Il giudice può riconoscere la continuazione solo ove ritenga provata la sussistenza di un disegno criminoso comune a più reati, deliberato, nelle sue linee essenziali, almeno contestualmente alla commissione del primo reato.
La condizione di alcool dipendenza al momento dei fatti non è considerata dal legislatore come indice positivo della sussistenza di un disegno criminoso comune ai reati commessi quando sussisteva quella condizione, ma, ove documentata, va considerata nel complessivo giudizio da compiere.
L’accertamento o meno della continuazione può essere fondata sul rilievo di elementi cd. indicatori — come, ad esempio, la prossimità spaziotemporale dei reati, l’identità del bene giuridico leso, l’identità del modus operandi, la ricorrenza dei medesimi complici, un periodo di detenzione intermedia, la condizione di alcool o tossicodipendenza -, ma solo all’esito di una valutazione globale che conduca al positivo o meno riconoscimento dell’esistenza dell’unico disegno criminoso, da considerare come reale deliberazione criminosa e quindi ben diversa dalla generica inclinazione al delitto ovvero dalla personale scelta di vivere ricorrendo alla commissione di reati.
(Annullamento con rinvio)
(Orientamento confermato)
(Normativa di riferimento: C.p.p art. 671; c.p. art. 81)
Il fatto
Con ordinanza in data 19.9.2016 il Tribunale di Milano, quale giudice dell’esecuzione, respingeva la richiesta presentata in data 9.6.2016 dal difensore di C. F., ed avente ad oggetto il riconoscimento della continuazione fra i reati di cui alle sentenze pronunciate dal Tribunale di Milano in data 24.6.2014 e 28.1.2015.
Il Tribunale osservava in particolare come l’istante non avesse chiesto il riconoscimento della continuazione nella fase di cognizione e che dunque, risultando i reati omogenei, ma commessi a distanza di sei mesi e con un breve periodo di custodia cautelare intermedio, la condizione di alcol dipendenza non fosse risultata valorizzabile per riconoscere la continuazione richiesta.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Il difensore di C. F. presentava ricorso per cassazione, deducendo violazione dell’art. 671 cod. proc. pen., sul rilievo che l’istante aveva documentato la condizione di alcool dipendenza e che alcun effetto preclusivo poteva avere l’omessa richiesta della continuazione del giudizio di cognizione.
Il Procuratore generale, a sua volta, chiedeva l’annullamento dell’ordinanza impugnata, sul rilievo che la parte istante aveva solo l’onere di indicare le sentenze oggetto della richiesta, mentre il giudice avrebbe dovuto prendere in esame gli elementi risultanti dalle sentenze.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Corte di Cassazione
La Cassazione accoglieva il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.
Prima di entrare nel merito delle considerazioni che hanno indotto a questa decisione, i giudici di Piazza Cavour ripercorrevano l’iter argomentativo che aveva indotto il giudice di merito ad emettere la decisione summenzionata.
In particolare si metteva in risalto che il Tribunale – premesso che, in sede di riconoscimento della continuazione nella fase esecutiva, l’istante avrebbe avuto l’onere di allegare specifici elementi a sostegno dell’istanza – aveva valorizzato, negativamente, il fatto che l’istante non avesse prospettato, già nel giudizio di cognizione definito con la sentenza pronunciata in data 28.1.2015, la sussistenza di un disegno criminoso comune al reato già giudicato, con la sentenza pronunciata in data 24.6.2014, la distanza di sei mesi fra i fatti e il periodo intermedio di carcerazione sofferta per il primo reato, ed aveva ritenuto che tali elementi avrebbero dovuto prevalere, nella valutazione globale, rispetto alle circostanze della identità del bene giuridico leso e della condizione di alcool dipendenza stante il fatto che la giurisprudenza ( Sez. Un., 18.5.2017, Gargiulo, Rv. 270074) aveva chiarito come il riconoscimento del vincolo della continuazione richiedesse l’accertamento in positivo di una reale comune programmazione dei reati, anche solo nelle loro linee essenziali, sin dal compimento del primo reato, precisando altresì che l’utilizzo in tale accertamento dei cd. indicatori non può avvenire con criterio “aritmetico“, ben potendosi escludere la continuazione anche in presenza di una molteplicità di indicatori positivi che risultassero, nella valutazione globale, smentiti da altri elementi di segno contrario.
Alla luce di tale valutazioni argomentative, la Suprema Corte riteneva all’uopo opportuno precisare quanto segue: con particolare riferimento all’onere di allegazione incombente su chi propone la istanza ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., si riteneva come la parte istante avesse l’onere di indicare le sentenze che riguardano i reati in relazione ai quali è chiesto il riconoscimento della continuazione, ma non anche quello di rappresentare elementi significativi della sussistenza di un comune disegno criminoso (come già evidenziato dalla stessa Corte in precedenza nella sentenza Sez. 1, 8.5.2015, Malich, Rv. 265011) evidenziandosi al contempo come fosse stato altresì precisato, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico (Sez. 2, 18.11.2010, Turnone, Rv. 249205; Sez. 2, 14.2.2014, Tassone, Rv. 259069) che l’onere di produrre le sentenze incombe sull’istante solo in sede di cognizione, dove non opera la norma di cui all’art. 186 disp. att. cod. proc. pen., che onera il giudice dell’acquisizione della copia delle sentenze.
Posto ciò, a questo punto della disamina, la Cassazione analizzava nel dettaglio questi approdi ermeneutici rilevando in particolar modo che, in ordine al principio, ricorrente in giurisprudenza, secondo cui l’istante, in sede esecutiva, avrebbe l’onere di allegare gli elementi che dovrebbero fondare il riconoscimento della continuazione ( Sez. 1, 25.11.2009, Marianera, Rv. 245970; Sez. 5, 6.5.2010, Faneli, Rv. 247356; Sez. 1, 20.4.2016, D’Amico, Rv. 267580), nella sentenza in commento, si rileva come impropriamente nella pronuncia in commento si fosse “parlato” di onere, istituto che, invece, secondo la tradizionale dottrina, significa l’esistenza, a carico di una parte, di un dovere, seppur diverso dall’obbligo e dalla soggezione.
Difatti, secondo la Corte, se è vero che la stessa giurisprudenza che afferma l’esistenza del menzionato “onere di allegazione” di elementi specifici a sostegno dell’istanza, è altrettanto vero che in tal guisa veniva rimarcata la necessità che la prova dell’esistenza di un comune disegno criminoso fosse effettiva non essendo sufficiente che detta prova si limiti a registrare l’esistenza di elementi, come la prossimità spazio-temporale e l’identità del bene giuridico leso che, di per sé, sono neutri, essendo anche compatibili con la mera inclinazione a delinquere, fenomeno ben diverso dalla unitaria programmazione, anche generica, di più reati essendo per contro richiesto alla parte rappresentare ed evidenziare al giudice gli elementi significativi dell’esistenza di un disegno criminoso comune a più reati essendo questi elementi che potrebbero non risultare dalle sentenze di merito trattandosi di una indagine che ha ad oggetto il momento ideativo e deliberativo del reato.
Tal che si giungeva alla conclusione alla stregua del quale deve ritenersi sussistente un mero interesse della parte, e non di un onere giuridico, di allegare elementi specifici a sostegno dell’istanza e, ove ciò non dovesse avvenire, tale circostanza non può, di per sé, essere valorizzata dal giudice in senso negativo all’accoglimento della stessa.
Posto ciò, quanto all’ulteriore rilievo, valorizzato dal Tribunale, circa l’omessa richiesta della continuazione nel giudizio di cognizione, gli ermellini osservavano che il precedente giurisprudenziale citato dall’ordinanza, vale a dire la Sez. 1, 4.4.2014, Marino, Rv. 260088, escludeva come vi fosse un onere di previa richiesta nel giudizio di cognizione posto che detta decisione si limita a riconoscere come indice negativo il fatto che l’istante, pur essendo stato nelle condizioni per farlo, non avesse proposto la richiesta di riconoscimento della continuazione nel giudizio di cognizione.
In particolare, i giudici di legittimità ordinaria stimavano come detto elemento dovesse essere valutato assieme agli altri desumibili dagli atti acquisiti, non potendo questo essere ritenuto comunque come indice negativo, dato che esso valorizza una particolare scelta processuale di cui il soggetto poteva non essere completamente consapevole.
Una volta esaurita la disamina della pronuncia sottoposta al suo scrutinio giurisdizionale, la Corte accoglieva il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.
Veniva prima di tutto evidenziato come la motivazione dell’ordinanza impugnata risultasse apparente e manifestamente illogica atteso che l’ordinanza de qua non aveva compiuto uno specifico esame dei fatti accertati nei giudizi di cognizione e prescindeva dalla globale valutazione di tutti gli elementi significativi avendo formulato un giudizio negativo che si fondava esclusivamente sul rilievo della mancata richiesta della continuazione nel giudizio di cognizione.
In secondo luogo si notava come il Tribunale avesse espressamente affermato di non esaminare la condizione di alcool dipendenza, pur documentata dall’istante, precisandosi al riguardo che la condizione di alcool dipendenza non fosse stata considerata dal legislatore come indice positivo della sussistenza di un disegno criminoso comune ai reati commessi perdurando l’indicata condizione e citandosi al contempo il seguente precedente giurisprudenziale: Sez. 7, 13.4.2016, De Palma, Rv. 266720.
Da ciò se ne faceva discendere la conclusione secondo la quale la valutazione, che il giudice deve compiere in subiecta materia, deve essere globale e quindi deve considerare tutti gli elementi emergenti, per poi subito dopo motivare il giudizio sulla base della ritenuta maggior rilevanza di uno o alcuni elementi, senza però al contempo escludere dalla valutazione alcun elemento, ritenendone a priori la irrilevanza.
Infine, alla luce delle argomentazioni sin qui esposte, la Corte di Cassazione, nella pronuncia qui in commento, provvedeva ad annullare con rinvio l’ordinanza impugnata mediante la formulazione dei seguenti principi di diritto:
” Nel procedimento ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. la parte istante ha l’onere di indicare le sentenze che hanno giudicato i reati in relazione ai quali viene chiesto il riconoscimento della continuazione”;
” Il giudice può riconoscere la continuazione solo ove ritenga provata la sussistenza di un disegno criminoso comune a più reati, deliberato, nelle sue linee essenziali, almeno contestualmente alla commissione del primo reato”;
” La condizione di alcool dipendenza al momento dei fatti non è considerata dal legislatore come indice positivo della sussistenza di un disegno criminoso comune ai reati commessi quando sussisteva quella condizione, ma, ove documentata, va considerata nel complessivo giudizio da compiere”.
” L’accertamento o meno della continuazione può essere fondata sul rilievo di elementi cd. indicatori — come, ad esempio, la prossimità spaziotemporale dei reati, l’identità del bene giuridico leso, l’identità del modus operandi, la ricorrenza dei medesimi complici, un periodo di detenzione intermedia, la condizione di alcool o tossicodipendenza -, ma solo all’esito di una valutazione globale che conduca al positivo o meno riconoscimento dell’esistenza dell’unico disegno criminoso, da considerare come reale deliberazione criminosa e quindi ben diversa dalla generica inclinazione al delitto ovvero dalla personale scelta di vivere ricorrendo alla commissione di reati”.
Conclusioni
La sentenza si palesa assai interessante in quanto in essa si trattano molteplici questioni afferenti la continuazione.
Per il primo principio di diritto summenzionato ossia, come rilevato prima, che nel procedimento ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. la parte istante ha l’onere di indicare le sentenze che hanno giudicato i reati in relazione ai quali viene chiesto il riconoscimento della continuazione, detto approdo ermeneutico deve essere letto in relazione a quanto statuito dall’art. 186 disp. att. c.p.p. che, come è noto, stabilisce che le “copie delle sentenze o decreti irrevocabili, se non sono allegate alla richiesta prevista dall’articolo 671, comma 1, del codice, sono acquisite di ufficio”.
Va da sé dunque come detto onere di indicazione va circoscritto, a parere di chi scrive, a quello di menzionare gli estremi delle sentenze per cui si chiede la continuazione, e non invece a quella di produrre le decisione medesime.
Discorso diverso sarebbe stato quello in cui la continuazione fosse stata invocata in sede di cognizione, atteso che l’“imputato che intenda richiedere, nel giudizio di cognizione, il riconoscimento della continuazione in riferimento a reati già giudicati non può limitarsi ad indicare gli estremi delle sentenze rilevanti a tal fine, ma ha l’onere di produrne la copia, non essendo applicabile in via analogica la disposizione di cui all’art. 186 disp. att. cod. proc. pen. dettata per la sola fase esecutiva” (Cass. pen., sez. VI, 13/10/2017, n. 51689).
Del resto, la possibilità che sia sufficiente menzionare i soli estremi delle pronunce per cui si chiede la continuazione, sembra ricavarsi anche da quell’indirizzo interpretativo alla stregua del quale: “n tema di riconoscimento della continuazione, l’onere di provare i fatti dai quali dipende l’applicazione della continuazione è da ritenersi soddisfatto non solo con la produzione della copia della sentenza rilevante ai fini del richiesto riconoscimento ma anche con la semplice indicazione degli estremi di essa” (Cass. pen., sez. V, 29/04/2011, n. 37337).
Posto ciò, venendo a trattare il secondo principio di diritto enunciato in questa pronuncia (“Il giudice può riconoscere la continuazione solo ove ritenga provata la sussistenza di un disegno criminoso comune a più reati, deliberato, nelle sue linee essenziali, almeno contestualmente alla commissione del primo reato”), detto approdo ermeneutico si pone in linea (ed è quindi perfettamente condivisibile) con quell’arresto giurisprudenziale secondo il quale: “Il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea” (Cass. pen., Sez. un., 18/05/2017, n. 28659).
Venendo al terzo principio di diritto, ossia quello relativo all’incidenza della condizione di alcool dipendenza nel giudizio di continuazione, detto principio sembra rappresentare un elemento di novità nello scenario nomofilattico essendo stato in precedenza postulato dalla medesima Cassazione che la disposizione di cui all’art. 671 c.p.p., comma 1 si riferisce soltanto allo stato di dipendenza da stupefacenti quale fattore idoneo a giustificare la ravvisata sussistenza dell’unicità del disegno criminoso, e non alla dipendenza da sostanze alcoliche (in questi termini: Cass. pen., sez. VII, 13/04/2016, n. 18669) mentre qui, viceversa, come rilevato anche prima, viene diversamente asserito che la condizione di alcool dipendenza al momento dei fatti, pur non essendo considerata dal legislatore come indice positivo della sussistenza di un disegno criminoso comune ai reati commessi quando sussisteva quella condizione, ove essa però sia documentata, va comunque considerata nel complessivo giudizio da compiere.
Infine, per quel che riguarda il quarto principio di diritto formulato in questa sentenza, esso trova conforto in un pregresso indirizzo interpretativo attraverso il quale è stato in modo non dissimile asserito (ad eccezione dello stato di tossicodipendenza che, come risaputo, è stato ritenuto tra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato, per effetto della modifica dell’art. 671, c. 1, c.p.p. operata dall’art. 4-vicies d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con modif., in l. 21 febbraio 2006, n. 49) che, in “tema di reato continuato, tra gli indici rivelatori dell’identità del disegno criminoso non possono non essere apprezzati la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, la tipologia dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le condizioni di tempo e di luogo; anche attraverso la constatazione di alcuni soltanto di detti indici – purché siano pregnanti e idonei ad essere privilegiati in direzione del riconoscimento o del diniego del vincolo in questione” (Cass. pen., sez. I, 1/03/2000, n. 1587).
Concludendo il commento di questa pronuncia, non può non osservarsi come da detta decisione siano ricavabili validi spunti argomentativi che possono essere utilizzati per formulare una richiesta di continuazione trattandosi di argomentazioni che, come appena visto, si innestano, salvo un solo caso (ossia quello inerente lo stato di alcol dipendenza), lungo il solco di un orientamento nomofilattico consolidato.
Questa sentenza, pertanto, rappresenta un utile vademecum per il difensore che voglia chiedere una continuazione nell’interesse del proprio assistito.
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