La Suprema Corte torna ad occuparsi del corretto riparto dell’onere della prova in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, confermando il principio per cui il paziente, che agisce in giudizio per il risarcimento del danno da colpa medica, ha l’onere di provare il nesso di causalità tra la malattia, il suo aggravamento ovvero la nuova patologia e la condotta commissiva o omissiva dei medici.
Una volta provato l’anzidetto nesso di causalità, spetta alla struttura sanitaria provare che la prestazione medica dovuta risultava impossibile per causa alla stessa non imputabile ovvero che l’inadempimento è stato causato da una evenienza imprevedibile, oltre che inevitabile, con la comune diligenza.
Questi i postulati di diritto confermati dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7044, depositata in data 21 Marzo 2018.
Due coniugi evocavano in giudizio l’azienda sanitaria locale ed alcuni medici del presidio ospedaliero per sentirli condannare al risarcimento del danno alla salute della figlia nascitura e, in particolare, per le gravi patologie cerebrali contratte in dipendenza del ritardo con cui era stato effettuato il parto cesareo, con conseguente sofferenza fetale.
Il Tribunale prima, e la Corte d’Appello di Firenze poi, rigettavano la domanda dei genitori sulla scorta della disposta consulenza tecnica d‘ufficio dalla quale era emerso come in capo ai medici non era riscontrabile alcuna negligenza, imperizia ed imprudenza”, ma neppure sussisteva “relazione e nesso causale tra le lesioni e gli esiti invalidanti subiti dalla bambina e la condotta dei medici”, di talché l’evento dannoso patito non sarebbe connesso “causalmente o concausalmente ad un inadempimento della struttura ospedaliera per inadeguata organizzazione del servizio”.
Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione i genitori soccombenti eccependo, tra l’altro, la violazione e/o falsa applicazione degli art. 1176, 1218 e 2697 Cc, per errata applicazione dei principi in punto di nesso di causalità e di onere probatorio”.
A dire dei ricorrenti, infatti, il giudice di merito avrebbe invertito l’onere probatorio, quand’anche in mancanza di elementi tali da far ritenere che la patologia cerebrale si fosse verificata prima del parto, spettando invece ai medici e alla azienda sanitaria la prova in relazione all’assenza di inadempimento da parte degli stessi.
La Corte di Cassazione rileva come il motivo risulta in parte inammissibile e, comunque, infondato, non avendo la corte territoriale operato alcun inversione dell’onere probatorio.
Nel far ciò ricorda il principio per cui (anche) in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. n. 18392/2017; sull’onere di prova del nesso causale anzidetto in capo al paziente proprio in fattispecie di danno causato da ipossia neonatale, cfr. anche Cass. n. 11789/2016 e Cass. n. 12686/2011).
Pertanto, il ricorso viene rigettato e i ricorrenti condannati a pagare, in solido tra loro, le spese del giudizio di legittimità.
Per completezza vale la pena ricordare come, in tema di onere probatorio nei giudizi di responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata. (Cass. n. 29315/2017)
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Più nello specifico, con particolare riferimento al caso, sempre più frequente, del cd. danno da nascita indesiderata, è stato stabilito come il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale. (Cass. n. 25849/2017. Nello stesso senso: Cass., Sez. Unite n. 25767/2015).
Fermo restando che l’omessa o incompleta tenuta della cartella clinica non può mai riverberare gli effetti negativi in capo al paziente, atteso che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. (Cass. n. 6209/2016).
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