Nello specifico gli istanti erano risultati idonei non vincitori, poiché non si erano classificati tra i primi 850 concorrenti e pertanto impugnavano gli atti della procedura, lamentando sia l’utilizzo della stessa banca dati relativa ad una precedente prova poi annullata, sia la violazione delle regole di rispetto dell’anonimato, nonché la mancata presenza di testimoni durante la randomizzazione dei questionari somministrati in violazione del D.P.R. n. 487 del 1994.
I ricorrenti contestavano altresì il meccanismo del doppio binario di sbarramento che impedirebbe la prosecuzione dell’iter concorsuale non solamente per chi non raggiunge la sufficienza nella prova scritta, ma anche per chi non rientra nel contingentamento del numero dei candidati ammessi alle successive fasi concorsuali.
Per quanto attiene al petitum i ricorrenti esperivano azione di annullamento dei vari atti concorsuali, limitatamente alla posizione dei concorrenti, ed introducevano l’azione di risarcimento danni in forma specifica ai fini dell’ammissione dei medesimi alle successive prove concorsuali.
Il Ministero dell’Interno si costituiva contestando le azioni dei ricorrenti e il Tar con ordinanza respingeva l’istanza cautelare.
Successivamente, tramite motivi aggiunti i ricorrenti impugnavano altresì la graduatoria finale nella parte in cui non erano inclusi i propri nominativi deducendo i vizi già esposti sotto il profilo dell’illegittimità derivata.
A seguito di appello avverso la succitata ordinanza il Consiglio di Stato accoglieva il gravame “ai soli fini della celere fissazione del merito da parte del giudice di primo grado anche sulla scorta dell’orientamento espresso dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 23/2016”.
Il Tar Lazio quindi accoglieva nel merito il ricorso limitatamente al particolare profilo circa la violazione dell’anonimato, atteso che la questione di diritto risultava già affrontata dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in tema di selezione per l’ammissione al corso di medicina e chirurgia presso l’Università di Messina. In tale fattispecie, difatti, era stata stigmatizzata la violazione dell’anonimato come violazione rilevante di per sé “senza che sia necessario, per inferirne la illegittimità, ricostruire a posteriori il possibile percorso di riconoscimento degli elaborati da parte dei soggetti chiamati a valutarli”.
Difatti, ricorda il Tar, il criterio dell’anonimato rappresenta “il diretto portato del principio costituzionale di uguaglianza nonché specialmente di quelli del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione” che deve poter valutare senza condizionamenti esterni e garantendo la par condicio tra i candidati.
Pertanto, in ragione dell’esigenza dell’anonimato la pubblica amministrazione deve adottare a livello normativo regole che tipizzano rigidamente il proprio comportamento, volte a introdurre “cautele e accorgimenti prudenziali” anche nell’ottica della trasparenza dell’azione pubblica. Pertanto, quando essa di discosta in modo percepibile da tali regole comportamentali si determina “una illegittimità di per sé rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva” poiché in grado di minacciare il bene protetto da suddette regole.
Pertanto il collegio, richiamando il precedente dell’Adunanza Plenaria, e mutuando una terminologia tipica del diritto penale, qualificava la violazione dell’anonimato come “illegittimità da pericolo c.d. astratto” in quanto vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione, e come tale sanzionabile presuntivamente.
In pratica il giudice amministrativo ha ritenuto che la violazione della regola dell’anonimato nei concorsi pubblici, una volta accertata, non necessita di alcuna ulteriore specifica in termini di effettiva lesione in quanto già irrimediabilmente violato il canone dell’imparzialità.
In ragione di quanto esposto il Tar Lazio dichiarava la fondatezza del primo motivo assorbente.
Il particolare interesse della statuizione deriva, quindi, dal successivo ragionamento operato dal giudice amministrativo circa l’effetto dell’accoglimento del suddetto motivo.
Difatti il Tar, dopo aver premesso che le censure formulate sarebbero in grado di provocare l’annullamento dell’intera procedura, si preoccupava di individuare il reale interesse dei ricorrenti, ossia l’ammissione al prosieguo dell’iter concorsuale, mostrando per l’ennesima volta il livello di effettiva tutela raggiunto dal processo amministrativo, evidenziando ulteriormente il definitivo tramonto del processo sull’atto a favore di quello sul rapporto. Nel far ciò il Tar Lazio richiama altri analoghi precedenti – come Tar Sicilia, Palermo, n. 457 del 2012 e Tar Toscana, n. 1105 del 2011 – dove veniva ritenuta non praticabile la soluzione dell’annullamento integrale della prova in quanto, oltre a non essere satisfattiva per parte ricorrente, produrrebbe “pesantissimi effetti pratici”, ossia una maggiore e generalizzata ingiustizia per tutti i partecipanti, in particolare per quelli utilmente collocatisi in graduatoria.
Sembra quindi che il giudice amministrativo si sia appropriato di quegli strumenti volti a bilanciare i vari interessi in gioco – tipici della pubblica amministrazione – e a optare per la soluzione più congrua (che non necessariamente rappresenta quella più improntata a stretta legittimità), pur se ciò comporta la concessione di un beneficio eccessivo rispetto alla lesione effettivamente subita.
Sicché, ritenuti assorbiti gli ulteriori motivi – e quindi non trattati espressamente – il Tar Lazio accoglieva il ricorso obbligando il Dipartimento della Pubblica Sicurezza ad ammettere i ricorrenti al prosieguo dell’iter concorsuale anche in sovrannumero, proprio per l’esigenza di evitare ulteriori ingiusti pregiudizi.
A chiosa della sua motivazione il collegio invitata poi l’Amministrazione, quale ulteriore effetto conformativo della pronuncia, a rivalutare per il futuro le modalità con cui espletare le diverse selezioni concorsuali, individuando formule rispettose del principio dell’anonimato anche in un’ottica deflattiva da gravosi contenziosi, che comportano notevoli ripercussioni economiche sulle casse erariali.
È evidente come nel caso di specie il collegio si sia fatto carico delle conseguenze economiche e sociali della propria pronuncia, tanto da non poter prescindere di ricorrere da una particolare tecnica di modulazione degli effetti reali del giudicato.
Invero non è nuovo in giurisprudenza e in dottrina lo studio sulla dissociazione tra accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo e annullamento retroattivo dello stesso, che comporta una modificazione del ruolo tradizionalmente assegnato alla tutela costitutiva. La ratio è tipicamente quella di evitare annullamenti sostanzialmente inutili o dagli effetti pregiudizievoli.
Ebbene, tale necessità ha comportato l’utilizzo di una tecnica di modulazione temporale degli effetti della sentenza di annullamento che attribuisce al giudice amministrativo un potere di accertamento dell’invalidità dell’atto a prescindere dalla sua caducazione. Una siffatta tecnica assicura l’adeguamento della pronuncia di annullamento alle esigenze effettive del caso concreto, oltre che il contenimento delle conseguenze negative che sarebbero prodotte dalla naturale portata retroattiva della pronuncia.
Si può quindi constatare che la funzione del giudice amministrativo è ormai volta verso una irrimediabile evoluzione del proprio ruolo, cioè da garante della stretta legalità ad arbitro dei vari interessi posti in gioco, e che pur operando nei limiti dell’interesse azionato ha comunque acquisito la capacità di soddisfare, per quanto possibile, la pretesa del ricorrente assieme all’interesse più generale non solo della collettività ma anche degli altri soggetti direttamente o indirettamente incisi dagli effetti del provvedimento. Queste ulteriori potestà o tecniche di modulazione dell’efficacia del giudicato, tuttavia, certamente dovute alle mancanze ed incapacità della pubblica amministrazione, devono restare sempre confinate nell’ambito del potere giurisdizionale assegnato dall’ordinamento, proprio per evitare il rischio di una possibile – e quanto mai inammissibile – sovrapposizione di poteri pubblici.
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Luciana De Grazia, Laura Lorello, Giuseppe Verde (a cura di) | 2018 Maggioli Editore
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