I fatti posti a fondamento della domanda da parte attorea e quelli posti a fondamento delle difese del convenuto, si sostanziano in pure affermazioni, necessitanti di verificazione, al fine di permettere al giudice un sindacato sul fatto concreto.
Così, dal piano dell’ipotetico (consistente nella mera proposizione del fatto) si passa al dato decisionale.
Questo passaggio è reso possibile attraverso la discesa strumentale in campo della prova.
La prova è tradizionalmente considerata come una rappresentazione storica dei fatti affermati quali accadimenti dalle parti. È, più semplicemente, strumento per l’accertamento, la cristallizzazione storica, di quei fatti.
La parte, attraverso la prova, mira alla formazione del convincimento del giudice. È produzione che si tende al combaciamento della verità processuale con quella reale-storica.
L’intera materia delle prove trova il suo snodarsi normativo (il c.d. sistema della bipartizione) tra i due codici civili: quello di diritto sostanziale e quello di diritto processuale.
Il codice di procedura civile regola l’assunzione giudiziaria dei mezzi di prova.
Il codice civile configura i tipi normativi di prova. Quest’ultimo testo normativo stabilisce anche le regole riguardanti la ripartizione, tra i soggetti del processo, dell’onere della prova.
In generale, l’attore ha l’onere di provare i fatti costitutivi ed il convenuto i fatti estintivi, impeditivi o modificativi.
In tale sistema, rilievo fondamentale riveste la prova documentale (prova c.d. principe).
Secondo l’insigne Carnelutti, per documento è da intendersi quell’oggetto materiale idoneo a rappresentare e/o dare conoscenza di un fatto.
Per l’altrettanto illustre Chiovenda, il documento è ogni rappresentazione materiale destinata (idonea) a riprodurre una data manifestazione del pensiero.
È chiara l’utilità e la diversa sfera d’interesse cui possono tendere queste o altre autorevoli definizioni, dato che idoneità e destinazione non sono propriamente dei sinonimi. Ma lo scritto presentatovi tende alla sistematicità più che all’esegesi.
In base, quindi, alla scelta sistematica, i documenti si distinguono in dichiarativi e narrativi.
I documenti dichiarativi contengono, appunto, una dichiarazione. La dichiarazione de qua proviene dal suo autore e può essere di scienza o di coscienza, per usare termini più propri al linguaggio metagiuridico.
Fuori e per esclusione da tale classificazione (scienza e/o volontà) si collocano i documenti normativi. Dato che tutto ciò che non può rientrare nella sfera documentale dichiarativa dev’essere necessariamente assunto nella narrazione. In sintesi: tutto ciò che non rientra nella sfera del documento dichiarativo è documento narrativo.
Mi permetto, a questo punto, di aprire una piccola parentesi contenente un’opinione personale.
Nella pratica legale ci s’imbatte spesso e subito nella problematica dei sinistri stradali. Capita, in tale campo, di sentire la necessità di stilare documenti che vengono, poi, inviati in via stragiudiziale al liquidatore della società assicuratrice. Tali documenti il mio dominus me li faceva intitolare DICHIARAZIONI TESTIMONIALI.
Io non sono molto d’accordo con questa dizione, pur non avendone, allo stato, partorita una personale.
Tuttavia, tali c.c.d.d. dichiarazioni testimoniali sono dei documenti narrativi e non dichiarativi. Il soggetto non esprime dati di scienza, anche se così può apparire, ma di mera esperienza: si trovava in quel dato luogo e momento ed ha visto quello che racconta in seguito al legale, e che quest’ultimo trasfonde nella dichiarazione.
Inoltre, è vero che esprime, per così dire, una volontà, ma potrebbe non esprimerla. Una volta espressa, essa non veste la forma d’una res pro domo sua. Egli è terzo, sic et simpliciter. È, al più, prova egli stesso, e soltanto in un’ottica processualistica.
Ciò premesso, in tali tipi anomali di documenti (in realtà narrazioni) io uso indicare:
il prenome ed il cognome;
il luogo di residenza (con indirizzo) e il numero telefonico.
Così operando, l’assicuratore legge la dichiarazione del teste, ma può anche chiamarlo e chiedergli conferma di quanto dallo stesso narrato al legale.
Tutto ciò, però, in vista di un’ottica di correttezza e cortesia, perché, a ben argomentare, non si è tenuti né a documentare stragiudizialmente né a narrare oltre quello che, per presa visione e conferimento mandato, firma il cliente con la lettera di messa in mora.
Tutto questo per correttezza, dicevamo. Ed aggiungiamo, anche per trasparenza.
Ma diversa dalla corretta trasparenza è la tecnica funzionale del documento, nel momento in cui lo stesso dev’essere valutato dal giudice, in un’ottica non più stragiudizial-conciliativa, per quanto dura e, a tratti, snervante.
Se la funzione del documento è, ora, determinare il convincimento del giudice, diventa di particolarissima importanza il contenuto e la provenienza del mezzo-oggetto a Questi proposto.
Per contenuto s’intendono i fatti o le dichiarazioni.
Per provenienza s’intende che il fatto e le parole d’esso (contenute nello scritto) sono state espresse proprio dal soggetto che risulta essere l’autore.
Altri elementi significativi del documento sono la data e la sottoscrizione.
La sottoscrizione è l’indicazione grafologica del nome dell’autore; quella che comunemente viene detta firma e segnata dal precedente stampato F.to.
Ciò detto, sembrerebbe non esserci più alcun problema da risolvere. C’è, infatti, una dichiarazione; c’è un’indicazione temporo-spaziale ed una sottoscrizione; il documento è pronto ed utilizzabile: nulla quæstio… Ma sulla validità ed efficacia, più che sulla mera utilizzabilità, permangono dubbi. Dubbi risolti dai codici.
È, infatti, codicisticamente parlando che bisogna affrontare il tema dell’efficacia probatoria.
Il Codice Civile distingue due tipi fondamentali di prove documentali: l’atto pubblico e la scrittura privata. Sia l’uno che l’altra sono prove precostituite.
Ex art. 2699 c.c. l’atto pubblico è quel documento redatto, con le formalità di legge, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato. Tale atto, con debita sottoscrizione di tutte le parti, fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e delle dichiarazioni delle parti e dei fatti che, sempre il pubblico ufficiale, attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
L’ordinamento mette a disposizione delle parti lo strumento della querela di falso per inficiare (porre nel nulla) l’efficacia probatoria (legale) del documento. Al contrario, la verità e l’esattezza del contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti è come se fossero sempre soggette ad un potenziale scorporamento dalla “carta” che le contiene, dato che possono essere, da sole, contrastate con ogni mezzo di prova.
La scrittura privata riconosciuta legalmente o giudizialmente, fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da parte del sottoscrittore.
Praticamente, riconosciuta legalmente è quella scrittura autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale, che, accertando l’identità del soggetto, attesta che la sottoscrizione è stata dal soggetto apposta in sua presenza.
Sempre praticamente, il riconoscimento giudiziale si ha quando la parte, in giudizio costituita, comparendo dichiari espressamente di riconoscere la propria sottoscrizione (riconoscimento espresso).
Ma, dato che la legge impone l’onere del tempestivo disconoscimento, nel caso in cui la parte non dovesse disconoscerla, nella prima udienza essa si ritiene riconosciuta (riconoscimento tacito).
Nel caso in cui la scrittura è stata prodotta contro la parte contumace, ex art. 215 c.p.c. , sempre che sia stata espressamente indicata nell’atto giudiziario di parte (citazione o comparsa) e sia stata notificata alla parte contumace, si riterrà tacitamente riconosciuta.
Vediamo ora, in sintesi, i procedimenti di verificazione e querela ut supra citati. Costituiscono entrambi strumenti processuali volti all’eliminazione dell’efficacia di prova (legale) attribuita ai documenti (sia alla scrittura privata che all’atto pubblico) dalla legge.
Il procedimento di verificazione incidentale può avere ad oggetto, oltre alla sottoscrizione, anche la scrittura del documento. Esso presuppone che la parte produca in giudizio il documento e che la controparte (ovviamente, quella contro cui il documento è prodotto) lo disconosca (vale a dire: neghi la propria sottoscrizione) nella prima udienza o nella prima difesa. La parte che ha prodotto il documento e che, chiaramente, ha interesse ad avvalersene, deve chiedere la verificazione e, a tal fine, proporre i mezzi di prova ritenuti utili a indicare scritture atte a fungere da comparazione.
Proposta l’istanza di verificazione, il giudice dispone le cautele ritenute opportune per la buona custodia del documento, fissa il termine per depositare (in cancelleria) le scritture comparative, nomina (occorrendo) un consulente tecnico. Il giudice può, altresì, ordinare la scrittura sotto dettatura e alla presenza del nominato consulente.
Qualora la parte si rifiutasse, in quel frangente, di scrivere, la scrittura in atti potrebbe essere ritenuta quale riconosciuta.
Competente sull’istanza verificativi è lo stesso giudice investito del merito. Tuttavia, l’istanza de qua può essere proposta anche in via principale (ossia con domanda introduttiva d’autonomo processo).
Comunque verificata (incidentalmente o principalmente) la scrittura privata acquista la stessa efficacia probatoria della scrittura autenticata o riconosciuta.
La querela di falso è l’unico strumento posto a disposizione dell’operatore al fine di porre nel nulla sia un atto pubblico sia una scrittura privata qualificata (ossia autenticata, riconosciuta o verificata).
Per quanto attiene all’atto pubblico, la querela ha lo scopo di far accertare la falsità materiale (contraffazione) e/o ideologica.
Per quanto attiene alla scrittura privata (anche verificata) la querela tende ad incidere sul collegamento tra il dichiarato e la sottoscrizione.
Anche la querela di falso può essere posta principalmente o incidentalmente.
Nel caso in cui sia proposta in via incidentale, il giudice interpellerà la parte che ha prodotto la scrittura. Se tale parte non intende avvalersi della stessa, il documento non sarà utilizzato.
In caso contrario, il giudice autorizza la presentazione della querela.
Infine, vale ricordare che, per la sussistenza dell’interesse superindividuale tendente alla tutela della pubblica fede, il P.M. è chiamato ad intervenire; e competente a decidere sulla stessa sarà sempre il Collegio.
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