La clausola t.i.s.c. di cui al Modern Slavery Act 2015 del Regno Unito
Ringrazio la Fondazione e L’Osservatorio per il gentile invito e per l’occasione offertami di tornare a riflettere sul lavoro di ricerca che ho svolto con Matteo Rescigno e con altri autorevoli colleghi e amici, a partire dal convegno di Roma del 2014 [1], fino alla pubblicazione nel 2015 del libro Impresa e forced labour [2] e ai successivi incontri di approfondimento di Genova, Foggia, Perugia, Udine.
Dalla morte di Iqbal Masih [3] nessuno può più dirsi inconsapevole del fatto che dietro tanti dei prodotti che acquistiano e consumiamo c’è sfruttamento di forced labour [4]. Una “perdita di innocenza” che molto più di quanto possa sembrare spiega le opzioni di politica legislativa oggetto del mio intervento, che si connotano innanzitutto come risposta a una richiesta di chiarezza e trasparenza da parte della società civile [5].
Nel 2015 il Regno Unito promulga l’Antislavery Act [6] e con esso, sul modello adottato nel 2010 dalla California (Transparency in Supply Chains Act), impone alle imprese di più grandi dimensioni una pubblica periodica attestazione circa i passi fatti per far sì che nel business e nella catena di fornitura non trovi spazio alcuna forma di modern slavery; affinchè i consumatori non solo non debbano subire acquisti inconsapevoli di beni prodotti con sfruttamento di forced labour, ma possano concorrere a determinare il successo delle politiche di responsabilità sociale eventualmente adottate dalle imprese [7].
Il Modern Slavery Act 2015 è un ampio testo normativo, articolato su diversi piani di disciplina che affrontano organicamente il fenomeno, sul presupposto che esso non si riduca a episodiche violazioni di legge che la cronaca segnala, ma sia espressione di logiche di criminalità economica di ampia portata, pervasive anche del tessuto produttivo e del commercio.
Alla riformulazione delle fattispecie di diritto penale [8] e a talune norme sulla giurisdizione segue l’istituzione di una specifica Authority, l’Indipendent Antislavery Commissioner (section 40), con funzioni di prevenzione, investigazione e perseguimento dei reati, identificazione e protezione delle vittime. Essa predispone ed attua piani strategici triennali, mentre dei risultati della sua azione dà conto su base annuale (s. 42).
Nel suo primo piano strategico l’Antislavery Commissioner indica tra le sue priorità l’impegno nel settore privato per promuovere politiche volte a garantire che le catene di approvvigionamento siano esenti da schiavitù [9]. E’ da ritenersi che debba agire sulla base del previo consenso del Secretary of State (l’Home Secretary), visto che quest’ultimo è chiamato ad approvarne preventivamente i piani strategici (42.6 e 42.7) [10]; e si pone allora qualche perplessità sull’effettiva indipendenza della neo istituita Autorità, considerato anche che essa è di nomina dell’Home Secretary e che quest’ultimo determina le risorse finanziarie ad essa annualmente destinate (s. 40.4) [11].
Attraverso le richiamate prescrizioni T.I.S.C. (acronimo di transparency in supply chains) di cui all’art. 54 dell’Antislavery Act il legislatore britannico impone alle imprese di attestare per ogni anno finanziario gli step fatti per assicurare che nella catena di fornitura e del business non trovi spazio alcuno sfruttamento di forced labour. Non una generica attestazione, ma un circostanziato documento, destinato all’informazione del pubblico dei consumatori, che descriva la struttura organizzativa, il business e le relative catene di fornitura, le linee di condotta e i processi di due diligence adottati in relazione al rischio forced labour, le parti del business e delle catene di fornitura in cui esso può trovare spazio, le misure prese per valutare e gestire tale rischio, la loro efficacia, misurata sulla base di idonei indicatori di performance, il training per lo staff su forced labour, slavery e human trafficking.
Destinatario di tali prescrizioni (s. 54 sub 2, 3 e 12) è ogni organizzazione, società corporate o partnership (e per esse amministratori, direttori e “proprietà”):
– che fornisca beni o servizi e che conduca il business o una parte dello stesso in U.K., prescindendosi dal luogo di incorporazione o costituzione;
– il cui turnover non sia inferiore all’ammontare determinato dal Secretary of State; in prima applicazione 36 milioni di sterline; turnover consolidato, laddove per “turnover” si intende l’importo derivato dalla fornitura di beni e servizi riconducibili alle ordinarie attività della holding e delle controllate (incluse quelle operative all’estero) dopo avere dedotto gli sconti commerciali, l’IVA e ogni altra imposta basata sugli importi così derivati [12].
Secondo l’Antislavery Commisioner la misura riguarda circa 12.000 società [13].
Diversamente dal modello californiano [14], quello della soglia economico-finanziaria critica che fa scattare il vincolo di trasparenza è criterio di selezione dell’impresa sotto il profilo dimensionale che non si lega ad un computo quantitativo delle prestazioni o dei servizi offerti nel territorio, potendo la prescritta evidenza esser soddisfatta anche attraverso minimali riscontri.
Quali le conseguenze per il mancato rispetto delle prescrizioni concernenti la pubblicazione dello statement?
La società può anche dichiarare che l’organizzazione non ha adottato le procedure previste dalla legge (s. 54.4, sub b), senza che ciò comporti l’avvio di procedure sanzionatorie di sorta a carico dell’impresa e dei suoi gestori; ma deve comunque rendere la dichiarazione [15].
La non-compliance – cioè il non rendere la dichiarazione richiesta – può condurre all’instaurazione di un procedimento civile davanti all’High Court, ad istanza del Home Secretary, per il pronunciamento di un’ingiunzione (a provvedere); analogamente ma forse anche riduttivamente rispetto a quanto accade in California, dove è data azione all’Attorney General per un remedy finalizzato anche a ottenere un relief [16].
Precisato che non mi sembra si segnalino iniziative del genere, il punto rilevante è un altro.
Il profilo sanzionatorio identifica la logica sottesa alla normativa. Solo la consapevolezza di un serio rischio economico finanziario connesso al ricorso al forced labour (intermediato o meno) induce una riconsiderazione dell’utilità di un modello di business che contempli l’eventualità di tale deriva illecita [17]. La vera sanzione è allora l’avverarsi delle conseguenze negative cui il rischio espone.
Il focus è questo: determinare e regolare il rischio.
Quanto alla determinazione del rischio ecco la rilevanza della scelta del parlamento britannico, e prima di questo del legislatore della California. Un scelta che ha dell’epocale: riconoscere a monte, senza ipocrisie, il fenomeno cui il rischio si riconnette, dichiarando la rilevanza strutturale che il ricorso al forced labour ha nella dimensione globale dell’economia. << … La Section 54 del Modern Slavery Act … ha costretto la business community a discutere il tema della schiavitù, apertamente, in misura che non si verificava dai tempi dell’abolizionismo del 19° secolo. …e ha indubbiamente posto il tema della schiavitù moderna in agenda e all’ordine del giorno dei consigli di amministrazione delle grandi imprese … >> [18]: così l’Anti-Slavery Commissioner nel suo primo Annual Report.
Quanto alla regolamentazione del rischio, le opzioni da considerare sono su due direttrici.
Può guardarsi alle conseguenze economico finanziarie derivanti dalla responsabilità per le violazioni di prescrizioni molteplici e di diversa natura che il ricorso al forced labour può determinare [19]; tale impostazione rimanda in termini di effettività ad una valutazione sulle concrete possibilità dell’esercizio della potestà sanzionatoria dello Stato.
In altra direzione mi sembra la prospettiva inglese, dove la vera sanzione che si riconnette alla non compliance è di tipo reputazionale [20]; secondo un modello che fonda sulla fiducia che il Mercato, se adeguatamente informato, si determini a fare scelte eticamente corrette, senza rincorrere i vantaggi che lo sfruttamento del forced labour favorisce in termini di prezzi; sulla fiducia cioè che il vulnus all’immagine si traduca in minor fatturato e che dunque sia il Mercato stesso a favorire l’affermarsi di comportamenti virtuosi da parte delle imprese.
Evitare che nelle catene di fornitura trovi spazio la modern slavery – sembra suggerire la normativa britannica – non è un risultato che realisticamente possa darsi per scontato. E’ scontato forse l’esatto opposto, cioè che nelle supply chain allignino sfruttamento del lavoro e forced labour: sicchè quel che può chiedersi all’imprenditore – che si chiede all’imprenditore – è per un verso di implementare le migliori pratiche per cercare di far fronte alla piaga e per altro verso di dichiarare al Mercato quanto ha in concreto fatto al riguardo. Si tratta in definitiva della specificazione legale di un dovere gestionale, quello di operare nel rispetto del duty of obedience [21] (il dovere di agire nel rispetto delle prescrizioni di legge, nel caso di specie quelle che vietano di far ricorso al forced labour): ma, sul fronte dei rapporti di diritto privato e commerciale, la vera sanzione della mancata ottemperanza a tale dovere è lasciata al Mercato, sulla fiducia che esso sappia distinguere, premiando o “sanzionando” di conseguenza.
Questa impostazione denota un profilo che potrebbe dirsi tecnicamente “confessorio” per l’imprenditore – cioè di autodenuncia di una circostanza a se sfavorevole – rilevante se non altro quando l’azione di contrasto sia del tutto mancata o sia stata inadeguata.
Quello anglosassone non è un approccio privo di ricadute problematiche. Ne accenna Ryan J. Turner in un recente contributo [22], ricordando che fornire o non fornire informazioni sulla catena di approvvigionamento aziendale, intervenire o non intervenire sulla stessa incide su interessi di consumatori, fornitori e azionisti spesso non convergenti; che la divulgazione di informazioni inesatte o errate può violare i divieti di legge concernenti le dichiarazioni relative a società quotate; che alterare infine le condizioni di mercato delle contrattazioni può indurre a contestazioni della violazione di obblighi di diligenza dei gestori (sia pur strumentali) [23]. Per indicazioni al riguardo della complessità delle questioni, recenti casi di class action in California contro Costco Wholesale Corporation [24], contro Nestlé U.S.A. Inc. [25], azioni per concorrenza sleale, violazione delle norme a tutela del consumatore e pubblicità ingannevole, sul presupposto dell’inadempiuta disclosure dell’esistenza di schiavitù nelle supply chain; azioni dall’esito negativo (finora), ma che hanno comunque fatto emergere che nelle catene di fornitura di quelle compagnie aveva trovato luogo slavery e forced labour; e che, con riguardo alla clausola T.I.S.C., era stato disatteso se non altro l’obbligo di comunicare al mercato gli sforzi compiuti – semmai compiuti – per impedire tale evenienza.
La tenuta ed efficacia del sistema introdotto con l’Antislavery Act va comunque verificata in concreto. Nel suddetto richiamato documento il Commisioner dichiara che << … C’è ancora molto da fare per garantire che le aziende producano attestazioni che siano conformi agli obblighi del Modern Slavery Act e indichino quale decisiva azione sia da intraprendere, invece di essere semplicemente un esercizio su caselle da smarcare con una crocetta. … >> [26]. E a distanza di un anno, nell’Annual report chiuso al 30 settembre 2017, ribadisce che sì, alcune compagnie stanno facendo buoni progressi e che si stanno facendo buone … discussioni, ma anche che i report rimangono scarsi e necessitano di essere migliorati [27].
A proposito dell’effettiva disponibilità per il pubblico dell’accesso agli statement, l’Antislavery Act prevede soltanto che essi siano pubblicati sul sito web della società con un link di percorso ben evidente nella home page, ovvero che siano messi a disposizione di chiunque ne faccia richiesta.
Manca però un archivio centralizzato degli statement [28], sebbene l’Antislavery Commisioner si dichiari ora favorevole alla prospettiva di istituirlo, sia in forme pubbliche che private [29]. Alcune organizzazioni non governative hanno già da tempo avviato tale lavoro, con buoni risultati ma non senza seri problemi. Queste le indicazioni avute dal Registry of Slavery & Human Trafficking Statements under UK Modern Slavery Act implementato da Business and Human Rights Resource Centre: << … troviamo i modern slavery statements usando le ricerche di Google … . Il governo e il commissario non raccolgono dichiarazioni. Tuttavia, crediamo che sia ruolo del governo farlo, e che il governo non dovrebbe fare affidamento sulla società civile per raccogliere, monitorare e far rispettare la legislazione. … Il Governo ha rifiutato di pubblicare un elenco di società che sono tenute a riferire in base al Modern Slavery Act. Se non sappiamo quali aziende sono tenute a segnalare, non possiamo monitorare quali aziende hanno segnalato o non hanno segnalato.>> [30] .
Questo mi sembra illuminante a proposito dei rapporti tra Home Secretary e Antislavery Commisioner e sull’effettiva indipendenza di quest’ultimo.
Un rilevante numero di stakeholders chiave concorda sulla criticità della questione e sull’urgenza di un registro centralizzato trasparente, libero e aperto [31]. E dò qui conto del fatto che è in seconda lettura davanti all’House of Lords una modifica dell’Antislavery Act che, oltre ad escludere dagli appalti pubblici le organizzazioni non compliant, pone a carico dell’Home Secretary un vincolo alla pubblicazione di un elenco di tutte le organizzazioni commerciali cui la legge impone lo statement, suddivise per categoria, secondo modalità facilmente accessibili agli operatori.
A proposito della pubblicazione degli statement, pare che questa sia la scelta che intenda seguire anche l’Australia; il cui Governo, nell’agosto dello scorso anno, ha annunciato l’introduzione di una normativa analoga a quella inglese, ma emendata sotto tale profilo, oltre che per quanto riguarda l’estensione del vincolo di trasparenza.
La questione di un’inadeguata copertura delle informazioni riguardanti la struttura e l’ampiezza della catena di fornitura è infatti un’altra ormai ricorrente critica al sistema inglese: il vincolo, così come impostato, non sembra poter efficacemente raggiungere tutte le società del gruppo. Esso riguarda sì tutte le società conglomerate, ma la sola evidenza di un rapporto di controllo non garantisce circa la compliance da parte di controllate che siano costituite e operative all’estero: il diritto inglese non può costituire per esse obbligo – in quanto soggetti esteri – e alla luce del solo rapporto di controllo non può assumersi per scontato che esse siano collaborative (nemmeno è da escludere che ciò accada di fatto su indicazioni della stessa holding).
Del tutto trascurata è poi l’eventualità che il controllo sia di natura contrattuale, sebbene il Companies Act del 2006 lo contempli [32] e sebbene si segnali una certa apertura giurisprudenziale nel portare in capo alla società madre la responsabilità per l’azione della controllata.
Anzi, nelle linee guida il Secretary Home ha cura di precisare che, nei rapporti di franchising, il fatturato di qualsiasi affiliato non sarà considerato nel calcolo del fatturato dell’affiliante ai fini dell’assoggettamento al vincolo di trasparenza [33].
Manca anche nel testo normativo una definizione di supply chain e la questione è allora se le società soggette al vincolo di trasparenza siano richieste di dare indicazioni solo in relazione ai primi anelli della catena di fornitura, con riguardo a soggetti con cui hanno una relazione contrattuale diretta, o anche nei riguardi di coloro che figurano come stazioni più lontane di una struttura di trasmissione basata su outsourcing e subcontrattazioni [34].
Le supply chain assolvono (o quanto meno possono assolvere) alla realizzazione di un unitario progetto imprenditoriale, cui sono funzionali rapporti contrattuali che di norma riflettono la condizione di potere economico dei soggetti coinvolti: oltre a considerare l’esigenza di un riequilibrio negoziale, come giuristi guardiamo al rapporto di controllo tra imprese che essi possono configurare, avendo per acquisito nel nostro strumentario di azione che (ai sensi di legge e come ricorda la Cassazione [35]) il controllo può desumersi di fatto, sulla base di rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare rappresentano condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità d’impresa del fornitore [36].
[1] <<Impresa e forced labour (quali azioni di contrasto?)>>, giornata di studi tenutasi a Roma il 9 maggio 2014, presso Economia La Sapienza, con l’adesione del Presidente della Repubblica, con il sostegno del Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia e con il patrocinio del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine e del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia.
[2] Buccellato Rescigno (a cura di), Impresa e <<forced labour>>: strumenti di contrasto, Bologna, Il Mulino, 2015.
[3] Personalmente ho avviato la riflessione e la ricerca in connessione con Parlaci di Iqbal di Enrica Origo, racconto teatrale della vera storia del bambino pakistano tragicamente eroe della lotta contro il lavoro schiavizzato. Ho sentito più volte la frase di cui a questo incipit da Ehsan Ullah Khan, leader ancora esiliato di quel BLLF – Bondes Labour Liberation Front che sostenne Iqbal nella sua liberazione dalla condizione di schiavitù (riferimenti alla pagina internet https://video.repubblica.it/edizione/genova/la-storia-in-piazza-il-ricordo-di-iqbal-e-i-bambini-schiavi/198190/197233, pubblico incontro “La nuova schiavitù: istruzione e arte come strumenti di libertà”, in La Storia in Piazza, le Età del Capitalismo, Genova 18 aprile 2015, e sempre a proposito di Parlaci di Iqbal, www.youtube.com/watch?v=EOzNb3lS1IU.
[4] lavoro schiavizzato intendo, alla luce della definizione dell’ILO, che considera in condizione di forced labour chi presta attività lavorativa sotto ogni genere di minaccia, impossibilitato a lasciare un lavoro svolto sostanzialmente senza retribuzione o altri corrispettivi; cfr. Rapporto ILO Global Estimate of Forced Labour – 2012 (sito istituzionale): <<The term “forced or compulsory labour” is defined by the ILO Forced Labour Convention, 1930 (No. 29), Article 2.1, as “all work or service which is exacted from any person under the menace of any penalty and for which the said person has not offered himself voluntarily”. The definition thus contains three main elements: first, some form of work or service must be provided by the individual concerned to a third party; second, the work is performer under the threat of a penalty, which can take various forms, whether physical, psychological, financial or other; and third, the work is undertaken involuntarily, meaning that the person either became engaged in the activity against their free will or, once engaged, finds that he or she cannot leave the job with a reasonable period of notice, and without forgoing payment or other entitlements. Forced labour is thus not defined by the nature of the work being performed (which can be either legal or illegal under national law) but rather by the nature of the relationship between the person performing the work and the person exacting the work. While sometimes the means of coercion used by the exploiter(s) can be overt and observable (e.g. armed guards who prevent workers from leaving, or workers who are confined to locked premises), more often the coercion applied is more subtle and not immediately observable (e.g. confiscation of identity papers, or threats of denunciation to the authorities). Forced labour therefore presents major challenges in terms of detection, for the purposes of both data collection and law enforcement.>>. Cfr. Casale, L’azione dell’organizzazione internazionale del lavoro nei più recenti indirizzi normativi, in Buccellato Rescigno (a cura di), Impresa e forced labour (nt.2), 33 ss.; Lenzerini, Forced labour, commercio e <<clausola sociale>> nel diritto internazionale, in Buccellato Rescigno (a cura di), Impresa e forced labour (nt.2), 99 ss. e Id., L’evoluzione contemporanea del concetto di schiavitù nel diritto internazionale consuetudinario, in Studi Senesi, 2000, fasc.3, 470 ss., spec. 496 ss..
[5] Che quanto meno da un punto di vista ordinamentale quello di “consumatore” non sia uno status ma debba restare una condizione episodica legata alla quotidiana esperienza in cui non si esaurisce certo la ragione del vivere è rimarcato da P.Rescigno, Introduzione, in Buccellato Rescigno (a cura di), Impresa e forced labour (nt.2), 21. Come indica I.L.O. – Global estimate of forced labour – 2012, nel 68% dei casi di ricorso al forced labour – vale a dire per oltre 14 milioni di persone – si ha riguardo ad uno sfruttamento in attività economiche; in coerenza, il successivo rapporto – I.L.O., Profits and poverty: the economics of forced labour – 2014 invita ad interrogarsi sul ruolo della domanda oltre che dell’offerta di forced labour, visto che i profitti illeciti generati annualmente dal fenomeno sono in forte aumento (si registra che siano divenuti tre volte superiori a quelli stimati nel precedente rapporto).
[6] nel solco delle comunicazioni di carattere non finanziario richieste dalle direttive 2014/95/UE e 2013/34/UE: ancora di là da venire la “Brexit”, decisa come è noto dall’esito del referendum del 23 giugno 2016.
[7] Una prima azione di contrasto del forced labour, sul fronte interno, era già stata strutturata di seguito al disastro di Morecambe Bay del 2004, con l’istituzione della (Gangmasters Licensing Authority, ora) Gangmasters and Labour Abuse Authority, che limitatamente a specifici settori di attività – quelle più fortemente esposti al rischio – ha funzioni ad ampio spettro di prevenzione e di controllo, oltre che di regolatore del mercato. L’Home Office stima ancora tra 10.000 e 13.000 il numero delle vittime della schiavitù moderna nel Regno Unito (stime del 2013 ancora richiamate nell’Annual Report on Modern Slavery – October 2017). Dopo una lunga fase di deregulation l’intermediazione nel lavoro è dal 2006 tornata ad essere soggetta a stringenti autorizzazioni e controlli; di competenza di questa Autorità, alla cui azione ha ora riguardo anche l’Antislavery Act (art. 55) demandando al Segretario di Stato di stabilirne gli ambiti operativi in coerenza con le finalità della legge. In più di un decennio di attività, la Gangmasters Authority ha maturato una corposa esperienza di conoscenza e riconoscimento dei contesti sociali e criminali cui si lega il forced labour, sperimentando le procedure necessarie ad evitarne i rischi (cfr. Beels, Preventing Labour Exploitation, in Warwick Papers in Industrial Relations, number 107, May 2017, Industrial Relations Research Unit, University of Warwick Coventry CV4 7AL); è da ritenere che tale esperienza possa costituire ora un significativo riferimento anche per chi, sul fronte imprenditoriale, si trovi a dover affrontare la gestione di catene di fornitura estere.
[8] Il testo normativo apre con un’ampia definizione delle fattispecie criminose (c. 1), prescrivendo che essa siano da costruire in corrispondenza con l’art. 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del ’48 (c. 2).
[9] Indipendent Antislavery Commissioner, Annual Report for the period 1 October 2016 to 30 September 2017 – presented to Parliament pursuant to Section 42 (10) (b) of the Modern Slavery Act 2015 – October 2017, 33 ss.
[10] Il Secretary of State cura poi la trasmissione degli stessi e delle relazioni annuali al Parlamient.
[11] Per assicurare la trasparenza nelle catene di fornitura, previste all’art. 54, la disciplina prevede interventi regolamentari integrativi del Segretario di Stato; nessuna funzione è attribuita per esplicito all’Antislavery Commisioner.
[12] Cfr. on line Home Secretary, Transparency in Supply Chains etc. A practical guide, § 3.
[13] Indipendent Anti-slavery Commisioner, Annual Report for the period 1 October 2016 to 30 September 2017 – presented to Parliament pursuant to Section 42 (10) (b) of the Modern Slavery Act 2015 – October 2017, 33.
[14] Senate Bill No. 657 – Chapter 556 – An act to add Section 1714.43 to the Civil Code, and to add Section 19547.5 to the Revenue and Taxation Code, relating to human trafficking: <<SEC. 3. Section 1714.43 is added to the Civil Code, to read: 1714.43. (a) (1) (a) (1) Every retail seller and manufacturer doing business in this state and having annual worldwide gross receipts that exceed one hundred million dollars ($100,000,000) shall disclose, as set forth in subdivision (c), its efforts to eradicate slavery and human trafficking from its direct supply chain for tangible goods offered for sale.>>.
[15] Siamo dunque oltre la logica dei codici di condotta e anche del nostro modello 231, strumenti entrambi volontariamente scelti.
[16] Senate Bill No. 657 – CHAPTER 556 (nt.14), section 3, sub (d).
[17] Buccellato Domenichini, “Rischio danni” e obblighi gestori, in in Buccellato Rescigno (a cura di), Impresa e forced labour (nt.2), 291 ss.
[18] Mia la traduzione, così letteralmente: <<The role that the private sector can play in tackling modern slavery, within the UK and across the globe, cannot be underestimated. Section 54 of the Modern Slavery Act, with its reporting requirement for large businesses operating in the UK, has forced the business community to discuss the topic of slavery openly to an extent that has not occurred since the days of the 19th century abolitionists. While the Modern Slavery Act has undoubtedly pushed modern slavery up the agenda and into the boardrooms of large businesses, this is just the first step.>>.
[19] Il tentativo di tutti gli autori che hanno partecipato alla ricerca poi confluita nel richiamato Impresa e Forced labour (supra, nt.2) è stato di offrire una lettura per quanto possibile organica delle norme che possono connotare in tal senso il nostro ordinamento.
[20] Riferimenti giurisprudenziali di diritto interno sul danno d’immagine in Buccellato Domenichini, <<Rischio danni>> (nt.2), 297, nota 18.
[21] Con riguardo all’esperienza delle profit corporations statunitensi si segnala come, a fronte della dicotomia tra duty of care e of loyalty, entrambi espressioni del dovere fiduciario di chi è trustee nell’interesse di altri, vada estrinsecandosi nella prassi applicativa parimenti la sussistenza di un duty of obedience per troppo tempo negletto. In termini comparativi si guarda proprio all’esperienza italiana, segnalando come nel nostro sistema la diligenza professionale richieda di agire (anche) nel rispetto di norme vincolanti, autonome od eteronome che siano; richiamando, a presidio, la legittimità della revoca del gestore che non presti ossequio al duty of obedience; cfr. A. R. Palmiter, Duty of obedience: the forgotten duty of U.S. Corporate Law, in RDS, 2013, 434 ss. (con un’introduzione di Mazzoni) e per un inquadramento del tema ancora Ghezzi, I <<doveri fiduciari>> degli amministratori nei <<Principles of Corporate Governance>>, in Riv. soc. 1996, 464 ss., ivi 491, nota 61: << … l’amministratore non ottempera alla regola di condotta qualora violi la legge, anche se la sua condotta è mossa dall’intento di arrecare un vantaggio alla società.>>, e 507 dove si ricorda che, se assunte nella consapevolezza della violazione di legge << … non sono protette dalla business judgment rule le decisioni illegali.>>.
[22] Turner, Transnational supply chain regulation: extraterritorial regulation as corporate law’s new frontier, in Melbourne Journal of International Law, June, 2016 (17 Melbourne J. of Int’l Law 188), sub II D.
[23] Supra, nota 21.
[24] Sud v. Costco Wholesale Corp., Case No. 3:15-cv-03783 (N.D. Cal.).
[25] Barber v. Nestle USA Inc., Case No. 8:15-cv-1364 (C.D. Cal.); Wagner v. Mars Inc., Case No. 8:15-cv-1470 (C.D. Cal.). E successivamente Dana v. Hershey Co., Case No. 3:15-cv-04453 (N.D. Cal); McCoy v. Nestle USA Inc., Case No. 3:15-cv-04451 (N. D. Cal.); Hodson v. Mars Inc., Case No. 3:15-cv-04450 (N.D. Cal.).
[26] Independent Anti-Slavery Commissioner, Annual Report 2015 – 2016, 3 << … There is still much more to be done to ensure that companies produce statements that both comply with the Act’s obligations and point to decisive action being taken, as opposed to merely being a ‘tick box’ exercise. Here the role of consumer and investor pressure is crucial. I will be promoting the utilisation of effective models to allow for easy scrutiny and comparison of statements.>>.
[27] Independent Anti-Slavery Commissioner, Annual Report 2016 – 2018, 33: << … One year on from Section 54 of the Modern Slavery Act coming into force, the Commissioner wrote to over 1,000 companies operating in the UK. He outlined the fact that some companies are making good progress and more open discussions are being had – but reporting remains weak and needs to improve. … >>.
[28] essi non sono indirizzati nè al Secretary of State, nè all’Antislavery Commissioner, sebbene sia da supporre che poi in concreto tali autorità siano rese destinatarie dei medesimi.
[29] Independent Anti-Slavery Commissioner, Annual Report 2016 – 2018, loc. ult. cit..
[30] Mi riferisco ad uno scambio di e-mail avuto con la responsabile, Miss Patricia Carrier (e-mail 10 gennaio 2018 da carrier@business-humanrights.org a francesco.buccellato@unipg.it: <<Statements on the Registry – we find modern slavery statements using Google searches. We also have a “submit a statement” function on the website and sometimes companies submit their own statement. The government and Commissioner do not collect statements. However, we do believe it is the role of the government to do this, and that government should not rely on civil society to collect, monitor and enforce the legislation. Claire Falconer is a member of the Advisory Committee which governs the Modern Slavery Registry. She is correct. The government has refused to publish a list of companies that are required to report under the Modern Slavery Act. If we do not know which companies are required to report, we cannot monitor which companies have reported or have not reported.>>).
[31] ETI, Business & Human Rights Resource Centre, Anti-Slavery International, FLEX, K nowTheChain, Humanity United, Freedom Fund and CORE Coalition (fonte www.ethicaltrade.org/blog/open-access-registry-modern-slavery-act-critical-urgent-say-key-stakeholders).
[32] Cfr. section 1162 (lett. c sub ii: “An undertaking is a parent undertaking in relation to another undertaking, a subsidiary undertaking, if (a) it holds a majority of the voting rights in the undertaking, or (b) it is a member of the undertaking and has the right to appoint or remove a majority of its board of directors, or (c) it has the right to exercise a dominant influence over the undertaking – (i) by virtue of provisions contained in the undertaking’s articles, or (ii) by virtue of a control contract, or (d) it is a member of the undertaking and controls alone, pursuant to an agreement with other shareholders or members, a majority of the voting rights in the undertaking.”).
[33] Cfr. sub 3.9. <<Some organisations operate under a franchise model. Where the turnover of a franchiser is above the £36m threshold they will be required to produce a slavery and human trafficking statement. In determining the total turnover of a business operating a franchise model, only the turnover of the franchiser will be considered. The turnover of any franchisee using the franchiser’s trademark and distributing goods or providing services will not be used in calculating the franchiser’s turnover. However, franchisers who meet the turnover threshold may wish to consider the impact on their brand of the activities of franchisees in relation to modern slavery, and in so doing report on the steps taken to ensure the franchise as a whole is free from modern slavery. 3.10 Where the turnover of a franchisee is above the £36m threshold they will be required to produce a slavery and human trafficking statement in their own right.>>
[34] Turner, Transnational (nt. 22), loc. cit.
[35] Così Cass., 27 settembre 2001, n.12094.
[36] Sviluppi dell’impostazione in Buccellato, Delocalizzazione e ‘forced labour’: un passo indietro nell’azione di contrasto (nota ad App. Bologna, 15 dicembre 2015), in Dir. comm. internaz., 2017, 684 ss., cui rimando anche per ogni riferimento bibliografico.
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