Allorquando la ditta interessata impugni la sopravvenuta revoca dell’aggiudicazione, atto nuovo che certamente inerisce e dunque “attiene” alla procedura di gara, non appare revocabile in dubbio che ricorressero le condizioni per l’applicazione della norma in questione; e che pertanto il ricorso allo strumento dei motivi aggiunti fosse e sia da ritenere processualmente corretto.
L’art.120 non opera alcuna distinzione (per struttura, funzione o categoria) fra gli atti impugnabili, limitandosi a prescrivere che ove sia riscontrabile qualsiasi relazione di connessione (dunque un qualsiasi rapporto di inerenza) fra l’atto sopravvenuto e quelli in qualche modo ad esso presupposti (o anche solamente precedenti), quello sopraggiunto va impugnato mediante lo strumento processuale del “ricorso per motivi aggiunti”.
Una volta “preferita” l’interpretazione restrittiva della norma in questione – ritenuto, dunque, inammissibile il ricorso ai motivi aggiunti per l’impugnazione dell’atto di ritiro sopravvenuto – il Giudice di primo grado avrebbe dovuto disporre la separazione dei giudizi, anziché precludere alla società ricorrente ogni forma di tutela.
Secondo principio giurisprudenziale costituente ormai jus receptum, se una determinata domanda giudiziale viene erroneamente veicolata mediante un ricorso volto ad introdurre un “rito processuale” inadeguato (o un’azione processuale tipica, destinata ad uno scopo diverso), ma contenente tutti i requisiti (e dunque valida) per l’avvio del rito appositamente previsto per il tipo di domanda che si intende introdurre, essa non va dichiarata inammissibile. Viceversa, in tal caso: a) l’atto introduttivo va, per così dire, “conservato” (id est: preservato da qualsiasi pronunzia giudiziaria “tranciante”, che lo dichiari del tutto inefficace ed inutilizzabile); b) la domanda da esso veicolata va “convertita” d’ufficio – ad opera del Giudice (mediante la riunione o la separazione dei giudizi, secondo i casi) – in domanda idoneamente ed adeguatamente diretta ad avviare la “giusta azione processuale”, ovvero il rito adeguato allo scopo (Cons. St., IV, 4.6.2013 n.3071; Id., 28.10.2013).
Va rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la seguente questione: se la sentenza d’appello che accerti l’erroneità della declaratoria di inammissibilità e/o di irricevibilità del ricorso, comporti l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado, ex art. 105 c.p.a..
In particolate se: a) l’annullamento della sentenza di inammissibilità e/o di improcedibilità, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque lesione del ‘diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal Giudice d’appello – non determini la necessità di rinviare la causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., al Giudice di primo grado; b) se la pronunzia con cui il Giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda giudiziale (rinunciando, dunque, all’esercizio ulteriore del potere giurisdizionale per stabilirne la fondatezza nel merito), possa essere assimilata – ai fini dell’applicazione dell’art. 105, comma 1, c.p.a. e per gli effetti devolutivi ivi previsti – ad una ipotesi di “declinazione” (pur se latu sensu intesa) della giurisdizione; c) se la statuizione con cui il Giudice d’appello “riformi” la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità emessa dal Giudice di primo grado debba essere ritenuta – al di là del nomen juris utilizzato nel dispositivo – una vera e propria “sentenza di annullamento”; e se una “sentenza di annullamento” (di una pronuncia di inammissibilità o di improcedibilità) possa essere assimilata ad una sentenza “dichiarativa di nullità” in esito alla quale occorre rinviare la causa al primo giudice, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., perché decida nel merito le questioni precedentemente non trattate.
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