La questione
Sebbene vi siano esempi risalenti già agli anni Novanta dello scorso secolo, il fenomeno dei protocolli di intesa cui partecipano uffici giudiziari è esploso fino a diventare massivo solo di recente.
Questa nuova tendenza accomuna uffici requirenti e giudicanti, di merito e di legittimità.
È quindi un fatto trasversale che interessa l’intero mondo giudiziario.
È ugualmente ampia la platea degli altri partecipanti ai protocolli: corti sovranazionali[1], amministrazioni pubbliche[2], authorities[3], enti territoriali[4], ordini professionali[5], istituzioni sanitarie pubbliche[6], enti con competenze in materia ambientale[7], ONLUS[8] e così via.
Altrettanto vario è l’oggetto: affermazioni simboliche di valori, accordi di collaborazione scientifica, stage formativi, modalità di redazione di atti giudiziari o di gestione di adempimenti procedimentali, messa a disposizione di personale munito di specifiche competenze professionali, accesso a banche dati, scambio di dati sensibili, conduzione condivisa di attività.
La stessa flessibilità si può riscontrare quanto all’intensità dei vincoli che derivano dai protocolli: in alcuni casi semplici dichiarazioni di intenti, in altri facoltà, in altri ancora veri e propri obblighi.
Si è in presenza quindi di un contesto elastico e, proprio a causa della sua relativa novità, non ancora completamente strutturato e con ampi margini di flessibilità, sul quale è quantomai opportuno riflettere.
Alcuni protocolli di intesa – tra di essi, in particolare, quelli stipulati tra uffici giudiziari ed altre pubbliche amministrazioni sui quali è essenzialmente focalizzato questo scritto – contengono infatti regolamentazioni che impegnano gli uffici stessi che li hanno sottoscritti a compiere o omettere determinate attività proprie della loro funzione il che genera conseguenze di non poco conto nei procedimenti dei quali essi hanno la responsabilità e produce, direttamente o indirettamente, effetti sulle parti dei procedimenti medesimi.
Non solo: un protocollo impegna solo le parti che vi aderiscono con la conseguenza che nelle materie che ne formano oggetto gli uffici giudiziari interessati gestiscono i loro adempimenti in modo congruo alla regolamentazione condivisa, gli altri possono ignorarla. L’esercizio di alcune funzioni giudiziarie potrebbe essere quindi disomogeneo sul territorio nazionale.
I protocolli tra p.a.
… La fonte normativa
La norma interna che legittima i protocolli di intesa tra pubbliche amministrazioni è agevolmente identificabile nell’art. 15 comma 1 della Legge 241/1990, intitolata «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi».
Questa disposizione, non a caso richiamata dalla maggior parte dei protocolli presi in considerazione, consente appunto alle p.a. di «concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune», anche al di fuori delle ipotesi regolate dal precedente art. 14 che istituisce la conferenza di servizi e precisa i casi ai quali questo istituto è applicabile.
La giurisdizione in materia, ai sensi dell’art. 133 comma 1 lettera a.2 del Codice del processo amministrativo, è attribuita in via esclusiva al giudice amministrativo.
… Le finalità e l’oggetto
La vaghezza della formula descrittiva usata dall’art. 15 ha fatto sì che le p.a. si siano servite dell’istituto per una congerie di scopi e in una pluralità di materie.
Quest’ampiezza applicativa ha favorito l’insorgere di controversie e dubbi cui sono seguiti chiarimenti in sede amministrativa e giurisdizionale.
Merita di essere segnalato in quest’ambito un parere dell’Autorità Anticorruzione (ANAC)[9] che ha fra l’altro il pregio di una ricognizione complessiva della materia e dei principi affermati dalla giurisprudenza, compresa quella sovranazionale.
È bene comunque ricordare che il parere in esame non è vincolante. Ne dà atto la stessa ANAC nel Regolamento del 20 luglio 2016 riguardante «l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 6 novembre 2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso».
Nella premessa di tale regolamento si riconosce infatti che «la funzione consultiva attribuita all’Autorità Nazionale Anticorruzione debba essere considerata strettamente connessa con le riconosciute funzioni di vigilanza, in quanto volta a fornire indicazioni ex ante e ad orientare l’attività alle amministrazioni, nel pieno rispetto della discrezionalità che le caratterizza».
Nella visione dell’ANAC, l’art. 15 della Legge 241/1990 «prefigura un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l’esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico, ossia in forma di reciproca collaborazione, in maniera gratuita e nell’obiettivo comune di fornire servizi indistintamente a favore della collettività».
L’Autorità ha messo a fuoco, rifacendosi ad alcune pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea[10], ulteriori e necessarie caratterizzazioni: l’accordo deve regolare un interesse pubblico comune ai partecipanti e deve prevedere una reale divisione di compiti e responsabilità.
Il parere, ancora una volta richiamandosi alla CGUE[11], giunge ad affermare che «Visti nel prisma del diritto europeo, dunque, gli accordi tra PA sono necessariamente quelli aventi la finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto privato (…) il contenuto e la funzione elettiva di tali accordi è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti (…) Negli accordi tra amministrazioni pubbliche ex art. 15 l. 241/1990, dunque, assume rilievo la posizione di equiordinazione tra le stesse, al fine di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune e non di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale; occorre, in sostanza, una “sinergica convergenza” su attività di interesse comune, pur nella diversità del fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione».
L’apporto interpretativo dell’ANAC aggiunge dunque un po’ di sostanza alle scarne note legislative: p.a. poste su un piano di parità, coordinamento di distinte funzioni proprie in vista di un obiettivo comune, attività non regolamentabili in accordi di natura privatistica.
… La natura e gli effetti giuridici
I protocolli di intesa sono una tra le tante denominazioni (assieme a patti, convenzioni, contratti, intese, accordi e altre ancora) utilizzate nel linguaggio normativo e nella prassi per identificare i rapporti convenzionali tra le p.a.
Il citato art. 15 li assoggetta alle disposizioni previste dai commi 2 e 3 dell’art. 11, in quanto applicabili.
Ciò implica la forma scritta ad substantiam, l’obbligo di motivazione e l’applicazione, se non diversamente previsto, dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili.
Non è stato invece richiamato il successivo comma 4 il quale chiarisce che «Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato».
Come spesso accade nell’interpretazione giuridica, all’omesso richiamo della facoltà di recesso sono stati attribuiti significati differenti e diametralmente opposti: l’intangibilità dell’accordo (si veda TAR Lazio, sez. 1^, sentenza 1434/1997) ovvero, al contrario (TAR Marche, sentenza 1015/2003), l’esistenza comunque di una facoltà di recesso «considerato che è proprio della funzione d’amministrazione attiva il generale potere di revoca del provvedimento amministrativo, del quale l’accordo ha il contenuto ed al quale è sottesa la cura di un pubblico interesse, per cui è affievolita la forza vincolante di una convenzione sottoscritta da soggetti pubblici ed è reso inapplicabile il principio civilistico per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, e che la previsione dell’art. 11 comma 4, è confermativa e non derogatoria di detta regola generale», ovvero infine una posizione intermedia che ritiene possibile il recesso da un accordo tra p.a. solo se espressamente previsto dalla convenzione tra le parti (TAR Lombardia, Milano, sez. 1^, 5620/2004 e, più di recente, TAR Lombardia, Brescia, sez. 1^ sentenza 1635/2010).
Quest’ultima posizione risulta la più convincente, coniugando efficacemente «l’inesauribilità della funzione amministrativa, che non tollera l’imposizione di un vincolo a non riesaminare l’assetto di interessi concordato alla luce delle sopravvenienze nell’interesse pubblico, e (dall’altro) la necessità di attribuire un senso agli accordi che, se fossero liberamente recedibili, sarebbero sostanzialmente privi di rilevanza giuridica», e la più conforme ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 121/2010 secondo la quale è «incompatibile con il regime dell’intesa, caratterizzata dalla paritaria codeterminazione dell’atto ”attribuire ad una di esse un ruolo preminente, in quanto il superamento delle eventuali situazioni di stallo deve essere realizzato attraverso la previsione di idonee procedure perché possano aver luogo reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo”».
Sono queste allora le premesse normative e interpretative cui attingere per comprendere quale natura giuridica attribuire agli accordi tra p.a. e quali effetti ne possono derivare[12].
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Esistono ragioni piuttosto cospicue per escludere la loro natura privatistica, cioè meramente contrattuale.
L’assenza della libera recedibilità, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’esistenza di parti non alla ricerca di una sintesi tra interessi contrapposti ma disponibili a collaborare per un fine pubblico comune, l’applicabilità condizionata dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti, sono elementi che portano a sconfessare la tesi privatistica.
Sembra quindi potersi concludere che il legislatore abbia avvertito «l’esigenza di una peculiare figura convenzionale, delineata come lo strumento giuridico più adatto alla realizzazione di una forma di coordinamento dell’azione di più amministrazioni pubbliche per il soddisfacimento del pubblico interesse e idoneo a dare un assetto, in un quadro unitario, agli interessi pubblici di cui ciascuna amministrazione sia portatrice»[13].
Gli uffici giudiziari come pubbliche amministrazioni
La vigente definizione normativa di pubbliche amministrazioni è contenuta nell’art. 1 comma 2 del D. Lgs. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego) a norma del quale, per ciò che qui interessa, sono tali tutte le amministrazioni dello Stato.
Di pari rilievo sono le norme (in particolare artt. 1, 2 e 4 del capo I del Titolo I) del Regio Decreto 12/1941 (Ordinamento giudiziario) che elencano le autorità alle quali è affidata l’amministrazione della giustizia e che fanno parte dell’ordine giudiziario.
Dal complesso di queste norme risulta evidente che gli uffici giudiziari sono indiscutibilmente pubbliche amministrazioni sia nelle loro articolazioni centrali che in quelle periferiche.
… La nozione di p.a. e l’esercizio di funzioni giurisdizionali
Il 23 maggio 2012 il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha emesso la circolare 5/2012 avente ad oggetto l’ambito di applicazione dell’art. 40 comma 2 del DPR 445/2000, cioè il corpus normativo che ha avviato il cosiddetto processo di decertificazione.
Il testo vigente dei due primi commi di tale articolo è il seguente:
«1. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47.
- Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi».
Alcune p.a. hanno chiesto chiarimenti sulla portata del secondo comma circa i certificati da depositare nei fascicoli delle cause giudiziarie.
La circolare in esame ha così risposto: «si precisa che la novella introdotta dall’art. 40, comma 02, d.P.R. n. 445 del 2000 – secondo cui le Amministrazioni sono tenute ad apporre sui certificati, a pena di nullità, la dicitura: «Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi» – si applica solo nei rapporti tra Pubbliche amministrazioni (e, nei limiti di cui all’art. 40, d.P.R. n. 445 del 2000, ai gestori di pubblici servizi) tra le quali non sono certamente annoverabili gli Uffici giudiziari quando esercitano attività giurisdizionale. Costituisce, infatti, principio affermato dalla Corte di cassazione che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale (Cass. Civ., sez. lav., 20 dicembre 2010, n. 25800; id. 23 luglio 2010, n. 17358, secondo cui l’autocertificazione costituisce uno strumento previsto dal diritto amministrativo, utilizzabile in via amministrativa e non giudiziaria. Infatti il soggetto, nel corso di una pratica amministrativa, può sotto la propria responsabilità attestare la verità di fatti a sè favorevoli, ma tale regola non può essere estesa al diritto processuale civile, in cui rimane ferma la regola dell’onere della prova; id., sez. V, 15 gennaio 2007, n. 703)».
La circolare, sebbene volta a regolare un tema di dettaglio e in ogni caso non decisiva in sé, esprime comunque un principio largamente condivisibile, quello per cui il concetto di pubblica amministrazione può essere declinato solo affiancandolo a funzioni comprese nella sfera propria del potere esecutivo, restando per contro esclusa la possibilità di associarlo a funzioni tipiche della sfera giurisdizionale e, di conseguenza, la possibilità di attribuire natura amministrativa agli atti tipici della giurisdizione.
Serve precisare che nella prospettiva penalistica la nozione di giurisdizione deve essere intesa in senso ampio: non solo il complesso degli atti propri del giudizio in senso stretto e quindi spettanti al giudice ma anche gli altri preliminari o successivi al giudizio che ne pongono le premesse o ne attuano le conseguenze.
In altri termini, deve essere attratto nell’alveo giurisdizionale il complesso delle funzioni e degli atti che l’ordinamento attribuisce al pubblico ministero nella sua veste di parte pubblica del procedimento penale, di responsabile dell’attività inquirente e dell’esecuzione della pena, di titolare di cospicui poteri strumentali ai suoi fini istituzionali.
Qualunque differente conclusione introdurrebbe insuperabili aporie di sistema e, soprattutto, sconfesserebbe l’essenza del modello procedimentale voluto dal legislatore, la sua scansione in fasi e gradi tutti necessari, nessuno da solo sufficiente, e soprattutto l’indispensabile divenire del processo e dell’approssimazione progressiva alla conoscenza che ne giustificherà l’esito finale.
Se, ad esempio, un ufficio del pubblico ministero fosse legittimato a stipulare intese che vincolino in un qualsiasi aspetto le sue prerogative in ordine alla ricerca degli elementi di prova, condizionerebbe per ciò stesso non solo il risultato della sua attività ma anche la sua ricaduta nelle successive fasi procedimentali, così influendo indebitamente su sfere proprie di altri uffici giudiziari.
Sicché, sembra potersi affermare conclusivamente che nessun ufficio giudiziario può stipulare protocolli di intesa che tendano a regolamentare e per ciò stesso vincolare funzioni e atti ascrivibili alla sfera giurisdizionale intesa lato sensu, per la semplice ed essenziale ragione che quando agisce all’interno di tale sfera non è una p.a. e non può servirsi della facoltà attribuita dall’art. 15 della L. 241/1990.
Alcuni casi di protocolli di intesa tra p.a. cui hanno partecipato uffici giudiziari
Si vogliono adesso esaminare, alla luce delle coordinate tracciate nei paragrafi precedenti, alcuni casi concreti di protocolli d’intesa d’interesse giudiziario.
Sono stati selezionati tra gli altri sulla base di alcune caratteristiche comuni: vi sono intervenuti uffici giudiziari come parti, il loro oggetto è strettamente connesso ad attività tipiche della sfera giurisdizionale di tali uffici, la regolamentazione convenuta genera effetti vincolanti per le parti stipulanti.
… Protocollo d’intesa stipulato il 10 gennaio 2018 tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma
L’accordo[14] è stipulato ai sensi dell’art. 15 comma 1 della L. 241/1990 e individua come suo ambito i procedimenti di cui agli artt. 14 e 21-bis della L. 287/1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) e di cui agli artt. 27 e 66 del D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo).
Le parti agiscono allo scopo di scambiare «informazioni attinenti a indagini, procedimenti penali e amministrativi di rispettiva competenza» e adottano linee guida cui uniformare la loro collaborazione.
La Procura può inviare all’AGCM, d’ufficio o a richiesta, «copia delle richieste di applicazione di misure cautelari o delle richieste di rinvio a giudizio corredate dai conseguenti provvedimenti del giudice e dagli atti investigativi che le hanno supportate, ove ostensibili, relativamente ai reati che interessano in particolare il corretto funzionamento del mercato (quali, a titolo esemplificativo, quelli previsti dagli artt. 353-354 del codice penale) ovvero che incidono in misura rilevante sugli interessi economici dei consumatori (ad es. quelli previsti dall’art. 640 del codice penale, che per natura, impatto e dimensione della condotta riguardino la generalità dei consumatori), laddove riferiti alle imprese o alle persone fisiche alle stesse riconducibili. Le trasmissioni e le richieste possono riguardare anche altri atti investigativi, ove ostensibili».
A sua volta l’AGCM, «Nei casi in cui la Procura, anche tramite gli Uffici di Polizia Giudiziaria operanti presso di essa, rivolga all’AGCM richieste di informazioni ovvero richieste di documentazione, volte a conoscere eventuali attività espletate o provvedimenti resi dall’Autorità in relazione al caso oggetto di indagine, l’AGCM trasmette tempestivamente le informazioni ovvero la documentazione richiesta. Tali richieste potranno riguardare anche la fase pre-istruttoria e, laddove concernenti documentazione inerente la domanda di clemenza depositata da un’impresa, previa tempestiva informativa, le Parti si coordinano al fine di salvaguardare l’efficacia delle rispettive indagini. La Procura potrà altresì richiedere all’AGCM informative su tematiche di particolare interesse affrontate nell’ambito della sua attività di enforcement».
Ed ancora, «In tutti i casi in cui dall’attività istruttoria e/o ispettiva dell’AGCM in materia di tutela della concorrenza o di tutela del consumatore, fuori dai casi di comunicazioni anonime, emergano condotte aventi rilievo penale, l’AGCM ne trasmette comunicazione senza indugio alla Procura, comunicando lo stato del procedimento, i tempi attesi di conclusione dello stesso e, successivamente, gli esiti dei propri accertamenti, corredati dagli atti istruttori, al fine di consentire un tempestivo avvio delle indagini. In questi casi le Parti concorderanno, se necessario, modalità di intervento più opportune al fine di non compromettere il c.d. effetto sorpresa delle attività giudiziarie o amministrative. In particolare, nell’ambito della propria attività di vigilanza in materia di concorrenza, l’AGCM informa tempestivamente la Procura delle domande di clemenza ricevute da cui emergano fatti delittuosi contro la Pubblica Amministrazione, procedendo ad un coordinamento al fine di salvaguardare l’efficacia del programma di clemenza e la speditezza delle indagini penali e al fine di mettere a disposizione dell’Autorità giudiziaria ogni elemento utile per valutare le condotte successive al fatto, poste in essere dalle imprese e dai singoli individui».
Si prevede infine che l’accordo abbia validità quinquennale, possa essere rinnovato se vi è accordo tra le parti, ovvero integrato o modificato prima della scadenza, sempre se vi sia una comune volontà in tal senso.
Le parti si impegnano a rispettare i principi di correttezza, liceità, trasparenza e segreto istruttorio, le disposizioni del Codice in materia di protezione dei dati personali e le linee guida emesse dal Garante della Privacy.
Alcuni aspetti di questa complessiva regolamentazione meritano particolare attenzione.
Si rileva anzitutto una palese asimmetria nella posizione delle parti.
L’AGCM assume un obbligo di segnalazione e informazione al quale si contrappone la mera facoltà della Procura di compiere a favore della controparte analoghe attività.
Ancora: l’accordo di scambio comprende la facoltà della Procura di comunicare all’AGCM atti compiuti nella fase delle indagini preliminari.
La Procura può infatti inviare, tra l’altro, le richieste di applicazione di misure cautelari, gli atti investigativi che ne costituiscono il fondamento, i provvedimenti conseguenti del giudice e qualsiasi altro atto investigativo, purchè ostensibili.
Il concetto di ostensibilità, che rimanda a ciò che si può legittimamente mostrare, è ricavabile di risulta dall’art. 329 comma 1 c.p.p. (nel testo recentemente modificato dal D. Lgs. 216/2017) per effetto del quale «Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari».
Lo stesso articolo ammette deroghe al regime ordinario.
Il PM ha infatti la facoltà (art. 329 comma 2) di consentire la pubblicazione di singoli atti o di parti di essi se ne ravvisa la necessità per la prosecuzione delle indagini.
Ha inoltre, per lo stesso scopo (art. 329 comma 3), la facoltà di segretare singoli atti non più coperti dal segreto se l’imputato lo consente o se la conoscenza di quegli atti possa ostacolare indagini riguardanti altre persone, nonché di vietare la pubblicazione del contenuto di singoli atti o di notizie specifiche su determinate operazioni.
Sono ugualmente di interesse gli artt. 118 e 118-bis c.p.p.
Il primo consente al Ministro dell’interno di ottenere dall’autorità giudiziaria competente, anche in deroga al divieto posto dall’art. 329, copie di atti di procedimenti penali, informazioni scritte sul loro contenuto e finanche l’accesso al registro delle notizie di reato (RE.GE.), allorché ciò sia ritenuto indispensabile per la prevenzione di delitti per i quali sia obbligatorio l’arresto in flagranza.
L’A.G. competente può trasmettere le copie e le informazioni e consentire l’accesso al RE.GE. anche di propria iniziativa così come può rigettare la richiesta con decreto motivato.
Le copie e le informazioni acquisite dal ministro dell’interno continuano ad essere coperte dal segreto d’ufficio.
L’art. 118-bis consente a sua volta uguale facoltà al Presidente del Consiglio dei Ministri allorché le copie e le informazioni richieste siano ritenute indispensabili per lo svolgimento di attività connesse alle esigenze del sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Anche in questo caso l’A.G. competente può rigettare la richiesta con provvedimento motivato.
Deve essere ancora citato l’art. 116 c.p.p. il quale abilita chiunque vi abbia interesse a ottenere a proprie spese copie, estratti o certificati di singoli atti del procedimento, anche dopo la sua definizione.
È bene comunque ricordare che la facoltà ivi prevista non è soggetta ad autorizzazioni per le parti private e la parte offesa in virtù del disposto dell’art. 43 disp. att. c.p.p. mentre lo è per chiunque altro
Si possono adesso tirare le somme.
Il legislatore penale ha adottato un sistema nel quale gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari sono ordinariamente coperti dal segreto, quindi non ostensibili, finché la fase medesima non si sia esaurita o finché l’indagato non ne abbia legittimamente conoscenza.
Ha anche previsto deroghe ma, come si è visto, nessuna di esse attribuisce alle pubbliche amministrazioni – fatta eccezione per il caso che abbiano assunto la veste di parti del procedimento – diritti o facoltà in ordine alla conoscenza di atti coperti dal segreto.
C’è a questo punto da chiedersi che tipo di atti possa trasmettere la Procura all’AGCOM, data la disciplina appena illustrata e tenuto conto della limitazione esplicitata nel protocollo che individua negli atti ostensibili l’unica tipologia comunicabile.
Non possono essere sicuramente oggetto di comunicazione gli atti coperti da segreto (il cosiddetto segreto interno) nei termini risultanti dall’art. 329 comma 1, cioè tutti gli atti compiuti dal PM e dalla PG.
Uguale divieto vale per gli atti segretati ai sensi del comma 3 del medesimo articolo e dell’art. 391-quinquies c.p.p.
Lo stesso vale infine per l’ipotesi della desegretazione, resa possibile dal comma 2 del medesimo articolo allorché ve ne sia necessità per la prosecuzione delle indagini. Lo stesso comma dispone infatti che la pubblicazione avvenga mediante deposito degli atti presso la segreteria del PM e non certo attraverso la comunicazione a p.a.
Nessun aiuto arriva dagli artt. 118 e 118-bis che si riferiscono a organi istituzionali specificamente individuati e non ammettono alcun tipo di estensione analogica.
Anche la possibilità riconosciuta dall’art. 116 non sembra decisiva, essendo piuttosto dubbio che l’interesse corrispondente ad una situazione giuridicamente rilevante e tutelata che costituisce un necessario presupposto della richiesta di copie, estratti o certificati di atti sia estensibile alle necessità istruttorie dell’AGCM.
È chiaro allora che la comunicazione di atti resa possibile dal protocollo può avvenire solo dopo l’avvenuta cessazione del segreto.
Quest’ovvia constatazione sminuisce in qualche modo l’enfatica premessa del protocollo, soprattutto laddove si afferma «la necessità di massimizzare il grado di efficacia complessiva delle misure volte alla prevenzione e al contrasto della corruzione nella Pubblica Amministrazione, nonché dell’azione a tutela del buon funzionamento del mercato (…) altresì la necessità di rendere effettiva e più proficua l’attività di repressione dei reati contro la Pubblica Amministrazione, anche attraverso l’accesso tempestivo alle informazioni acquisite in via amministrativa».
Si intende dire che il travaso di atti dalla Procura all’AGCM, impossibile prima che cessi il segreto e per ciò stesso prima che chi subisce l’accusa ne abbia formale conoscenza, è ben lontano dal rappresentare il talismano capace di eliminare il malaffare che inquina le p.a. e il mercato.
L’accordo di scambio prevede ulteriormente che la Procura possa rivolgere all’AGCM richieste di documentazione, atti, informazioni e chiarimenti connessi a procedimenti di competenza dell’Autorità. Quest’ultima è tenuta a soddisfare tempestivamente le richieste, anche in relazione a fasi pre-istruttorie e anche quando un’impresa coinvolta nella procedura abbia presentato domanda di clemenza.
L’AGCM è inoltra tenuta, tutte le volte che le sue attività istruttorie o ispettive facciano emergere condotte di rilievo penale, a darne notizia alla Procura «comunicando lo stato del procedimento, i tempi attesi di conclusione dello stesso e, successivamente, gli esiti dei propri accertamenti, corredati dagli atti istruttori, al fine di consentire un tempestivo avvio delle indagini».
Se si verifica questa eventualità, l’AGCM e la Procura si impegnano a concordare gli opportuni accorgimenti «al fine di non compromettere il c.d. effetto sorpresa delle attività giudiziarie o amministrative».
Una speciale cautela è prevista allorché l’AGCM rilevi comportamenti penalmente rilevanti nel corso della sua attività di vigilanza sulla concorrenza ed abbia ricevuto domande di clemenza.
In questo caso le parti si impegnano ad un coordinamento che salvaguardi al tempo stesso l’efficacia del programma di clemenza e la speditezza delle indagini penali e renda disponibile per la Procura ogni elemento utile di valutazione sulle condotte successive al fatto, attribuibili sia ad imprese che a singoli individui.
Anche questa parte della regolamentazione protocollare, il cui collegamento a funzioni strettamente giudiziarie non potrebbe essere più esplicito, merita un’attenzione particolare.
È anzitutto degno di nota l’accordo in virtù del quale la Procura può chiedere documentazione, atti, informazioni e chiarimenti all’AGCOM in relazione a procedure di sua competenza e questa è tenuta a provvedere in conformità.
Serve ricordare a tal fine che, ai sensi dell’art. 14 comma 4 della L. 287/1990, cioè la legge che ha istituito l’AGCOM, «I funzionari dell’Autorità nell’esercizio delle loro funzioni sono pubblici ufficiali. Essi sono vincolati dal segreto d’ufficio».
Questa disposizione va letta congiuntamente al combinato disposto risultante dagli artt. 201 e 256 c.p.p.
La prima delle due norme obbliga i pubblici ufficiali (unitamente ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio), fatta eccezione per i casi in cui siano tenuti a riferire all’autorità giudiziaria, ad astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti.
La seconda norma obbliga le stesse categorie di soggetti a «consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria, che ne faccia richiesta, gli atti e i documenti, anche in originale se così è ordinato, nonché i dati, le informazioni e i programmi informatici, anche mediante copia di essi su adeguato supporto, e ogni altra cosa esistente presso di esse per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte, salvo che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto di Stato ovvero di segreto inerente al loro ufficio o professione».
La conclusione è a questo punto piuttosto scontata: il protocollo in esame impedisce all’AGCM di avvalersi del segreto d’ufficio (o di valutare se esistano i presupposti per avvalersene) al quale, per contro, i suoi funzionari sono tenuti ad attenersi per legge, tanto da essere perfino obbligati ad astenersi dalla deposizione ove addotti come testi.
Il protocollo obbliga ulteriormente l’AGCM a segnalare le condotte penalmente rilevanti che il suo personale constati nello svolgimento delle sue attività d’istituto.
Questa previsione è pleonastica se si considera che l’obbligo di denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale è già compreso nel nostro ordinamento al punto che la sua omissione dà luogo al reato previsto dall’art. 361 c.p.
Resta ancora un aspetto prima di concludere ed è quello dell’estensione delle predette regole protocollari anche ai casi in cui siano già state presentate domande di clemenza all’AGCM.
La possibilità di presentare tali domande è riservata alle imprese che, facendo parte di un cartello finalizzato a diminuire la concorrenza e danneggiare i consumatori, ne facciano denuncia all’AGCM. Il contraltare di questo comportamento collaborativo è la possibilità di ottenere l’esonero dalle sanzioni particolarmente gravose previste dalla legge o quantomeno una loro diminuzione.
È facile immaginare che un protocollo che impone all’AGCM di comunicare tempestivamente alla Procura le domande di clemenza avrà un’influenza negativa sulla propensione alla collaborazione delle imprese coinvolte in cartelli illeciti. Se così fosse, alle buone intenzioni delle parti seguirebbe un risultato diametralmente opposto.
… Protocollo d’intesa stipulato l’11 gennaio 2018 tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano
Questo protocollo[15] è quasi identico a quello preso in esame nel precedente paragrafo.
Quasi, perché la sezione che definisce ciò che la Procura milanese può inviare all’AGCM, di propria iniziativa o su richiesta della controparte, contiene una postilla aggiuntiva che invece manca nell’analogo atto stipulato dalla Procura capitolina.
Vi si legge che «Qualora gli elementi trasmessi riguardino notizie, atti o documenti coperti da segreto istruttorio, l’AGCM si impegna a garantire la segretezza di tali informazioni nei riguardi dei terzi e la loro eventuale ostensione avverrà nei modi e nei tempi previamente concordati con la Procura».
Il protocollo rende dunque esplicitamente comunicabili informazioni e atti coperti dal segreto istruttorio, sia pure con la precauzione di assoggettare l’AGCM all’obbligo di conservare il segreto.
Questa previsione rende ancora più incerta rispetto al caso precedente la coerenza dell’atto all’ordinamento giuridico, per due essenziali ragioni.
Non si comprende intanto come la postilla aggiuntiva possa accordarsi alla parte immediatamente precedente dell’accordo in cui si ha cura di precisare che sono inviabili all’AGCM solo gli atti ostensibili, cioè non più coperti da segreto.
Neanche risulta chiaro cosa si intenda allorché si condiziona l’ostensione degli atti coperti da segreto ai «modi e tempi concordati con la Procura» quasi che le parti stipulanti, esclusivamente in virtù della raggiunta concordia, acquisiscano un potere discrezionale di desegretazione che prescinde dalla disciplina approntata dal codice di rito.
… Protocollo di intesa stipulato il 6 marzo 2014 tra la Prefettura, il Tribunale, la Procura della Repubblica presso il Tribunale, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e la Camera penale di Verona
Questo atto ha una natura in parte differente dai protocolli esaminati nei paragrafi precedenti.
Vi partecipano infatti non solo pubbliche amministrazioni giudiziarie e non ma anche un ordine professionale e un organismo settoriale dell’avvocatura.
Non si tratta pertanto, a stretto rigore, di un accordo tra p.a. nei termini previsti dall’art. 15 della L. 241/1990.
Lo si prende ugualmente in considerazione, tuttavia, per la sua esplicita finalizzazione alla realizzazione di interessi pubblici e per la sua altrettanto esplicita ricaduta nell’ambito procedimentale penale.
Il protocollo[16] ha come suo oggetto «l’ammissione e l’espletamento dei lavori di pubblica utilità, relativamente alle previsioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 del c.d.s. in relazione agli artt. 186 comma 9-bis e 187 comma 8-bis c.d.s.».
La ragione giustificatrice dell’intesa, la quale recepisce «l’esperienza fin qui maturata presso il Tribunale – Sezione del giudice per le indagini preliminari» sta nella riconosciuta utilità dell’applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità direttamente con il decreto penale di condanna e senza attendere l’irrevocabilità della decisione.
Sulla base di questa premessa condivisa, «l’Ufficio di Procura si impegna, altresì, a non esercitare l’azione penale prima che siano decorsi circa 60 giorni dalla data di iscrizione della notizia di reato, al fine di consentire all’indagato di presentare dichiarazione di non opposizione».
A sua volta, la Sezione del giudice per le indagini preliminari si dichiara disponibile a «inserire nel testo del decreto penale l’avviso che la durata della sanzione sostitutiva della sospensione della patente di guida, in caso di esito positivo del LPU, sarà dimezzata e la confisca del veicolo sarà revocata; ad emettere il decreto penale con sanzione sostitutiva del LPU entro 30 gg. dalla data di deposito della richiesta da parte della Procura».
Le altre parti si impegnano, ognuna secondo le sue competenze, a compiere le attività che servono ad agevolare lo scopo di cui si è detto. In particolare il COA e la Camera penale si impegnano, tra l’altro, «a depositare presso la Procura della Repubblica atto di non opposizione al decreto penale di condanna (…) a richiedere contestualmente l’autorizzazione all’inizio della prestazione non retribuita da parte dell’imputato prima della data di irrevocabilità del decreto».
Questo è il nucleo essenziale dell’accordo.
Non si possono mettere seriamente in dubbio la sua palese finalità deflattiva e il vantaggio che ne deriva all’imputato e alla comunità.
E tuttavia, non si può fare a meno di constatare che anche questo protocollo presenta aspetti di dubbia coerenza ordinamentale.
Si osserva anzitutto che gli uffici giudiziari stipulanti hanno vincolato funzioni e atti tipicamente giurisdizionali.
La Procura si è infatti obbligata a tardare l’esercizio dell’azione penale dopo l’iscrizione nell’apposito registro della notizia di reato e del nome della persona cui il reato va attribuito.
A loro volta i magistrati della sezione del giudice per le indagini preliminari sono stati impegnati a definire nel modo che si è visto i procedimenti nei quali sia possibile applicare la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.
È quantomai opinabile, per tutte le considerazioni esposte in precedenza, che l’assunzione di tali obblighi possa avvenire per via protocollare.
Si osservi, per di più, che il protocollo è stato sottoscritto, secondo forma e prassi, dagli organi di vertice di ciascuna delle parti stipulanti e dunque, per ciò che qui interessa, dal procuratore della Repubblica e dal presidente del Tribunale.
Ora, mentre il procuratore della Repubblica può legittimamente impegnare il suo ufficio poiché è il titolare esclusivo dell’azione penale nel territorio di sua competenza, lo stesso principio non vale per il presidente del Tribunale che non dispone di alcun potere direttivo sui giudici del suo ufficio per ciò che attiene al modo in cui debbano esercitare le loro funzioni strettamente giurisdizionali.
Sicché, ciascun magistrato componente della sezione GIP del Tribunale di Verona potrebbe rifiutarsi di aderire al protocollo e né il presidente del Tribunale né il presidente della sezione potrebbero costringerlo a comportarsi diversamente.
Si è stipulato, in sostanza, un protocollo la cui tenuta complessiva, a prescindere dalla regolamentazione formale, è affidata non già ad un inesigibile obbligo dei giudici dell’indagine preliminare ma alla loro disponibilità ad adeguarsi spontaneamente ad una prassi applicativa che, in ipotesi, potrebbero non condividere.
C’è infine, ed è un aspetto tutt’altro che marginale, una questione di merito.
L’intero protocollo ruota attorno a due assunti cruciali: la sanzione sostitutiva non richiede come suo indefettibile presupposto il passaggio in giudicato della sentenza di condanna; la sua esecuzione anticipata da parte dell’imputato implica logicamente la rinuncia all’impugnazione della sentenza stessa o del decreto penale di condanna.
Non la pensa così, però, la Corte di Cassazione.
Si legge infatti in Cass. Pen., Sez. 4^, sentenza 54985/2017, emessa in un procedimento in cui la ricorrente era stata riconosciuta responsabile di una contravvenzione al Codice della strada e condannata a una pena detentiva e pecuniaria sostituita da lavori di pubblica utilità, che «l’esecuzione di una pena prima della definitività della sentenza che l’ha comminata si pone in contrasto con il fondamento stesso della potestà punitiva dello Stato e con il principio di legalità della pena (…) il legislatore, nel prevedere l’ipotesi di una revoca della pena sostituita ai sensi dell’art. 186 co. 9-bis C.d.S. da parte del giudice che procede, lungi dal legittimare implicitamente una esecuzione dei lavori di pubblica utilità che preceda la definitività della condanna, ha solo inteso disciplinare situazioni marginali, ravvisabili in tutte le ipotesi in cui residui una competenza a pronunciarsi da parte del giudice procedente su aspetti della statuizione diversi dalle questioni penali e incompatibili con la proposizione dell’impugnazione».
È vero che un consistente indirizzo giurisprudenziale, soprattutto di merito, aveva in precedenza avallato la tesi contraria a quella poi sostenuta dal giudice di legittimità.
Questa presa d’atto non attenua tuttavia il problema ed anzi è la conferma della fragilità di accordi stipulati sulla base di visioni interpretative che, per quanto convincenti possano sembrare, sono fisiologicamente esposte al rischio di sconfessioni successive.
L’opinione del Consiglio superiore della magistratura
L’organo di autogoverno della magistratura ha avuto più volte l’occasione di pronunciarsi sui protocolli degli uffici giudiziari.
Si può ben dire che il CSM si è dimostrato tutt’altro che ostile a questi strumenti, avendo colto il notevole aiuto che ne può derivare in termini di maggiore efficienza organizzativa e capacità di risposta ai bisogni dell’utenza giudiziaria.
Questa posizione di generale favore per i protocolli non è mai stata disgiunta tuttavia dalla preoccupazione che il loro uso aprisse brecce tali da assecondare visioni particolari piuttosto che generali e, ciò che più conta, permettesse prassi in palese violazione della legge e della sua interpretazione consolidata.
Si cita come esempio di questa sensibilità la risoluzione[17] che il CSM emise il 7 luglio 2010 in tema di organizzazione delle Procure minorili.
L’atto è rilevante poiché prende specificamente in considerazione protocolli di intesa intergiudiziari (normalmente stipulati tra organi requirenti e giudicanti del settore minorile) ovvero stipulati tra organi giudiziari e enti e istituzioni che hanno comunque un ruolo nel medesimo settore.
Il CSM non esita a riconoscere che «Tali protocolli, praticamente d’illimitata formulabilità per la variegata tipologia dei possibili enti stipulanti e per la multiformità delle variabili contenutistiche, muovono dall’esigenza di completare, in sede di prassi, regole e criteri dettati per legge che, per genericità ed eccessiva astrattezza o anche per complessità applicative e farraginosità interpretative, appaiono meritevoli di determinazioni secondarie, adottabili in forma di convenzione pattizia, nel duplice obiettivo di un concreto coordinamento interistituzionale e del raggiungimento di risultati comuni e condivisi».
Si premura però, al tempo stesso, di ricordare che «Nel segno di un favore verso la stipulazione di detti protocolli, appare tuttavia utile, coerentemente all’orientamento consiliare evolutosi per il proliferare dei protocolli tra Procure ordinarie e DDA e consolidatosi nelle delibere del 21 luglio 1994, del 14 maggio 1998 e del 17 luglio 2002 su impulso della decima Commissione, rimarcare alcuni punti fondamentali che si assumono qui come linee-guida generali esportabili, nel rispetto della piena autonomia gestionale del dirigente, anche in subjecta materia. E così: va opportunamente evitata ogni possibilità di contrasto con disposizioni normative di carattere sostanziale e processuale nonché di ordinamento giudiziario; del pari va scongiurata la previsione di possibili profili interpretativi che si pongano in evidente dissenso rispetto a consolidati orientamenti giurisprudenziali (…); va privilegiata una durata dei protocolli sincronica al periodo di permanenza del Procuratore stipulante (…) va garantita la conoscibilità del protocollo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura al quale, tuttavia, non compete il sindacato sul merito delle singole clausole per esprimere valutazioni sulla loro rispondenza a criteri di efficienza…in quanto ciò costituisce campo riservato alla esplicazione della attività ‘lato sensu’ giurisdizionale, né la cognizione dei profili interpretativi delle norme processuali; va assicurata analoga conoscibilità da parte del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello in virtù delle prerogative di vigilanza che gli competono in forza della disciplina dell’art. 6 del D. Lgs n. 106/2006 in ordine alla verifica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici da parte dei Procuratori del distretto, tra essi compresi i Procuratori minorili».
Il CSM tiene dunque a precisare che nessun protocollo può entrare in contrasto con la legge e la sua interpretazione diffusa, che i capi degli uffici giudiziari non dovrebbero stipulare intese che durino più a lungo della loro prevedibile permanenza nella sede giudiziaria interessata (così da non lasciare ingombranti retaggi ai loro successori), che è assai opportuno che esso CSM e gli uffici giudiziari con funzioni di vigilanza abbiano contezza delle intese così da potere esercitare pienamente le loro prerogative istituzionali.
Le conclusioni
La materia dei protocolli d’intesa di interesse giudiziario è ben lontana dal consolidamento.
Consta in gran parte di iniziative spontanee, normalmente propiziate da concrete esigenze pratiche a loro volta occasionate da lacune legislative o dalla necessità di fronteggiare emergenze sociali connesse a fenomeni criminali o di dare risposte plausibili ed efficienti a reali bisogni della comunità e degli individui che la compongono.
Non ci può essere disaccordo su questo poiché, nella quasi totalità dei casi, gli obiettivi perseguiti sono chiari e condivisibili.
Questa presa d’atto non riesce però a fugare le non poche perplessità che i protocolli talvolta generano e i non trascurabili rischi che possono derivarne quando se ne fa un uso poco avveduto.
Il piccolo campione analizzato in questo scritto ne è un esempio ma vi sono altri casi che non sono sfuggiti all’attenzione degli studiosi e hanno provocato riflessioni simili a quelle qui proposte[18].
Uso improprio dello strumento normativo offerto dall’art. 15 della Legge 241/1990, clausole protocollari che non si confrontano adeguatamente con le previsioni normative o addirittura ne prescindono, formalizzazione di prassi applicative fondate su discutibili visioni interpretative, incoerenza ai parametri suggeriti dal CSM, ognuno di questi aspetti si è manifestato nei casi esaminati.
Questo se ci si attiene al mero aspetto formale.
Ma sembra di potere scorgere anche qualcosa in più ed è l’idea di fondo che l’obiettivo dell’efficienza possa da solo giustificare percorsi almeno in parte diversi da quelli che il legislatore ha affidato alla giurisdizione.
Nel caso dei protocolli stipulati dall’AGCM con le due più importanti Procure italiane, si perseguono la prevenzione e la repressione della corruzione nella p.a.
Chi potrebbe essere contrario?
Ma la domanda giusta non è questa.
Ciò che bisogna chiedersi è se questo obiettivo valga più della messa a rischio di un apparato normativo posto a presidio di rilevanti valori.
Se sia opportuna anche solo l’eventualità che l’AGCM sappia ciò che l’accusato ancora non può sapere.
Se sia corretto che i suoi funzionari possano trovarsi, in base ad un protocollo, nella condizione di non rispettare il segreto d’ufficio che la legge gli impone di rispettare, assumendo per ciò stesso un’impropria posizione di sudditanza rispetto al preminente interesse investigativo delle Procure.
Ancor prima, e in un senso più generale, bisogna chiedersi come valutare la progressiva spinta che un numero crescente di Procuratori della Repubblica sta esercitando nella prospettiva dell’autoregolamentazione di funzioni di rilievo non certo secondario nei loro ambiti di competenza.
I protocolli di intesa sono solo una delle modalità di questo crescente attivismo.
Altrettanto diffuse sono le circolari organizzative volte a disciplinare monocraticamente questo o quel settore funzionale. Proprio di recente ve ne è stato un florilegio nella delicatissima materia delle intercettazioni, peraltro interessata da una riforma legislativa di vasta portata, e, come si può immaginare, le visioni espresse non sempre e non su tutto coincidono con l’effetto paradossale di una confusione applicativa generata da atti che si propongono di eliminarla.
Ancora più di recente è germinata l’idea di una sorta di coordinamento tra i dirigenti delle più importanti procure nazionali, precisamente quelle di Roma, Milano, Napoli, Palermo e Torino, che, secondo reportage di stampa, si sarebbe autoassegnato il compito di costituire un avamposto in grado di formulare proposte di natura normativa e organizzativa e di farsene portavoce nelle sedi istituzionali competenti[19].
A dar credito alle notizie di stampa, l’iniziativa non è stata particolarmente apprezzata né dalla magistratura associata né dal CSM ma ciò che conta è che sia stata comunque concepita, contribuendo ad alimentare questa stagione di particolare assertività degli inquirenti.
Non si dubita, come si è già detto, delle buone intenzioni che stanno alla base di questa innovativa progettualità e dell’onestà intellettuale di coloro che le stanno dando sostanza e voce.
Ma quelle domande restano e meriterebbero una risposta.
[1] Si vedano, tra gli altri, i protocolli di intesa stipulati dalla Corte EDU di Strasburgo con le nostre magistrature di vertice e con il CSM per agevolare occasioni di dialogo, formazione e informazione.
[2] Tra gli altri, il protocollo di intesa del 29 marzo 2017 tra la Prefettura e la Procura della Repubblica di Roma per la gestione delle istanze di accesso al fondo di solidarietà per le vittime di usura ed estorsione.
[3] Tra questi i protocolli stipulati nel gennaio 2018 dall’AGCOM con le Procure della Repubblica di Roma e Milano, di cui si tratterà specificamente in questo scritto ma anche la congerie di intese intercorse tra l’ANAC e vari uffici giudiziari del pubblico ministero in ogni parte d’Italia.
[4] Un esempio è il protocollo redatto tra Regione Lazio e Procura Generale di Roma per agevolare la demolizione dei manufatti edilizi abusivi.
[5] Si pensi ai protocolli redatti tra la Corte di Cassazione e il CNF per l’adozione di metodiche condivise di redazione dei ricorsi per cassazione.
[6] Protocolli della Procura di Tivoli con istituzioni sanitarie laziali e associazioni forensi del 29 novembre 2016 e dell’1marzo 2017 finalizzati rispettivamente alla realizzazione di un sistema integrato di protezione delle vittime di reato in condizione di particolare vulnerabilità e all’acquisizione di servizi di medicina legale.
[7] Protocollo tra la Procura generale di Roma e l’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Lazio.
[8] Protocollo tra il Tribunale di Verona e l’Associazione Banco Alimentare del Veneto ONLUS per favorire lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità a titolo di pena.
[9] Parere AG/07/15/AP del 18 febbraio 2015
[10] CGUE, sentenza del 13 novembre 2008, causa C-324/07 e sentenza del 9 giugno 2009, causa C-480/06
[11] CGUE, ordinanza del 16 maggio 2013, causa C-564/11
[12] Per un inquadramento complessivo dell’istituto e della sua natura, si veda S. Piraino, La consensualità nell’azione amministrativa, Rivista dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, 2008
[13] S. Piraino, op. cit.
[14] Il documento è scaricabile dal sito web istituzionale dell’AGCM, accedendo alla sezione “Stampa e comunicazione” e poi cliccando in calce al comunicato del 18 gennaio 2018 con cui l’Autorità ne ha dato notizia.
[15] Il documento è scaricabile dal sito web istituzionale dell’AGCM, accedendo alla sezione “Stampa e comunicazione” e poi cliccando in calce al comunicato con cui l’Autorità ne ha dato notizia.
[16] Il documento è rintracciabile nel sito web istituzionale del COA di Verona.
[17] Il provvedimento è visibile nel sito web istituzionale del Consiglio.
[18] Si confronti V. Bove, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida: è a rischio il principio di legalità?, Diritto Penale Contemporaneo, 17 luglio 2015.
Avverte significativamente l’autrice: «la problematica di fondo (…) riguarda inevitabilmente l’efficacia di atti condivisi adottati per disciplinare, con maggiore dettaglio, un istituto giuridico in ambito penale, quando esso presenti vuoti e criticità normative, e finisce quindi col toccare il principio di legalità (…) Occorre, cioè, chiedersi se gli elaborati adottati in tema di messa alla prova (ma il discorso si può estendere anche alla particolare tenuità del fatto o ad altri istituti giuridici contemplati da fonti che presentino vuoti normativi) si siano mantenuti nei limiti tracciati dal principio di legalità o se gli accordi intercorsi, nel prevedere una dettagliata disciplina di dettaglio, abbiano finito con l’intaccare quel limite costituzionale che è al tempo stesso una forte e imprescindibile garanzia. In altri termini: fino a che punto, in questo ambito, le linee guida, i protocolli o i vademecum possono “spingersi”?».
[19] Per un resoconto, si rinvia a S. Menafra, Il Messaggero, edizione web del 15 marzo 2018.
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