La disposizione di cui al novellato quarto comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una indennità risarcitoria non è irragionevole, stante la correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente.
Il caso
Una lavoratrice si opponeva al decreto ingiuntivo datoriale con cui le era stato ingiunta la restituzione dell’indennità corrispostale nel periodo compreso tra la data del licenziamento e la data della sentenza che aveva riformato l’ordinanza di annullamento del licenziamento e di reintegrazione al lavoro.
Il Tribunale adito sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, quarto comma, della legge n. 300/70, come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92/12, nella parte in cui “attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento dl licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima”.
A detta del Giudice rimettente la qualificazione risarcitoria delle somme in discorso contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, della Costituzione.
Difatti – specifica il Tribunale – a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e della conseguente condanna datoriale alla riassunzione del lavoratore, verrebbe ripristinato il rapporto lavorativo e con esso il diritto alla retribuzione da parte del dipendente; ciò anche quando il datore si sottragga all’obbligo di reintegrazione, corrispondendo la relativa indennità, poiché in tal caso si verificherebbe un’ipotesi di mora accipiendi “con correlativa equiparazione, ai fini della spettanza della retribuzione, della mera utilizzabilità delle energie lavorative del dipendente all’effettiva utilizzazione”.
Diversamente opinando, ovvero se solo l’effettiva riassunzione del lavoratore fosse in grado di mutare da risarcitoria a retributiva la natura del titolo delle somme corrisposte dal datore in seguito all’annullamento del licenziamento, si verrebbe a determinare una ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo della ripetibilità della somme in parola, tra il datore adempiente all’ordine di reintegrazione ed il datore inadempiente a tale ordine, che si limiti a versare le somme a titolo risarcitorio.
La decisione della Corte Costituzionale
La Corte, nel ripercorrere l’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’art. 18 della l. n. 300/70, specifica che prima delle modifiche apportate dalla l. n. 108/90 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e, successivamente, dalla l. n. 92/12 il succitato disposto nella sua formulazione originaria – oltre a riconoscere al lavoratore il diritto al risarcimento del danno subito a seguito del licenziamento dichiarato illegittimo – prevedeva, a carico del datore inadempiente all’ordine di reintegrazione, l’ulteriore obbligo di corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli dalla data della sentenza di annullamento del licenziamento fino a quella della reintegrazione.
Tale iniziale approccio esegetico veniva cristallizzato nella sentenza n. 2925/88 della Corte di Cassazione, a sezioni unite, dove veniva esclusa la ripetizione delle retribuzioni corrisposte al lavoratore non reintegrato in caso di successiva riforma della sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento. Tale irripetibilità veniva ancorata all’applicabilità, nel caso in specie, dell’art. 2126 c.c. presupponendo una equiparazione tra la manifestata disponibilità del lavoratore a riprendere servizio e l’effettiva prestazione dell’attività lavorativa.
Tale esegesi entrò in rotta di collisione con la nuova formulazione dell’art. 18 della succitata legge – così come introdotta dalla l. n. 108/90 – alla quale si uniformò il nuovo orientamento giurisprudenziale a tenore del quale il rapporto di lavoro affetto da nullità può rientrare nell’ambito dell’art. 2126 c.c. solo se, e per il periodo in cui, il rapporto abbia avuto materiale esecuzione (così, ex multis, Cass. n. 23645/16; Cass. n. 1639/12; Cass. n. 3385/11).
Il suddetto revirement ermeneutico si pone, d’altronde, in linea con la nozione di retribuzione, così come delineata dalla Carta costituzionale (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094 e 2099), ed al correlato diritto alla sua percezione, riconosciuto solo in presenza di una effettiva prestazione lavorativa.
Se è pur vero – prosegue la Corte – che l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus, non può dirsi altrettanto sul piano fattuale dal momento che la concreta attuazione di quell’ordine, integrando un facere infungibile, non può fare a meno della collaborazione datoriale.
Da ciò ne consegue che la mancata ottemperanza (all’obbligo di reintegra) del datore, rappresentando una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, non farebbe altro che perpetuare le conseguenze dannose del licenziamento illegittimo, facendo sorgere un’obbligazione risarcitoria a suo carico nei confronti del lavoratore non reintegrato.
Per quanto sopra, quindi, il novellato art. 18 l. n. 300/70, nel prevedere la corresponsione di un’indennità risarcitoria nel caso di mancata esecuzione dell’ordine di reintegrazione, nei termini di cui sopra, non è da ritenere “irragionevole” come sostenuto dal rimettente, me coerente al contesto della fattispecie disciplinata, stante la correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente.
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