Uno degli Autori che si è più specificamente occupato delle caratteristiche delle pronunce di incostituzionalità, ha affermato, in particolare, che l’effetto principale di tali sentenze è quello abrogativo della legge oggetto del giudizio[1].
Per dimostrare ciò, l’Autore distingue l’abrogazione da figure che possono essere considerate affini, come l’annullamento o la disapplicazione, rilevando innanzi tutto come quest’ultima sia un concetto sostanzialmente relativo, poiché si concretizza nella irrilevanza degli effetti rispetto ad una concreta fattispecie, ma “non concerne né gli effetti che si siano eventualmente già verificati, né gli effetti che si possono verificare in futuro rispetto ad altre fattispecie”. “L’abrogazione, invece, elimina tutti gli effetti futuri, sia che debbano prodursi rispetto ad una fattispecie identica a quella che si esamina, sia che sorgano rispetto a fattispecie di diverso genere; ne consegue che la disapplicazione di un atto generale non implica che esso non possa applicarsi in futuro, mentre l’abrogazione di un atto generale, colpendo tutti gli effetti dell’atto, non può non avere essa stessa estensione erga omnes”. L’annullamento, quindi, sebbene abbia in comune con l’abrogazione l’essere un istituto a rilevanza assoluta, e non relativa come la disapplicazione, tuttavia se ne distingue, poiché, al contrario dell’abrogazione, non elimina gli effetti dell’atto ex nunc, bensì ex tunc.
Poste queste necessarie premesse, è allora possibile condividere la conclusione che l’effetto della pronuncia di illegittimità vada qualificato come abrogazione: infatti, al contrario della disapplicazione, questa riguarda tutti gli effetti della legge, anche quelli futuri, e vale erga omnes, e al contrario dell’annullamento non concerne gli effetti già prodotti[2].
Tale ultima deduzione, poi, Guarino ritiene di poterla ricavare, a contrario, dall’esame testuale dell’art.136 e dal suo confronto con l’art.77 della Costituzione. L’art.136 afferma infatti che, a seguito della pronuncia di incostituzionalità, “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, mentre l’art.77, invece, prevede esplicitamente che i decreti legge non convertiti dalle Camere entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione “perdono efficacia sin dall’inizio”.
Se tale ultimo rilievo è esatto, sorge però il problema di stabilire che effetti sortisca la pronuncia di incostituzionalità sul giudizio in corso, cioè quello in cui è stata appunto sollevata la questione risolta poi dalla Corte Costituzionale. Problema, questo, strettamente connesso alla circostanza che quello sottoposto al giudice a quo è indubbiamente un fatto anteriore “al giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, e perciò potrebbe astrattamente sostenersi che esso debba rimanere regolato dalla legge ritenuta illegittima, atteso che la decisione della Corte, per il disposto dell’art.136, toglie efficacia alla legge illegittima ex nunc, e l’abrogazione di quest’ultima non ha, in quanto tale, effetto retroattivo.
Tale conclusione sembra però contrastare già con il principio di parità di trattamento e di razionalità delle scelte giuridiche, apparendo cioè illogico e antigiuridico che i fatti anteriori “al giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, solo in quanto tali, debbano essere indiscriminatamente regolati dalla legge illegittima; oltretutto, verrebbe così ad essere minata la stessa autorità della legge, al momento in cui determinati soggetti fossero costretti a sottostare a norme di cui fosse stata accertata l’illegittimità. In più, come è stato notato, si avrebbe la conseguenza paradossale che la decisione della Corte rimarrebbe priva di utilità proprio per quel soggetto che nel corso di un giudizio ha sollevato la questione di costituzionalità, e che non avrebbe ovviamente nessun interesse in questo senso, se non potesse poi giovarsi anch’egli degli effetti abrogativi della sentenza della Corte[3].
La questione va chiarita in base al rilievo che “per lo stesso art.136 l’abrogazione non è effetto unico della decisione, e ciò perché questa costituisce anche accertamento definitivo della illegittimità della legge”[4] (che la decisione della Corte contenga un accertamento dell’illegittimità della legge sarebbe ricavabile infatti dalla dizione dell’art.136, il quale prevede che la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale…”).
In tal modo, quindi, la sentenza della Corte sarà vincolante anche per il giudice a quo, ma non per il suo effetto abrogativo, che opera ex nunc, bensì proprio perché il giudice, nel continuare il giudizio dopo la restituzione degli atti da parte della Corte Costituzionale, viene a trovarsi di fronte ad un avvenuto accertamento della illegittimità della legge, il quale, proprio per tale suo carattere, oltre che per la sua definitività, opera invece ex tunc e non può quindi non vincolarlo[5].
Già in base a quanto chiarito, quindi, e trascurando di approfondire questioni prettamente di diritto costituzionale che non appaiono esattamente pertinenti, non sembrano del tutto condivisibili, perché fondate su una visione parziale del problema, le tesi di quanti hanno sostenuto che la pronuncia di incostituzionalità della Corte abbia natura solo costitutiva[6], oppure, al contrario, solo dichiarativa[7].
Allora il problema interpretativo viene risolto ritenendo che il giudice, in tali fattispecie, dovrà “disapplicare la legge illegittima, la quale non produrrà effetti rispetto al caso che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità non perché abrogata, ma perché, essendo stata riconosciuta illegittima, deve essere disapplicata”[8]. Tale conclusione è raggiungibile proprio per l’impossibilità di spiegare l’irrilevanza della legge illegittima, rispetto al giudizio in corso, in base al solo effetto abrogativo della sentenza, per cui si ha che disapplicazione e abrogazione si integrano a vicenda, poiché ognuno dei due istituti produce effetti che l’altro non sarebbe in grado di produrre[9].
Bisogna però dire che l’impostazione di Guarino va ridimensionata sotto un aspetto fondamentale, l’analisi del quale permette di evidenziare i limiti, sia concettuali che storici, della teoria appena esposta nelle sue linee essenziali. Vale a dire che diventa importante notare il fatto che sebbene quando Guarino scriveva, cioè nel 1951, la Corte Costituzionale non avesse ancora cominciato ad operare, essendo la legge istitutiva di tale organo del 1953, tuttavia del ruolo e delle stesse funzioni di tale organo erano già state ampiamente definite le caratteristiche e le modalità di funzionamento, esistendo peraltro già la legge costituzionale n.1 del 1948, contenente “norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale”.
In sostanza, in un ordinamento come il nostro, in cui esiste un organo apposito per giudicare la validità delle leggi, quello che può pur ritenersi il principio generale della disapplicazione deve essere coordinato con tale imprescindibile dato, per cui, con riferimento alle leggi, il principio della disapplicazione non diventa più la regola generale, come affermato invece da Guarino, bensì una eccezione, da accettare in quella misura e nei limiti consentiti dal sistema[10].
Ed allora, se la stessa possibilità di sollevare d’ufficio la questione di costituzionalità, senza potere andare oltre, è strettamente legata e consequenziale ad un sindacato sulla legittimità della legge stessa, è però allo stesso tempo indice del modo limitato in cui tale sindacato, e la conseguente possibilità di disapplicare, operino, perché comunque al giudice non sarebbe possibile disapplicare la legge prima della pronuncia della Corte[11]; ed ecco spiegato il motivo per cui, nella materia in esame, le fattispecie ove, in maniera immediata, sorge un problema di disapplicazione di una legge illegittima, sono proprio quei casi in cui vi sia stata, da parte della Corte Costituzionale, una pronuncia di incostituzionalità di una norma di legge. In questi casi, infatti, come si è già rilevato, poiché l’effetto abrogativo della sentenza non può ritenersi esteso ai rapporti sorti precedentemente ad essa, l’unico modo per il giudice a quo di “giovarsi”, e proprio nel giudizio in corso, degli effetti della pronuncia di incostituzionalità, è non tenere conto della legge dichiarata illegittima, cioè disapplicarla, cosa alla quale egli è oltretutto vincolato, avendo la sentenza della Corte anche un contenuto di accertamento[12]. Sarebbe invero profondamente ingiusto che proprio nel giudizio a quo dovesse trovare applicazione una legge dichiarata incostituzionale, considerato anche che – per come è strutturato il giudizio di costituzionalità dall’art.1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.1, il quale prevede che la questione di legittimità ritenuta non manifestamente infondata debba essere sollevata “nel corso di un giudizio” – lo stesso processo dinanzi alla Corte non troverebbe quasi mai, da un punto di vista pratico, attuazione, dovendosi ritenere implicita nella stessa ratio della norma la rilevanza della sentenza anche per il caso in corso[13].
Non solo, ma una soluzione analoga a quella prospettata deve essere ritenuta applicabile anche in quelle fattispecie, analoghe a quella nel corso della quale è stata sollevata la questione di costituzionalità, in cui, successivamente ad una decisione della Corte che abbia dichiarato incostituzionale una legge, un giudice debba pronunciarsi – sia se già adìto, sia se adìto successivamente – su di un rapporto, non ancora esaurito, sorto antecedentemente alla sentenza e al quale andrebbe quindi applicata, teoricamente, la norma abrogata[14].
Ora, in casi del genere, qualora venga riproposta da un soggetto la questione di incostituzionalità – cosa peraltro non strettamente necessaria, potendo tale questione essere sollevata d’ufficio – il giudice investito della controversia, pur nell’impossibilità di estendere l’effetto abrogativo della sentenza, non potrà certo ritenere la questione manifestamente infondata, nè rimetterla alla Corte costituzionale per una nuova decisione, ma dovrà semplicemente attenersi a quell’accertamento di illegittimità compiuto dalla Corte, disapplicando quindi la legge[15].
D’altra parte, “gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge non implicano l’invalidazione degli atti e provvedimenti amministrativi che non siano stati a questi fini impugnati o nei confronti dei quali il ricorso giurisdizionale sia stato dichiarato perento”[16].
Fin qui la teoria di Guarino – sebbene con il necessario ribaltamento di impostazione dato dal considerare il principio della disapplicazione, con riferimento alle leggi, non tanto la regola quanto l’eccezione – sembra applicabile, mentre non sembra invece che le conclusioni raggiunte possano valere, come affermato invece da Guarino, anche per quei rapporti che, seppure non ancora esauriti, siano però sorti successivamente alla pronuncia di incostituzionalità. Secondo Guarino, infatti, “non rileva, ai fini della disapplicazione, se il fatto sia anteriore o posteriore alla decisione della Corte Costituzionale che dichiara la illegittimità”[17].
In proposito, infatti, c’è da dire che anche in casi del genere la legge illegittima non sarà applicabile, ma non perché debba essere disapplicata dal giudice, bensì perché sarà l’effetto abrogativo della sentenza ad impedirlo, atteso che l’abrogazione in generale, e quella delle leggi in particolare – sebbene abbia come caratteristica immediatamente percepibile quella di eliminare, ex nunc e per il futuro, tutti gli effetti dell’atto – incide comunque sull’atto stesso, e non solo sugli effetti, poiché, come è stato rilevato dallo stesso Guarino[18], “all’atto, e non agli effetti, fa riferimento l’art.15 disp. prel. cod. civ.”, il quale stabilisce che “le leggi non sono abrogate che…”. In casi del genere, quindi, il giudice non avrà nulla da disapplicare, perché non dovrà fare altro se non accertare che la legge, ormai dichiarata illegittima, non esiste più in quanto tale, cioè in quanto atto giuridicamente produttivo di effetti, ma è invece un atto nullo, cioè intrinsecamente inefficace ab origine, perché riconosciuto tale dalla sentenza della Corte, con la conseguenza per il giudice di dovere applicare una normativa diversa[19].
Infatti, la categoria concettuale della inesistenza deve essere sostituita da quella della nullità, e il concetto della disapplicazione non è riferibile agli atti nulli, in quanto “un atto per essere disapplicato dovrebbe essere applicabile”, e “l’atto nullo, in quanto è intrinsecamente inefficace, non tanto è disapplicabile, quanto, per definizione, non può essere applicabile”[20], a prescindere da qualsiasi previsione normativa[21].
Nel caso dei rapporti sorti prima della sentenza, invece, la soluzione è diversa proprio perché, per quanto precedentemente sostenuto, la non applicazione della legge illegittima, sia al giudizio a quo che ad altri casi analoghi o diversi (i cosiddetti casi paralleli), non potrebbe trovare giustificazione nell’effetto abrogativo della sentenza, che non si estende infatti a tali fattispecie. Se non si ritenesse che l’abrogazione dispiega i suoi effetti solo per il futuro, ed ex nunc, non sarebbe riscontrabile allora alcuna differenza con l’annullamento, poiché entrambi gli istituti sarebbero a quel punto efficaci retroattivamente e per tutti i possibili casi interessati.
L’unico modo, quindi, per estendere gli effetti della sentenza ai rapporti sorti prima della sentenza stessa, e ancora in corso, è, appunto, disapplicare la legge, da considerare ormai illegittima. Diversamente, la legge dovrebbe essere applicata, ma ciò contrasterebbe con la sua accertata illegittimità e con la stessa funzione del giudice, adito per tutelare una qualche situazione giuridica.
Sembra quindi di poter dire che i presupposti essenziali, perché possa semplicemente porsi un problema di disapplicazione in casi diversi da quello in cui è sorta la questione di costituzionalità, sono che si tratti di rapporti non esauriti, che tali rapporti siano sorti prima della pronuncia della Corte, e che la disapplicazione avvenga successivamente a quest’ultima. Per i fatti posteriori, infatti, come si è già chiarito, non può operare la disapplicazione, anche se da un punto di vista sostanziale vi sarà comunque l’applicazione di una diversa normativa[22].
La soluzione che attribuisce alla pronuncia di incostituzionalità un effetto abrogativo, non estendentesi quindi ai rapporti sorti precedentemente, ha il pregio evidente di superare le difficoltà legate alla soluzione che ritiene che la sentenza della Corte abbia un effetto di annullamento. Se si seguisse questa strada, infatti, dovrebbe concludersi che la sentenza estenderebbe automaticamente i propri effetti a tutti i rapporti precedenti ad essa, facendoli in pratica cadere nel nulla, poiché non solo gli effetti della legge, ma la legge stessa, una volta dichiarata illegittima, dovrebbe essere considerata caducata ex tunc.
La disapplicazione, invece, “non fa cadere automaticamente, come l’annullamento, tutti i rapporti intermedi, ma fa dipendere la <revoca> di questi rapporti dalla volontà delle parti; con la conseguenza che, se le parti che potrebbero agire restano inattive, i rapporti restano regolati dalla legge illegittima, e non perché necessariamente debba essere così, ma perché tale è il regolamento che obiettivamente consegue al comportamento degli interessati”[23].
Nel caso quindi di rapporti fra privati ed Amministrazione, o semplicemente fra privati, resterà rimessa alla volontà delle parti la scelta se lasciare inalterato il rapporto e le modalità del suo svolgimento, oppure rivolgersi, nei casi in cui ciò sia possibile, al giudice competente, affinché questi, accertando il vincolo che gli deriva dall’avvenuto accertamento di illegittimità della legge che regola il rapporto sottoposto alla sua cognizione, disapplichi la legge in questione, decidendo la controversia e regolando il rapporto in base a parametri diversi, che potranno essere dati dalla legge precedente a quella dichiarata illegittima. In tal modo, dopo che la legge illegittima sia stata disapplicata in un caso, chiunque altro voglia ottenerne la disapplicazione, in un diverso rapporto, dovrà agire in giudizio, per cui potranno aversi situazioni, ad esempio, in cui “l’invalidità di un atto amministrativo venga dichiarata in conseguenza della emanazione di una sentenza…che abbia fatto venir meno…taluna delle norme in base alle quali l’atto era stato emanato”[24].
A questo punto, sembra di avere dimostrato che il sindacato del giudice sulla validità delle leggi, a prescindere da una consequenziale disapplicazione delle stesse, non è incompatibile, in astratto, pur inteso come eccezione, nè con la funzione del giudice stesso, nè con la divisione dei poteri, atteso che al giudice residua un minimo spazio entro il quale esercitare il proprio ministerio, pur in coordinamento con il ruolo e la funzione di un organo come la Corte Costituzionale.
Solo che in questi casi il sindacato del giudice sulla legge non può essere in generale finalizzato alla disapplicazione della legge riscontrata illegittima, perché ad esempio incostituzionale, e come se fosse un qualsiasi atto, perché il giudice sarebbe comunque obbligato a rimettere la questione alla Corte Costituzionale, essendo poi vincolato dalla decisione adottata in quella sede. Quindi il giudice può pure effettuare un sindacato sulla legge, in quanto atto di pubblici poteri, anche in ipotesi in cui si trovi a dover giudicare di un atto che su di esso si fondi, ma soltanto al fine di sollevare eventualmente la questione di costituzionalità dinanzi alla Corte, senza tantomeno la possibilità di disapplicare l’atto – di cui si trovi eventualmente a dover conoscere ad esempio in una controversia tra privati – che tragga la propria illegittimità dalla legge in questione. Più precisamente, ai giudici rimane la delibazione della non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità[25].
Ecco perché si è precedentemente precisato che la disapplicazione di una legge illegittima può avvenire solo a seguito di una pronuncia di incostituzionalità, perché nel nostro ordinamento non può essere ritenuto proprio dei giudici il potere di disapplicare una legge, se non vi sia stata una pronuncia di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale e non si tratti di rapporti sorti prima della sentenza, ed ancora in corso[26]. Diversa sembra invece potrebbe essere la soluzione in un ordinamento in cui non fosse previsto un organo ad hoc per valutare la legittimità delle leggi[27].
Può invece affermarsi che il giudice potrà eventualmente accertare se una legge esista in quanto tale, cioè come atto produttivo di effetti, e non debba, invece, essere considerata inesistente, ovvero nulla, perché abrogata o perché non identificabile come legge[28]. Da notare che in dottrina è stata anche ipotizzata una vera e propria disapplicazione di leggi illegittime che prescinda dall’emanazione di una sentenza della Corte Costituzionale, in quei casi in cui la legge abbia un contenuto non generale e astratto, ma particolare e concreto, immediatamente lesivo di situazioni giuridiche, e in quanto tale da ritenere direttamente impugnabile dinanzi al giudice. Così si è fatto l’esempio delle leggi di esproprio, sul presupposto che “l’emissione di un provvedimento concreto non rientra necessariamente nella competenza già spettante al potere esecutivo”[29].
Si è così affermato che qualora ci si trovi in presenza di una legge dal contenuto concreto, che illegittimamente arrechi un danno personale e diretto, “in mancanza di una espressa deroga, in conformità dei princìpi costituzionali, deve ritenersi che la tutela delle situazioni soggettive è ammessa pienamente anche nei confronti delle leggi”. Tale tutela dovrebbe poi concretizzarsi nella disapplicazione, da parte del giudice ordinario, di tali leggi illegittime, contro le quali dovrebbe ammettersi anche l’azione di risarcimento; a sostegno di tale assunto si è poi citato l’art.28 della Costituzione, il quale, nel prevedere la responsabilità dello Stato per tutti <<gli atti compiuti in violazione dei diritti>>, “non contiene alcuna esplicita eccezione per le leggi”[30].
Una volta recepite però le considerazioni finora espresse, circa il ruolo della Corte Costituzionale e la limitata possibilità di disapplicare leggi illegittime, tale ultima teoria non può certo essere accolta, con la conseguenza che l’unico modo per reagire contro una legge che, seppure dal contenuto concreto e specifico, non possa essere considerata se non come tale, cioè per il suo valore formale, sarà quello di rivolgersi al giudice competente avverso l’atto che ne faccia applicazione[31]. In sostanza, l’aspetto probabilmente da tenere presente è di tenere concettualmente distinta l’esistenza astratta di un principio generale, come quello della disapplicazione, dalla sua concreta operatività e limitato modo di essere, in relazione ad un determinato ordinamento e tipo di processo. Vale a dire che, mentre per qualsiasi altro tipo di giudizio il potere di disapplicazione deve essere ritenuto insito nello stesso esercizio della funzione giurisdizionale, la rilevata struttura del giudizio di validità sulle leggi impone di accogliere soltanto in via generale ed astratta, salvi quindi i necessari adattamenti già evidenziati, quelle indicazioni secondo le quali “se vige positivamente il principio della legalità delle leggi, e sia positivamente accolto senza limitazione il sindacato giurisdizionale delle leggi, si deve pervenire, e non si può non pervenire come corollario necessario, anche alla disapplicazione delle leggi illegittime da parte dei giudici”[32].
Note:
[1] GUARINO, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, in Jus, 1951, 356 s.s.
[2] Ritiene invece che l’effetto della decisione della Corte vada qualificato come annullamento MORTATI, Questioni sul controllo di costituzionalità sostanziale delle leggi, in Foro amm., 1948, I, 1, 326.
[3] Vedi, per tale rilievo, P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, 98.
[4] Così GUARINO, op. cit., 360.
[5] Sembra che in questo modo sia possibile stabilire una compatibilità di fondo fra tale impostazione, che fa leva sull’effetto abrogativo della sentenza di illegittimità della Corte Costituzionale, e quella, propria di CANNADA-BARTOLI, espressa in Abrogazione dell’atto amministrativo, in Enc. diritto, vol. I, Varese, 1958, 159, secondo la quale l’abrogazione va giustificata esclusivamente “come effetto di una situazione obiettiva d’incompatibilità fra due successivi provvedimenti”, cioè come una situazione di fatto, per cui si ha “un atto che dispone in contrasto con un precedente atto” e che provoca, in virtù di tale incompatibilità, l’abrogazione di quest’ultimo. Secondo CANNADA-BARTOLI, in sostanza, con espresso riferimento alla posizione di GUARINO, non “riesce conducente attribuire al termine abrogazione un significato molto ampio che non escluda il collegamento agli schemi dell’invalidità, giacchè siffatta eccessiva estensione priva di utilità il concetto tecnico di abrogazione”. Ora, sembra di potere riscontrare un elemento di conciliabilità fra tali teorie, partendo comunque dal rilievo per cui la sentenza della Corte Costituzionale, che dichiari l’illegittimità costituzionale di una legge, non è propriamente assimilabile ad un qualsiasi provvedimento amministrativo che, provvedendo appunto su una determinata materia, determini una situazione di incompatibilità con un precedente provvedimento, che è poi la situazione tenuta presente da CANNADA-BARTOLI nello scritto citato. Però, c’è da dire, un provvedimento amministrativo, a differenza di una sentenza di illegittimità della Corte Costituzionale, non ha necessariamente ad oggetto un altro atto, mentre è comunque vero, di contro, che anche la sentenza della Corte, al momento in cui esamina specificamente una legge sottoposta al suo giudizio, determina anch’essa una situazione di incompatibilità, che viene a crearsi tra la normativa dichiarata illegittima e, appunto, la sentenza, in quanto atto giurisdizionale. Più esattamente, secondo l’impostazione data nel testo, l’incompatibilità viene a crearsi con l’accertamento di illegittimità contenuto nella sentenza, il quale, se da un canto costituisce il motivo dell’incompatibilità con la normativa esaminata, e, quindi, dell’abrogazione di quest’ultima, dall’altro, come già precisato, spiega anche, proprio in quanto tale, un effetto retroattivo. Significativa in questo contesto, sebbene specificamente riguardante solo l’incompatibilità fra leggi, quella pronuncia secondo la quale, “ai sensi dell’art. 15 disp. prel. cod. civ., l’abrogazione tacita di una legge ricorre quando sussiste incompatibilità fra le nuove disposizioni e quelle precedenti, ovvero quando la nuova legge disciplina la materia già regolata da quella anteriore; in particolare la suddetta incompatibilità si verifica solo quando fra le leggi considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicchè dall’applicazione ed osservanza della nuova legge deriva necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra”: così Cass., Sez. Lav., 18 febbraio 1995, n. 1760; Cass. Pen., Sez. III, 1° ottobre 1996, n. 601; Cass., Sez. lav., 7 marzo 1979, n. 1423.
[6] In questi termini CALAMANDREI, op. cit., 72 s.s. Vedi anche FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, VII ed., Padova, 1994, 271, il quale, subito dopo avere affermato in proposito che si tratta di sentenza costitutiva, precisa che tale sentenza “incide sull’efficacia della legge ordinaria, eliminandola dall’ordinamento dello Stato”, senza tuttavia chiarire esplicitamente che cosa debba intendersi per “eliminazione”. MARTINES, invece, in Diritto pubblico, Varese, 1992, 434, afferma che “…le sentenze di accoglimento della Corte hanno efficacia erga omnes ed acquistano il valore di sentenze di accertamento costitutivo, con l’effetto di annullare le norme dichiarate illegittime”.
[7] Cfr. GARBAGNATI, Efficacia nel tempo della decisione di accoglimento della Corte Costituzionale, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977.
[8] Cfr. GUARINO, op. cit., 365.
[9] In quest’ottica, e sebbene si riscontri l’impostazione del testo – affermandovisi che “una disposizione, di cui sia stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, cessa di avere efficacia e deve essere disapplicata anche d’ufficio dal giorno successivo alla pubblicazione sulla gazzetta ufficiale della decisione della Corte Costituzionale” – appare quanto meno confusa la posizione di Cass., Sez. Lav., 28 maggio 1979, n. 3111, laddove afferma che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale, pronunciata dalla Corte Costituzionale, ha efficacia retroattiva perché elimina ex nunc la stessa norma, sulla quale si fonda il diritto soggettivo”.
[10] Significative, al fine di ciò che si va sostenendo, le osservazioni di F. LA VALLE, Cognizione principale ed incidentale dei regolamenti nel giudizio amministrativo, in Jus, 1967, 147, laddove osserva, con riferimento alle esclusive competenze della Corte Costituzionale, che, considerata la ratio dell’istituto della disapplicazione, “la positiva vigenza d’esso principio non è contraddetta, ma anzi confermata, dal fatto che l’ordinamento espressamente sottragga alcune (ma non tutte le) categorie di norme alla cognizione incidentale diffusa, per attribuirle alla cognizione principale di uno speciale organo giurisdizionale”. Nello stesso senso di LA VALLE, ma prima di lui, CANNADA-BARTOLI – Disapplicazione di regolamenti da parte del Consiglio di Stato (in nota a Cons. Stato, Sez. VI, 30 dicembre 1958 n. 1017), in Giur. Cost., 1959, 520 – che partendo dalla necessità di verificare se ed in quali limiti il principio iura novit curia sia vigente nel nostro ordinamento, nel quale appunto il controllo sulla validità delle leggi è devoluto ad apposito organo, distinto dal complesso dei giudici ordinari e speciali, giunge alla conclusione per cui “sembra, peraltro, che la competenza del giudice a quo circa la manifesta infondatezza consenta di ritenere vigente il suddetto principio”. SANDULLI, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte Costituzionale sulla legittimità delle leggi, in Studi in onore di E. Betti, V, Milano, 1962, 555, osservava che “una volta dichiarata dalla Corte Costituzionale…l’illegittimità delle norme impugnate, il giudice a quo non può applicare quelle norme”, perché “per principio generale i giudici, salvo che sia diversamente disposto, e salvo che esistano competenze riservate, sono tenuti a disapplicare gli atti illegittimi dei pubblici poteri”. Per un esame della positiva vigenza del principio della disapplicazione, sia consentito rinviare a TREBASTONI, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Foro amm., 2000, 683 ss.
[11] Cfr. Cass., Sez. Un., 6 maggio 1996 n. 387, ove implicitamente si ammette la possibilità per il giudice amministrativo, in sede di giudizio cautelare, di sindacare la costituzionalità di una norma di legge, ma attraverso l’unico strumento a sua disposizione, cioè la rimessione della questione stessa alla Corte Costituzionale, dovendo il sindacato di costituzionalità “restare attribuito al giudice delle leggi anche quando è finalizzato alla tutela incidentale e di urgenza”. Anche in dottrina, si è affermato che nell’ipotesi in cui un provvedimento sia stato impugnato adducendo unicamente l’illegittimità costituzionale della legge che lo legittima, e ne sia stata chiesta la sospensione, “laddove l’esigenza di una tutela immediata appaia essenziale e la questione di costituzionalità abbia un notevole grado di fumus boni juris, il provvedimento cautelare sia da concedere, rimanendo riservata alla fase di merito del giudizio il deferimento della questione alla Corte Costituzionale”: SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 1463.
[12] Nello stesso senso SANDULLI, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte Costituzionale, cit., 556-558, che riferisce però il potere di disapplicare soltanto al giudice a quo, ritenendo in generale, per gli altri casi, che si tratti, “in sostanza, di un vero e proprio effetto di annullamento, giacchè, fuori dubbio, qui il venir meno ex tunc e totale dell’efficacia della legge presuppone necessariamente l’accertamento, a opera di un atto giuridico, della invalidità di essa: e tutto ciò è proprio e caratteristico dell’annullamento”.
[13] Cfr. Cass., Sez. Lav., 12 gennaio 1995, n. 305, secondo cui “i mutamenti normativi prodotti da pronunce d’illegittimità costituzionale, configurandosi come <<jus superveniens>>, impongono – in ogni stato e grado e quindi anche nella fase di cassazione – la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della <<regola juris>> risultante dalle decisioni anzidette”.
[14] Vedi MARTINES, op. cit., 435, il quale, nel precisare che “la sentenza della Corte si applica…a tutti i rapporti in qualunque modo ancora pendenti, vale a dire non ancora <<esauriti>>”, chiarisce anche che, con tale definizione, ci si possa ad esempio riferire “…ad un rapporto che richieda prestazioni non ancora esaurite o in via di esecuzione”. Nello stesso senso si è espressa Cass. Civ., Sez. I, 11 gennaio 1979 n. 187, in Rass. giur. Enel, 1979, 620, secondo cui “la disposizione dell’art. 136 cost., in base alla quale la norma di legge dichiarata illegittima cessa di avere efficacia a partire dal giorno successivo a quello di pubblicazione (nella G.U.) della decisione della Corte Costituzionale, va interpretata nel senso che la pronuncia di incostituzionalità, mentre lascia salvi tutti gli effetti prodotti in maniera definitiva, spiega, invece, la sua efficacia sulle situazioni giuridiche non esaurite, per tali intendendosi solo quelle che non siano state regolate in modo definitivo ed irrevocabile, in virtù o di atti amministrativi non più impugnabili, ovvero di atti negoziali rilevanti sul piano negoziale con efficacia preclusiva, ovvero ancora di giudicato. Ne consegue che, eccettuate le dette ipotesi di situazioni giuridiche oramai esaurite, il giudice, nel pronunciare sul rapporto sottoposto al suo esame deve, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, disapplicare la norma della quale, nel frattempo, sia stata dichiarata la illegittimità costituzionale”. In termini identici o analoghi vedi anche Cons. Stato, Sez. VI, 16 novembre 1987 n. 906, in Giust. Civ., 1988, I, 1640; Id., Sez. IV, 13 luglio 1982 n. 462, in Cons. St., 1982, I, 1456; Cass., Sez. Lav., 28 maggio 1979 n. 3111. Vedi inoltre Cons. St., Sez. VI, 20 aprile 1991 n. 219, in Cons. St., 1991, I, 779, ove si precisa che “le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale hanno una efficacia non limitata alle parti del processo a quo bensì erga omnes, e, per quanto attiene alla efficacia nel tempo di tali decisioni, la disapplicazione della legge dichiarata incostituzionale può avvenire…..anche nell’ambito di giudizi aventi riferimento a fatti verificatisi anteriormente alla pubblicazione del dispositivo della sentenza”. Esattamente in questi termini cfr. poi Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1993 n. 621, in Cons. St., 1993, I, 1131. Vedi anche Tar Sardegna, 5 giugno 1993 n. 678, in I Tar, 1993, I, 3487: “il principio secondo cui le decisioni di incostituzionalità di una norma hanno tendenzialmente effetto retroattivo, in quanto si inibisce al giudice del merito di applicare la legge dichiarata incostituzionale…per situazioni e rapporti pur sorti anteriormente alla pronuncia della Corte, vale solo per i rapporti pendenti, e non già per quelli ormai esauriti, insuscettibili, questi ultimi, di essere diversamente regolati ora per allora dal giudice attraverso la disapplicazione della legge dichiarata incostituzionale”. Ora, a parte il fatto che in tale impostazione non è dato sapere con certezza cosa si intenda esattamente per effetto retroattivo – ritenendo comunque probabile che si voglia fare riferimento all’accertamento di illegittimità contenuto nella sentenza e non all’annullamento, perché in questo caso il giudice non avrebbe nulla da disapplicare – c’è da dire che appare evidente l’accoglimento, in linea di principio, della teoria della disapplicazione della legge, in un ordine di fattispecie in cui la disapplicazione diventa l’unico strumento utilizzabile per non applicare la legge dichiarata incostituzionale. Per A. ROMANO, Le fonti del Diritto Amministrativo, in MAZZAROLLI, PERICU, A. ROMANO, ROVERSI MONACO, SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 128, l’art. 30, comma 3, della l. 11 marzo 1953 n. 87 (norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale) interpreta l’art. 136 Cost. (la norma dichiarata incostituzionale “…cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), “precisando che la norma dichiarata incostituzionale, dal giorno suddetto non può <<avere applicazione>>: in particolare, in giudizio. Il che implica che non possa regolare neppure casi verificatisi anteriormente alla sentenza della Corte (come, del resto, è per definizione quello in ordine al quale sia stata sollevata la relativa questione): quando sia ancora aperto il problema, appunto, di una sua applicazione ad essi; ossia, nei giudizi ancora pendenti, o, comunque, quando non siano trascorsi i termini di prescrizione o di decadenza per le azioni o i ricorsi che richiedano pronunce alla sua stregua, o non si sia ancora formato, a loro conclusione, addirittura un giudicato (ma non penale di condanna…)”.
[15] Vedi in questo senso Cons. St., sez. IV, 27 marzo 2002 n. 1734, in Foro amm. – CdS, 2002, 658: “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma esplica effetti vincolanti dal giorno successivo alla sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, salvo che nei casi in cui i rapporti pregressi e le situazioni giuridiche siano ancora pendenti, permanendo, per questi, la possibilità di una pronuncia giurisdizionale basata sulla disapplicazione della norma di legge dichiarata incostituzionale”. Cfr. anche Tar Puglia, Sez, Bari, 30 settembre 1982 n. 410, in Foro amm., 1983, I, 2455: “ancorchè gli atti amministrativi, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, non vengano travolti dalla cessazione di efficacia della legge, sulla quale si fondano, dovuta a dichiarazione di illegittimità costituzionale, il giudice amministrativo ha il potere di rilevare, anche d’ufficio, i vizi riflessi derivanti all’atto impugnato dalla norma dichiarata incostituzionale, anche quando l’eccezione di costituzionalità non sia stata sollevata dalla parte interessata nel corso del giudizio”. Come rilevato da GUARINO, op. cit., 375, commentando quello che da lì a breve sarebbe diventato l’articolo 30, comma 3°, della legge cost. n.1/1948, la norma contenuta in detto articolo – secondo cui “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” – “deve considerarsi superflua, deducendosi i medesimi effetti, che essa si propone di raggiungere, dai principii dell’efficacia panprocessuale della decisione e dell’obbligo dei giudici di disapplicare la legge, la cui illegittimità sia stata definitivamente accertata dalla Corte”.
[16] Così Cons. St., sez. VI, 19 giugno 2001 n. 3237, in Foro amm., 2001, 1625. Cfr. anche Id., sez. IV, 22 marzo 2001 n. 1695, in Foro amm., 2001, 406: “il venir meno del presupposto normativo di un atto (nella specie declaratoria di incostituzionalità) non ne comporta la caducazione ipso iure, essendo comunque necessaria la sua rimozione con un provvedimento giurisdizionale o in via di autotutela”. Per CASETTA, Manuale di Diritto Amministrativo, Milano, 2000, 504: “non si tratta, se non in apparenza, di illegittimità sopravvenuta nella ipotesi di sentenza della Corte Costituzionale che abbia dichiarato l’illegittimità di norme sul cui fondamento sia stato emanato un provvedimento…”. In tale situazione, “l’atto va infatti qualificato come originariamente invalido in quanto già al momento della sua emanazione l’azione amministrativa non si profilava conforme al paradigma normativo, pur se il contrasto…non poteva ancora emergere perché non ancora accertato”. Contra, CERULLI IRELLI, Corso di Diritto Amministrativo, Torino, 2001, 564: “in tali casi, a causa della retroattività delle norme sopravvenute, l’atto amministrativo precedentemente assunto si può trovare in situazione di obiettiva invalidità, ciò che lo espone alle conseguenze derivanti dall’applicazione del relativo regime giuridico (potrà essere impugnato da parte degli interessati, annullato d’ufficio, ecc.)”.
[17] Cfr. op. cit., 364, in fine.
[18] Cfr. op. cit., 366.
[19] Si trascurano, in questa sede, i problemi legati alla determinazione della normativa applicabile a seguito della pronuncia di incostituzionalità, sia nei casi in cui il giudice disapplichi la legge illegittima, sia qualora si limiti ad accertarne l’avvenuta abrogazione, ponendosi, in entrambi i casi, uguali questioni interpretative. Sembra comunque di poter dire, che sia la disapplicazione che l’abrogazione portano alla riapplicazione della legge precedente, cioè di quella anteriore a quella dichiarata incostituzionale, in conseguenza del fatto che l’accertamento di illegittimità comprende anche gli eventuali effetti abrogativi che la legge avesse esplicato nei confronti di una legge precedente. Presupposto essenziale perché questo accada, però, è che la legge successiva fosse viziata ab origine, cioè che la Corte abbia riscontrato una invalidità originaria. Nel caso in cui, invece, la Corte abbia accertato la invalidità di una legge per una causa posteriore alla sua entrata in vigore, non si avrà la riapplicazione della norma preesistente, ma una carenza di norme legislative specifiche sulla materia, cioè un vuoto normativo, da riempirsi dal giudice con l’analogia o risalendo ai principii generali vigenti. Contrario a tale conclusione, invece, SANDULLI, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte Costituzionale, cit., 563, il quale afferma che, “una volta <<calate>> nel sistema, le singole norme vivono di vita autonoma, o meglio si integrano nel sistema indipendentemente l’una dalle altre”, per cui “non è affatto vero che la caducazione…debba necessariamente importare la caducazione della norma abrogante, che ad esse (altre norme) si accompagnava, e quindi la reviviscenza delle norme a suo tempo da questa abrogate”.
[20] Vedi CANNADA-BARTOLI, L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 38 s.s.
[21] Così si è talvolta giustamente precisato che “non dà luogo ad un’ipotesi di disapplicazione dell’atto amministrativo e non travalica i limiti della propria giurisdizione il giudice ordinario che accerti la giuridica inesistenza di un atto amministrativo (nella specie, improduttivo di effetti per l’incompletezza della fattispecie costitutiva)”: Cass. Civ., Sez. un., 25 luglio 1980 n. 4823, in Giust. civ., 1980, I, 2656.
[22] Con una decisione in termini molto generali ed applicabili ad entrambe le fattispecie considerate, seppure probabilmente ricavati da presupposti diversi da quelli seguiti nel testo, si è in giurisprudenza affermato che “una volta che una norma di legge venga annullata dalla Corte Costituzionale…, l’efficacia erga omnes della relativa pronuncia impone ad ogni giudice di astenersi dal fare applicazione della norma stessa, con conseguente illegittimità dell’atto amministrativo di cui debba conoscere che su di essa si fondi” : così Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 1984 n. 121, in Cons. St., 1984, I, 168.
[23] Così GUARINO, op. cit., 376.
[24] In questi termini SANDULLI, Manuale, cit., 690, il quale equipara sotto questo profilo le sentenze della Corte Costituzionale a quelle del Consiglio di Stato, ritenendo però che la sentenza che abbia dichiarato illegittima una norma di carattere generale sia operativa ex tunc, e abbia quindi carattere di annullamento. La soluzione prospettata nel testo, invece, oltre che rimettere tutto alla scelta degli interessati, cioè alle parti del rapporto, rende comunque possibile, cioè eventuale, la disapplicazione della legge, alla quale il giudice sarà comunque obbligato, se richiesto, in virtù del fatto che la Corte ha in ogni caso accertato l’invalidità originaria della legge stessa. Accertamento che comunque, a prescindere dagli effetti specifici che la sentenza esplichi, vincola ogni giudice. Vedi invece Tar Campania, Sez. V Napoli, 18 gennaio 1994 n. 9, in Foro amm., 1994, 1928: “il venir meno della norma dichiarata incostituzionale…non rende di per sé invalido l’atto amministrativo applicativo della stessa norma; l’atto, infatti, continua a produrre effetti sino al suo annullamento, costituendo la mancanza di fondamento normativo (originaria o sopravvenuta) causa di annullabilità per violazione di legge”. In base a quanto detto nel testo, non sembra però che la circostanza che l’atto continui a produrre i suoi effetti possa significare, di per sé, come invece si sostiene in sentenza, la validità dell’atto stesso. Sembra trascurare il principio jura novit curia Cons. St., sez. IV, 20 marzo 2000 n. 1495, in Foro amm., 2000, 844, laddove afferma che “il giudice amministrativo deve applicare d’ufficio la nuova norma di legge risultante da una sopravvenuta sentenza d’incostituzionalità, solo qualora essa sarebbe stata comunque, alla stregua dei motivi di ricorso, parametro di legittimità dell’atto impugnato e non già se essa invece non era mai stata invocata dal ricorrente in primo grado”.
[25] Sembra che si sia voluto esprimere tale posizione, anche se con riferimento all’annullamento dell’atto, quando si è affermato che nell’ipotesi in cui l’atto impugnato “sia fondato su una norma di legge in contrasto con la Costituzione, rispetto a questa norma giustificativa del potere della pubblica Amministrazione può essere proposta la questione di legittimità costituzionale alla Corte Costituzionale”: così Cons. Stato, Sez. VI, 30 dicembre 1958 n. 1017, in Giur. Cost., 1959, 517. Più di recente, nella stessa ottica, si è affermato che “l’eventuale incostituzionalità delle disposizioni di legge, cui l’organo di controllo è tenuto ad uniformare la propria attività, può essere fatta valere dai privati incisi da atti amministrativi conseguenti alle suddette previsioni legislative, ma non può comportare l’esercizio del potere di disapplicazione da parte dell’Autorità amministrativa”: così Tar Sardegna, 19 giugno 1987 n. 476, in I Tar, 1987, I, 3205. Analogamente si è espresso Tar Lazio, Sez. I, 26 gennaio 1987 n. 165, in Foro amm., 1987, 1887. Interessante, nel contesto interpretativo esposto, la pronuncia resa da Corte Cost., 4 giugno 1997 n. 163, in Cons. St., 1997, II, 849, che precisa come “anche un atto giurisdizionale…si presta a dare origine ad un conflitto di attribuzione da parte della Regione, allorchè la pronuncia giurisdizionale espressamente dichiari di disapplicare una legge regionale”. Analogamente, Cass. Civ., Sez. III, 28 marzo 1997 n. 2771.
[26] Analoga posizione è stata assunta – con riferimento alla possibilità o meno di disapplicare per la p. A. – da Cons. St., Sez. III, 29 marzo 1994 n. 986, in Cons. St., 1996, I, 1280, essendosi affermato che “legittimamente è respinta una domanda di reinquadramento, ai fini pensionistici, in base a sopravvenute disposizioni riguardanti altre categorie di dipendenti, poiché la p.a. non può disapplicare una legge, per pretesa disparità di trattamento, nell’ambito dell’ampio <genus> dei dipendenti statali, in mancanza di una sentenza della Corte Costituzionale che abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma da applicare”. Vedi anche Id., Sez. V, 19 febbraio 1996 n. 211, in Giur. it., 1996, III, 1, 333: “le prescrizioni urbanistiche, sopravvenute dopo la presentazione dell’istanza di concessione edilizia, non possono essere legittimamente ignorate o eluse dalla p.a. procedente nel momento in cui si provvede su detta istanza, non potendosi mai ammettere disapplicazioni del nuovo strumento urbanistico…”.
[27] Significativo è il fatto che già in un periodo in cui non esisteva la Corte Costituzionale, nè fosse imminente la sua istituzione, si fosse esplicitamente affermata la possibilità di un sindacato sostanziale del giudice sulla validità delle leggi, e, sebbene solo implicitamente, ammessa la disapplicazione della legge invalida: vedi C. ESPOSITO, La validità delle leggi, Padova, 1934, 28. L’Autore, infatti, affermava già che, “d’altra parte, raggiunta la convinzione sulla invalidità della legge, non occorre all’organo giurisdizionale alcun mezzo speciale per far valere la sua convinzione, essendo bastevole che egli proceda semplicemente alla decisione, applicando le altre leggi valide”. Lo stesso SANDULLI, Natura, funzione ed effetti delle pronunce della Corte Costituzionale, cit., 555, osservava come sia noto che, “pur mancando espresse disposizioni in tal senso, già prima della Costituzione vigente erano ammessi nel nostro ordinamento il sindacato e la disapplicazione delle leggi illegittime da parte dei giudici”. LA VALLE, op. cit., 148, ha evidenziato delle ipotesi in cui al giudice sarebbe dato disapplicare atti normativi primari, quali i regolamenti comunitari, la competenza a conoscere dei quali appartiene alla Corte di Giustizia della Comunità europea. LA VALLE rileva che dai trattati istitutivi delle Comunità europee si desume che la competenza sulla questione pregiudiziale di validità di una norma regolamentare appartiene esclusivamente alla Corte europea solamente nel caso in cui avverso la decisione del giudice nazionale, davanti al quale è sorta la questione pregiudiziale, <<non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno>>; negli altri casi, potrà aversi “una cognitio incidenter tantum, ai fini della disapplicazione del regolamento comunitario e con efficacia limitata al caso deciso”. Ora, precisa l’Autore con riferimento al giudizio amministrativo, “quando in tale giudizio venga proposto un motivo (di ricorso) fondantesi sulla dedotta invalidità di un regolamento comunitario, se si tratti del Consiglio di Stato questi dovrà…., salva la delibazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza, deferire in ogni caso la questione alla Corte europea e sospendere il giudizio; invece, se si tratti di un giudice amministrativo sottordinato, questi potrà anche direttamente procedere alla cognizione incidentale del regolamento, e, accertatane l’invalidità, disapplicarlo”.
[28] Sia in dottrina che nella casistica si è posto il problema della configurazione da dare ad una legge che, nel testo promulgato, diverga da quello approvato da una delle due Camere. In dottrina vedi, specificamente sul punto, A. A. CERVATI, Il controllo di costituzionalità sui vizi del procedimento legislativo parlamentare, in alcune recenti pronunce della Corte Costituzionale – in Scritti sulla giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, vol. I, Padova, 1985, 194, in fine, il quale afferma invece che “la Corte Costituzionale dovrebbe pertanto stabilire caso per caso il limite tra legge incostituzionale e legge radicalmente nulla o inesistente, in relazione all’effettiva (ed obiettiva) formazione di una almeno parziale volontà convergente delle Camere sui singoli punti controversi”.
[29] Sull’argomento vedi GUARINO, Profili costituzionali, amministrativi e processuali delle leggi per l’Altopiano silano e sulla riforma agraria e fondiaria, in Foro it., 1952, IV, 76 s.s. In questo stesso senso AZZARITI – Le controversie sulla legittimità costituzionale dei decreti delegati, in Foro it., 1952, IV, 33 – ha anche affermato che, poiché i decreti delegati sono emanati da autorità amministrative, essi “sono di per sè formalmente atti amministrativi”, i quali acquistano valore di legge solo per effetto della delegazione. “Di conseguenza, se una valida delegazione non esiste, l’atto emanato dal Governo non ha valore di legge, ma conserva il carattere proprio di atto amministrativo. Egualmente, anche nel caso che vi sia una valida delegazione, se l’atto delegato non è rimasto nei limiti della medesima, esso, in quanto esorbiti dai detti limiti, non ha valore di legge e conserva il suo carattere originario di atto amministrativo”.
[30] Cfr. GUARINO, op. ult. cit., 86, 90.
[31] Del resto lo stesso GUARINO, nello scritto appena citato, nonostante affermi che “anche l’art.1 della legge cost. n.1 non costituisce un ostacolo all’impugnativa diretta dei decreti di esproprio, se i proprietari possono dimostrare di aver ricevuto da essi un danno personale, concreto, attuale”, e che i Costituenti “dettero per pacifico che l’azione può essere promossa anche direttamente contro la legge, se direttamente dalla legge è provenuto il danno”, precisa però che nel testo definitivo licenziato dall’Assemblea parlamentare non fu accolto quell’emendamento tendente ad introdurre la possibilità di un ricorso diretto contro la legge, con la conseguenza che anche quando il singolo abbia un concreto interesse a ricorrere egli non può adire direttamente la Corte e deve rivolgersi al giudice competente; e ciò, precisa Guarino, a causa del fatto che “il ricorso è incidentale, perché la questione di costituzionalità si innesta necessariamente nella questione dell’applicazione della legge ad un caso concreto”. Vale a dire che l’art.1 della legge costituzionale n.1 del 1948 afferma espressamente che la questione di costituzionalità debba sorgere “nel corso di un giudizio”.
[32] Così GUARINO, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, cit., 362. Cfr. anche ALESSI, Spunti in tema di pregiudizialità nel processo amministrativo, ne Il processo amministrativo, Milano, 1979, 8, il quale esprime una posizione singolare, in quanto, sebbene affermi, rifacendosi proprio alle posizioni di Guarino, che “appare fondata l’affermazione che il principio della disapplicazione da parte di un giudice dei provvedimenti illegittimi rappresenta un principio generale del nostro ordinamento”, conseguenza del fatto che l’art. 5 della legge sul contenzioso va considerato una applicazione della regola secondo la quale il principio di legalità non può comunque venir meno, precisa tuttavia come ciò accada soltanto “nei rapporti tra Amministrazione e Autorità giudiziaria”; per quanto riguarda gli amministrati, invece, essi vanno considerati “soggetti passivi della funzione amministrativa”, e nei loro confronti vale “il principio di autorità da riconoscersi a favore dell’Amministrazione pubblica”, il quale principio non opera invece nei confronti di qualsiasi organo esplicante funzioni giurisdizionali. Ora, a parte il rilievo per cui Guarino afferma il principio della necessaria sindacabilità non tanto dei provvedimenti illegittimi, quanto, più in generale, degli atti dei pubblici poteri illegittimi, c’è da dire invece che la singolarità è costituita dal dato per cui, evidentemente, dell’osservanza di tale principio di legalità l’Amministrazione, nei confronti dei privati, potrebbe, nell’esplicazione delle proprie potestà amministrative, fare tranquillamente a meno.
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