito, ha un preciso e speculare riscontro nel disposto dell’art. 88 cod. proc. civ., che non solo sancisce il dovere delle parti e dei loro difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ma impone altresì al giudice, ove il patrocinatore lo infranga, di riferirne all’autorità disciplinare. A ciò aggiungasi che il primo comma dell’art. 92 prevede la trasgressione del dovere di cui all’art. 88 cod. proc. civ. — sovrapponibile, si ripete, all’art. 6 del codice deontologico — come autonoma ragione di rimborso delle spese, anche non ripetibili. Trattasi di indici normativi che inequivocabilmente danno tono e rilevanza disciplinare alla violazione del dovere deontologico innanzi richiamato”.
Inoltre l’art. 49 del Codice deontologico forense – ora, 66 del nuovo Codice (approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 31 gennaio 2014) – contiene un precetto che fa divieto all’avvocato di moltiplicare le iniziative giudiziali nei confronti della controparte se non in presenza di effettive ragioni di tutela della parte assistita. La norma contiene quindi un principio corrispondente a quello processualmente disciplinato dall’art. 88 c.p.c. (oltre che collegato all’art. 92 di cui prima). Poi il dovere etico del difensore nel processo si completa col principio della responsabilità aggravata prevista dal successivo art. 96 c.p.c. a carico della parte processuale. Tuttavia, dal complesso quadro normativo (artt. 88, 92, 96 c.p.c.) non è possibile trarre una connessione necessaria e logica tra l’art. 49 c.d.f. (ora, 66 n.c.d.f.) e le norme codicistiche.
Agire o resistere in modo temerario non equivale sempre e comunque ad essere sleali o improbi (in un caso[9], dove trattavasi di plurimi atti di intervento in una medesima procedura esecutiva, che avevano comportato una altrettanto plurima liquidazione delle spese processuali, con conseguente aggravamento della posizione del debitore, l’incolpato aveva contestato la sanzione deontologica anche sul rilievo che gli atti di intervento erano stati ritenuti legittimi dal giudice dell’esecuzione ed in applicazione del principio di cui sopra, il CNF ha parzialmente accolto l’impugnazione).
Vale la pena sottolineare anche un’altra casistica e rappresentazione di responsabilità, questa volta chiarita dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione Civile nella sentenza n. 3338/2012 ove è specificato che “il dovere di lealtà e probità processuale, che grava sui difensori e sulle parti patrocinate (art. 88, comma I c.p.c.), impone all’avvocato, cui sia stata sollecitata una presa di posizione su di una istanza chiara e processualmente ben definita, non solo di rispondere, ma anche di esprimersi in maniera altrettanto comprensibile e, soprattutto, di attenersi ad una logica di tipo binario, che non ammette formule di dubbia lettura né ipotesi terze tra l’affermazione e la negazione, la condivisione e il rifiuto”.
Alla luce di quanto fino ad ora detto è impossibile non notare, infine, come quanto stabilito dall’art. 88 c.p.c. appare inevitabilmente collegato con il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo derivante dell’art. 111, comma 2, Cost. e dagli artt. 6 e 13 C.E.D.U. laddove è palese ormai che si riconosce al giudice il dovere (ai sensi degli artt. 127 e 175 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello giudizio, tra i quali rientrano indubbiamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, secondo comma, Cost.) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti: in applicazione del suddetto principio, i giudici di piazza Cavour, avendo valutato inammissibile il ricorso in mancanza dell’esposizione sommaria dei fatti, della specificità dei motivi e del rispetto del principio dell’autosufficienza, hanno ritenuto superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del ricorso per cassazione alla parte totalmente vittoriosa in appello, aggiungendo che la concessione del termine richiesto avrebbe significato avallare un comportamento contrario al principio di lealtà di probità processuale (art. 88 c.p.c.), atteso che gli istanti erano già in precedenza consapevoli della necessità della stessa[10].
Già il Calamandrei scriveva che il processo è anche “osservanza delle regole del gioco, cioè fedeltà a quei canoni non scritti di correttezza professionale, che segnano il confine tra (…) la maestria dello schermidore accorto e i goffi tranelli del truffatore”[11].
[1] V. Amendolagine, Processo civile: le novità del decreto di degiurisdizionalizzazione, 2014, p. 134.
[2] Il dovere della parte processuale di tenere un comportamento leale e probo, se non comporta l’obbligo di produrre spontaneamente i documenti che possono giovare all’avversario, include l’obbligo di non rendere impossibile l’esecuzione di un provvedimento istruttorio che la controparte ha chiesto formalmente ed al quale quest’ultima abbia diritto (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza del 19 novembre 1994, n. 9839).
[3] si veda l’art. 116, comma 2, c.p.c.
[4] si veda l’art. 175 c.p.c.
[5] Si veda l’art. 404, comma 2, c.p.c.
[6] Vedi decisione della Corte di Cassazione, Sez. I, sentenza del 12 febbraio 2009, n. 3487, secondo cui il potere disciplinare del giudice sugli avvocati e sui procuratori è valutativo, discrezionale il suo esercizio d’ufficio, e presenta carattere ordinatorio e non decisorio. Esso si sottrae all’obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità.
[7] Corte di Cassazione, sentenza dell’8 ottobre 1990, n. 9863.
[8] Corte di Cassazione, SS. UU., sentenza del 18 ottobre 1984, n. 5245.
[9] Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 14 marzo 2015, n. 56, confermata anche dalla Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza del 28 ottobre 2015, n. 21948.
[10] Si vedano le decisioni delle SS. UU. del 3 novembre 2008, n. 26373; Sez. Lav. del 1 marzo 2012, n. 3189; Sez. III del 18 dicembre 2009, n. 26773.
[11] P. CALAMANDREI, Il processo come gioco, pag. 494.
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