L’Autore ha dalla sua incarichi politici che danno conto di un inesausto impegno per il riformismo giuridico, orientato in senso istituzionale, solidaristico e chiaramente europeista. Chiti è stato vicepresidente del Senato, ancor prima Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali; nell’ultima legislatura, infine, Presidente della Commissione Politiche Europee. A dispetto, perciò, della mite e avveduta considerazione, che anticipa l’ultima parte del volume, per cui l’A. ammette di avere utilizzato la forma diaristica nel rapportarsi alle recenti controversie politiche, è il lavoro tutto di enorme interesse, per il cittadino quanto per lo studioso, per l’operatore delle professioni quanto per il formatore.
Come si evince dalla titolazione, del resto, il libro si occupa principalmente delle possibili coordinate future per declinare in una cornice sovra-nazionale il paradigma repubblicano-democratico, senza dimenticare l’emergere di criticità ormai sistemiche (flussi migratori e crisi economiche) e l’aggravarsi della congiuntura istituzionale italiana. Occasionalmente, ma appropriatamente, il testo torna pure su altro tema molto caro alla produzione saggistica dell’Autore: il dialogo tra le fedi religiose non investigato, stavolta, nella sua matrice teologica, culturale o filosofica, ma in quanto concreta espressione costitutiva di una pacificazione internazionale immediatamente rilevante per la qualità della vita nelle aree geopolitiche più tese del globo.
In questo percorso, è densa l’attenzione all’ultimo Magistero e all’insegnamento, reiterato da Francesco, secondo cui si stia vivendo ormai un “cambiamento d’epoca” e non una “epoca di cambiamenti”. Sta mutando completamente il nostro scenario di riferimento, cioè, non i singoli e circostanziati elementi che lo compongono. La comunicazione del Pontefice è, in effetti, almeno sul piano simbolico degno e forse ultimo contraltare rispetto all’approccio neo-populista liberista di Trump: decisamente favorito, come imprenditore, dalla deregulation finanziaria e speculativa degli ultimi decenni, ora indicato nelle preferenze, soprattutto, degli strati più umili della popolazione americana. Quelli per cui, in sostanza, il protezionismo sembra ritorno a un passato florido – e pazienza non lo si sia vissuto.
Questo populismo di tipo nuovo ha completamente eliminato il riferimento alla cornice internazionale dei rapporti tra gli Stati e ha alimentato una lettura, invero giuridicamente non infondata, sull’operato delle Nazioni Unite: distante, limitatamente legittimato, messo in funzione in modo discontinuo, talora dimentico della fondamentale attività di tutela dei diritti umani. Non è un caso, ancora una volta, che mentre Donald Trump e Theresa May si espongono a favore di un neo-bilateralismo rafforzato, di dubbio fondamento internazionalistico, siano stati i pontefici come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco a rendere alla comunità internazionale discorsi di lucida analisi, ben prima che sole pagine – in sé apprezzabili, ma sostanzialmente non dirimenti per l’universalità dei consociati – di pastorale ed ecumenismo.
La tutela dei diritti umani, per Chiti, non è solo oggetto di attività giurisdizionale, ma soprattutto di azioni positive da parte degli Stati e delle loro organizzazioni. Quando ciò non avviene, l’interpretazione del diritto viola, paradossalmente o meno che lo si ritenga, le basi del costituzionalismo democratico. Succede dal Brasile all’Honduras, passando per il Venezuela, dove la fase espansiva dei diritti democratici e dei regimi giuridico-costituzionali su di essi forgiati sembra ora denudare una rete di ampie corruttele e di parallela (ma meno visibile) espansione delle attività ispettive e di polizia. La stella polare dei diritti umani è per Chiti parimenti significativa negli Stati occidentali, dove il mancato rispetto di questi diritti è sovente scambiato con la rivendicazione del principio di sovranità (p. 34), altro elemento cardine di questo populismo giuridico che sconfina nel pan-penalismo. Non è critica sterile: l’A. perfeziona (pp. 35-36) alcune proposte per riformare le Nazioni Unite in quella direzione che la dottrina più avvertita (da Walzer in poi) ha sempre auspicato: eliminazione del diritto di veto, introduzione di maggioranze qualificate per deliberazioni specifiche, allargamento a rappresentanti dell’America Latina e dell’Unione Africana (considerando poi la crescente autonomia di nazioni ora autorevolmente inserite nel consesso internazionale, come India, Pakistan, Giappone e, ancora una volta, Brasile).
È proprio questo sguardo attento e curioso verso l’altrove che spinge Chiti a ritenere in crisi il paradigma indifferentista del principio di laicità (p. 51): il modello della reciproca autonomia tra Stati e religioni può oggi funzionare solo se ammette che negare all’esperienza di fede un riconoscimento pubblicistico significa imporre, attraverso previsioni di legge, un carattere obbligatoriamente riservato che non sempre ha per forza da appartenere alle realtà associative della religiosità.
Non meno strutturata la parte del volume dedicata, poi, ai diritti sociali, anche stavolta irrobustita da validi riferimenti teorici (Piketty e Milanović) e non dimentica del dato normativo formale della più varia provenienza ordinamentale. A questo titolo ci pare molto utile, e purtroppo non controtendenziale, il riferimento all’abrogazione del Dodd-Frank Act da parte di Donald Trump, altro emblema di quel populismo travisato che adopera il localismo per giustificare il proprio opportunistico antistatalismo (in questo caso, la lotta ai controlli posti dalla Presidenza Obama al sistema finanziario). Il tema dei diritti sociali è utile a Chiti per esprimere una articolata denuncia contro le sperequazioni reddituali che si indirizzano, sul piano globale, in una grande bipartizione tra un numero sempre più esiguo di soggetti sempre più possidenti e un numero sempre più ampio di soggetti del ceto medio sempre più impoveriti e marginalizzati. Il temperamento proposto nella catena industriale (p. 188) è il modello tedesco di partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione. La democrazia industriale, apparentemente “pesante”, è certamente più leggera, duttile e prospera della iper-segmentazione delle forme contrattuali, del boom dei contratti di lavoro nulli comunque eseguiti o della mancata corrispondenza tra modello contrattuale utilizzato e condizione reale del lavoratore.
Chiti conferma il suo profilo intransigentemente schietto nell’elaborazione critica: propone il superamento del famigerato “accordo di Dublino” (p.87), Regolamento (UE) n. 604/2013, e non teme di riferire lo sprezzante verdetto di Kissinger sull’Unione Europea (gigante economico, nano politico, verme militare).
Ancor più meritoria la seconda parte del testo, dedicata all’ordinamento italiano (pp. 110 e ss.), riccamente sostenuta da una serie di importanti considerazioni sullo status quo ante e sugli interventi da apportare de iure condendo. Opportuno per il gius-pubblicista il riconoscimento della natura iper-maggioritaria della legislazione elettorale regionale comparata (p. 127) e da applaudire la giusta irrisione della vulgata che appella “governatori” i Presidenti delle Regioni (p.181). Negli Stati a federalismo regionale avanzato non c’è traccia di idiozie lessicali del genere, come per fortuna non ve ne è traccia in Costituzione. Non meno utile e per nulla scontata la difesa del referendum sulle trivellazioni in mare, del 17 Aprile 2016 (p. 157).
Chiti concepisce una griglia teorica di vero spessore, dove la domanda di partecipazione popolare non è stroncata dalle soluzioni verticistiche, ma implementata dalla richiesta riforma di istituti di democrazia rappresentativa. Sul piano contenutistico, queste rivendicazioni si associano a una vocazione marcatamente europea e riformatrice. C’è da augurarsi che ci siano lavori parlamentari pronti a recepirle, anche se su questo una lettura persino occasionale dei lavori d’aula nelle ultime legislature sembra destinata a smentire ogni speranzoso ottimismo. Chiti ha la forza di indicare almeno i profili giusti per un’adeguata agenda di studio e di lavoro. La via è strettissima ma appare tra le poche modalità di esistenza di una democrazia declinata al futuro.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento