Sembra essersi recentemente riacceso il dibattito sulla nozione di consumatore, inteso come soggetto titolare di posizioni giuridiche riconosciute a tutela del soggetto che “contratta” con l’imprenditore per scopi estranei alla attività professionale eventualmente svolta.
In qualche misura, questa nuova attenzione è riconducibile al fatto che le nuove tecnologie della società dell’informazione ripropongono la necessità di tutelare soggetti, si pensi ad esempio alle libere professioni intellettuali (avvocati, commercialisti, ma anche medici, promotori finanziari, etc.), che stipulano contratti per beni e servizi strumentali alla professione con soggetti imprenditoriali (providers, società telefoniche, rivenditori di prodotti informatici).
Deve ritenersi esclusa l’applicabilità delle norme a tutela del consumatore per il solo fatto che tali contratti vengono sottoscritti da professionisti o magari da associazioni professionali?
Sarà compito degli interpreti di tornare a confrontarsi su questioni che sembravano risolte dopo i dibattiti dottrinali degli anni ottanta e novanta per chiarire nuovamente un tema, quello della più moderna nozione di consumatore, che torna ad essere decisivo per quantificare e qualificare il grado di effettiva tutela riconosciuto dall’ordinamento interno e da quello comunitario.
Le fonti normative
Soltanto trenta anni fa, le posizioni giuridiche soggettive riconosciute al consumatore non appartenevano al patrimonio giuridico continentale. Da allora, soprattutto in conseguenza della scoperta di tale soggetto ad opera dell’ordinamento comunitario, sono emerse interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali che sembravano -come detto- aver trovato definitive soluzioni ([1]).
La nozione di consumatore è ormai rintracciabile in numerose fonti normative, alcune molto risalenti nel tempo, a cominciare dalla Convenzione di Bruxelles del 1968, in materia di contratti, dove (art. 13) si definisce consumatore il soggetto che agisce “per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale”, definizione ripresa dall’art. 5 della Convenzione di Roma del 1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali.
Ma è a cominciare dalla metà degli anni ’70 che l’esplosione della normazione a tutela dei consumatori ha fornito numerose definizioni, per lo più assimilabili e convergenti nel definire il soggetto consumatore in relazione all’attività eventualmente svolta. Pertanto, essendo l’attività a determinare lo status di consumatore, questo sembra configurarsi come status “accidentale”, ben potendo un soggetto agire in alcuni casi svolgendo una attività professionale, in altri in quanto parte “debole” contrapposta al professionista.
Nell’ordinamento italiano, tuttavia, la figura del consumatore fa una prima timida apparizione -quasi “sotto mentite spoglie”- soltanto verso la fine degli anni ottanta: come se il legislatore avesse voluto in qualche misura resistere alle sollecitazioni comunitarie, nel Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988 n. 224, in materia di prodotti difettosi, compare la figura del “danneggiato”, vero e proprio antesignano del “consumatore”.
Finalmente, con il decreto legislativo 15 gennaio 1992 n. 50, in recepimento della direttiva n. 85/577/CE, relativa ai contratti conclusi fuori dai locali commerciali, viene introdotta la figura del consumatore, definito come “la persona fisica che agisce per scopi che possono considerarsi estranei alla propria attività professionale” ([2]).
Nel 1996 la figura del consumatore fa ingresso nel codice civile italiano, a seguito della novella del 6 febbraio 1996, n. 52, che ha introdotto il capo XIV bis intitolato “Dei contratti del consumatore” in attuazione della direttiva n. 93/13/CE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori: a norma dell’art. 1469 bis c.c. è consumatore “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Con la c.d. “legge quadro” sui diritti dei consumatori e degli utenti (legge 30 luglio 1998, n. 281) fa la sua apparizione la nozione di “utente” accanto a quella di consumatore e vengono codificati i diritti fondamentali riconosciuti a questi soggetti.
Infine, il recente decreto legislativo 2 febbraio 2002, n. 24 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 marzo 2002), in attuazione della direttiva 1999/44/CE riguardante taluni aspetti della vendita e delle garanzie di consumo, ha ribadito la definizione di consumatore all’interno del codice civile inserendovi gli articoli 1519 bis e seguenti.
I caratteri della definizione di consumatore nella giurisprudenza
Come si evince da questo breve excursus, la nozione di consumatore sembra configurarsi in relazione a quella del professionista, quasi che il primo non possa esistere se non in posizione contraria e complementare al secondo ([3]).
Sulla base delle definizioni positive di consumatore la giurisprudenza ha fornito interpretazioni non sempre uniformi, delineando due orientamenti di massima, tendenti rispettivamente ad estendere la nozione di consumatore (e quindi l’applicabilità delle norme di tutela ad una più ampia schiera di soggetti) ed a restringerla secondo interpretazioni rigorosamente ancorate al tenore letterale delle norme.
Tra le interpretazioni estensive si ricorda la sentenza del Tribunale di Roma del 20 ottobre 1999 che (nel noto caso del contratto di trasporto stipulato da uno scultore per il trasferimento di un’opera ad un concorso) riconosce un consumatore anche nel “professionista o imprenditore per il quale la conclusione del contratto non sia atto della professione come lo è per la sua controparte” ([4])
Secondo l’orientamento più rigoroso invece (Cass. 14 aprile 2000, n. 4843, in Corr. Giur., 2001, p. 524) la qualifica di consumatore andrebbe negata persino in capo alla persona “che, in vista di intraprendere un’attività imprenditoriale, cioè per uno scopo professionale, acquista gli strumenti indispensabili per l’esercizio di tale attività” ([5]).
La tendenza della giurisprudenza di legittimità, dunque, sembra caratterizzarsi per estremo rigore: con sentenza del 25 luglio 2001, n. 10127, la Suprema Corte afferma che “deve essere considerato consumatore la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana, estranee all’esercizio di dette attività” ([6]).
Insomma, secondo la Corte, per escludere che si tratti di contratto del consumatore non sarebbe necessario che questo “sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che venga posto in essere per uno scopo connesso all’attività stessa” ([7]).
Ulteriori spunti problematici
L’interpretazione più restrittiva sulla quale sembra attestarsi la giurisprudenza di legittimità appare tuttavia per certi versi criticabile: la rigorosa valutazione dello scopo per il quale il bene è stato acquistato non è infatti condivisibile nella misura in cui trascura il presupposto che dovrebbe informare la scelta di assoggettare determinati rapporti alle garanzie proprie del diritto dei consumatori e cioè la minore capacità di un contraente di contrapporsi all’altro, considerato più forte perché più informato, dotato di maggiori mezzi e potere contrattuale.
Certo è che far dipendere l’applicazione delle norme a favore del consumatore dalla valutazione relativa alla disparità di “forza” tra i contraenti potrebbe comportare alcuni inconvenienti, ma consentirebbe di superare l’altro grande nodo interpretativo riguardante la possibilità di considerare “consumatori” anche i liberi professionisti e persino i piccoli imprenditori che contrattano con le grandi aziende.
Indubbiamente, sul punto le fonti normative parlano chiaro, escludendo che possa qualificarsi consumatore un soggetto diverso dalla “persona fisica”. Né è valso ricorrere alla Corte Costituzionale ([8]) che, pronunciandosi sulla legittimità dell’art. 1469 bis c.c. in relazione agli articoli 3, 35, 41 della Costituzione, nella parte in cui definisce “consumatore solo la persona fisica e non anche la persona fisica che agisce per scopi imprenditoriali e quella giuridica”, con ordinanza del 24 giugno 1999, n. 282, ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile, sostenendo che il nostro legislatore ha previsto che possano essere considerati consumatori solo le persone fisiche.
Recentemente, la stessa Corte di Giustizia europea, con sentenza del 22 novembre 2001, nei procedimenti riuniti C-541/99 e C-542/99, ha riaffermato, in relazione alla direttiva n. 93/13/CEE, che “tale norma deve essere interpretata nel senso che si riferisce esclusivamente alle persone fisiche”.
La giurisprudenza di merito si è allineata nella grande maggioranza a tale indirizzo: si veda la sentenza del Tribunale di Firenze del 4 aprile 2001 (Gius., 2001, p. 2137) in cui si afferma che “la qualità di consumatore, presupposto per l’applicabilità della disciplina speciale dettata dagli articoli 1469 bis e seguenti c.c., può essere rivestita solo da una persona fisica, dovendosi escludere la sua estensibilità alle persone giuridiche” ([9]).
Conclusioni
Così stando le cose, a parte qualche coraggiosa interpretazione dottrinale ([10]), sembra proprio che spetti al legislatore nazionale (che ben potrebbe farlo in virtù del principio di sussidiarietà) di ampliare il novero dei soggetti beneficiari di tale favor rimediando alle approssimative scelte fatte in sede di recepimento.
Del resto, seguendo il percorso tracciato già da altri ordinamenti europei ([11]), sarebbe davvero opportuno che il legislatore italiano prendesse coscienza delle accennate istanze emergenti nei nuovi scenari economici-sociali (diffusione della contrattazione di massa e delle tecniche di comunicazione a distanza, globalizzazione telematica, e-commerce) così da perfezionare quel salto di qualità oramai irrinunciabile per contemperare gli interessi in gioco nel mercato e rendere la tutela del consumatore, già da tempo emancipata da demagogici paternalismi, reale espressione del nuovo sentire economico e sociale.
NOTE AL TESTO:
[1] E’ stato osservato che le ragioni inizialmente poste dal legislatore comunitario a fondamento della tutela del consumatore risiedevano nella necessità di favorire l’ordinato e razionale sviluppo del mercato unico dei beni e dei servizi e la libera circolazione dei prodotti, piuttosto che in esigenze di protezione di tale soggetto rispetto alla posizione di forza dell’imprenditore a lui contrapposto.
[2] Meritano menzione poi la direttiva n. 87/102/CEE in materia di credito al consumo, modificata dalla direttiva n. 98/7/CE e recepita in Italia con decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 63; la direttiva n. 90/314/CEE inerente alla vendita dei c.d. “pacchetti turistici”, attuata con decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 111; la direttiva n. 94/47/CE, concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi alla c.d. multiproprietà, attuata con decreto legislativo 9 novembre 1998, n. 427.
[3] Tuttavia, c’è da rilevare una certa difformità almeno lessicale: ad esempio nel decreto legislativo n. 50/92, il consumatore è contrapposto all’ “operatore commerciale”, mentre nel decreto legislativo n. 185/99, in luogo del professionista si trova il “fornitore”.
[4] Foro it. 2000, p. 645. Nella sentenza il Tribunale afferma la qualifica di consumatore in capo allo scultore, dal momento che il contratto di trasporto non rientra tra gli atti tipici della sua professione, spiegando, a titolo esemplificativo, che “è consumatore ai sensi della normativa in esame anche il mediatore immobiliare che acquista un computer con l’intenzione di destinarlo alla sua attività, ovvero l’avvocato che affida ad un corriere una sua lettera diretta ad un cliente, perché tali contratti sono al di fuori dell’oggetto dell’attività professionalmente svolta dai predetti (ovvero non sono diretti a realizzarne in via immediata lo scopo) pur essendo ad essa strumentalmente collegati”.
[5] Nel caso di specie è stata ritenuta inapplicabile la normativa a favore del consumatore nei confronti di un soggetto che aveva acquistato videogiochi, ripromettendosi di concludere contratti di società con i titolari degli esercizi commerciali, prestando i servizi accessori indispensabili perché il pubblico potesse utilizzare i videogiochi.
[6] Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che l’attività posta in essere dalle parti doveva essere considerata attività professionale, in quanto sussisteva in capo ad entrambe un interesse professionale, consistente da un lato nell’attività di promozione di una banca, la quale aveva stipulato una convenzione con un rivenditore di motocicli, i cui clienti avrebbero potuto usufruire di un finanziamento da parte dell’istituto di credito in questione e dall’altra nell’attività del rivenditore stesso.
[7] La Cassazione si spinge anche oltre, spiegando i motivi per i quali abbia considerato professionista anche chi stipula un contratto per acquistare beni o usufruire di servizi, che siano solamente collegati strumentalmente all’attività svolta. L’esegesi della Corte si concentra sulla parola “quadro” dell’art. 1469 bis, termine che appare idoneo ad avallare tale interpretazione restrittiva: afferma infatti la Corte che la parola “quadro” potendo essere sostituita con le locuzioni “al fine dello svolgimento”, “per le esigenze di”, “nel contesto”, espressioni tutte che ne riassumono il significato, “impone di includere nella portata della norma non solo l’attività principale, ma anche la eventuale attività accessoria o strumentale a quella principale” che sono dirette a garantirne lo sviluppo e la realizzazione.
[8] Per il Giudice di Pace che ha sollevato la questione, tale esclusione sarebbe del tutto ingiustificata, perché non avrebbe alcun fondamento “limitare la tutela alle sole persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale, essendo in tal modo discriminati gli artigiani, i piccoli imprenditori, gli imprenditori agricoli e le imprese familiari, che pure devono considerarsi consumatori” (Giudice di Pace de L’aquila, ordinanza del 3 novembre 1997).
[9] Contra, si segnala la pronuncia del Tribunale di Bologna del 3 ottobre 2000 (Corr. Giur., 2000, p.525) per cui “deve considerarsi consumatore anche il condominio che stipula con una società di servizi, attraverso l’amministratore condominiale, un contratto di manutenzione del servizio ascensore”: in questo caso infatti si ritiene che il contratto “non vincola l’amministratore, che agisce come mero mandatario dei singoli condomini e non quale organo del condominio, ma i singoli condomini, utenti del servizio di trasporto e manutenzione dell’elevatore”.
[10] Secondo alcuni commentatori, l’estensione alla persone giuridiche potrebbe argomentarsi richiamando due norme di legge: l’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del 1968 (in cui il consumatore viene definito quale “persona che agisce per un fine che può essere considerato estraneo alla sua attività professionale”, senza alcun riferimento alla distinzione tra persone fisiche e giuridiche) e l’art. 1469 quinquies c.c. (che attribuisce al venditore un diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni subiti in conseguenza della declaratoria di inefficacia delle clausole dichiarate abusive). Questa norma avrebbe lo scopo di tutelare gli “imprenditori deboli”, che non possono usufruire della disciplina legislativa a favore dei consumatori, ma che si trovano comunque in una posizione di “inferiorità” rispetto all’altro contraente e dunque vengono protetti attraverso la previsione a loro favore di un diritto di regresso: sembra che voglia riconoscersi al “venditore debole” una sorta di posizione di inferiorità rispetto al fornitore, che potrebbe ben esser assimilata, con le opportune specificazioni, al quella prevista per il consumatore.
[11] In Spagna e in Belgio si è attuata la norma comunitaria, applicando il principio di sussidiarietà: in Belgio è consumatore la “persona fisica o giuridica che acquisti o utilizzi per scopi che escludono ogni carattere professionale beni di consumo o servizi che sono sul mercato”; mentre per il legislatore spagnolo “le persone fisiche o giuridiche che acquistano, utilizzano o sfruttano come destinatari finali beni mobili o immobili, prodotti, servizi, attività e funzioni”.
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