Al riguardo vale la pena di sottolineare che la ricerca dei significati del termine “Mafia” sia una ricerca necessariamente complessa, in quanto, da un punto di vista criminologico e socio-culturale, va di pari passo con la ricerca delle radici culturali, storiche e antropologiche del fenomeno sostanziale. La mafia è un fenomeno antico, complesso e mutevole nel tempo, la cui esistenza per lunghi periodi è stata negata.
È un fenomeno che cerca di rendersi invisibile ma al tempo stesso ha la necessità di essere percepito dalla società come presente e condizionante.
È un fenomeno camaleontico e mimetico, nel contempo sempre profondamente uguale a se stesso, le cui specificità antropologiche, culturali e psicologiche caratterizzano il pensiero mafioso come unico ed inconfondibile. Scrive Innocenzo Fiore, “il carattere singolare di una organizzazione deriva dalla specificità psicologica dei propri adepti, la quale non può essere confusa con quella di altri appartenenti a diverse organizzazioni[1]”.
La parola mafia cela uno stato d’animo, una filosofia della vita, una concezione della società, un codice morale, dati che costituiscono un modo di essere e di pensare che appartengono non solo agli uomini di una determinata organizzazione criminale ma che attraversa l’intera cultura locale.
Ciò premesso, l’approccio migliore per la comprensione del fenomeno è quello di tipo multidisciplinare, che abbracci varie chiavi di lettura, da quella socio-antropologica a quella criminologica psicologica. La proposta di lettura del fenomeno che ho trovato più soddisfacente parte da una premessa fondamentale: l’identità e il modo d’essere di una persona si formano dall’incontro tra l’individualità psichica e biologica e la cultura di riferimento, prima di tutto la famiglia e i valori di cui essa è portatrice.
Questa area di indagine è stata definita da Innocenzo Fiore “ il pensare mafioso”, quale sintesi dei significati relativi al modo di essere e di sentire, di guardare la vita, di creare e mantenere rapporti, di acquisire e trasmettere il sapere, tipici della cultura di appartenenza. La ricerca criminologica ha sintetizzato così i tratti psico-antropologici del “pensare mafioso”, riconducibili alla relazione complessa individuo-famiglia e società:
- il pensare mafioso è un modo di essere ereditato e trasmesso in seno alla famiglia;
- il pensare mafioso è un pensiero saturo del modello culturale che contiene una rappresentazione forte della famiglia e debole dell’individuo e del sociale.
Le Mafie sono un fenomeno molto complesso, vario, pervasivo e totalizzante, che ha interessato nel tempo diverse competenze e professionalità. Nel carcere le difficoltà aumentano in relazione al fatto che le organizzazioni mafiose sono in continua evoluzione e non esiste un modello di azione e di contrasto valido in ogni circostanza.
Vista la difficoltà della materia, il contributo di un’analisi criminologica deve essere ambizioso e deve favorire una maggiore chiarezza culturale e cognitiva, valutando lo spessore criminale del fenomeno, le differenze tra le organizzazioni, le loro proporzioni, le difficoltà e gli effetti che generano nella società civile e nel mondo penitenziario.
Parlando di mafia, le cronache la descrivono come qualunque struttura criminale a base associativa di vaste proporzioni, dotata di una elevata organizzazione, di mezzi economici, di un notevole potenziale di aggressività e violenza, i cui appartenenti siano per lo più riconducibili ad un ben definito ceppo etnico e / o ad una determinata area geografica.
Certamente i sistemi criminali appartenenti al genere mafia presentano precise radicazioni socio-culturali, rappresentano un corpus identitario su cui si organizzano le strutture interne, le regole, le attività criminali, la psiche, il modus operandi di queste persone. Tenere fermo questo principio di non sovrapponibilità e di specificità tra i sistemi criminali di tipo mafioso è centrale per comprendere il fenomeno ed evitare omogeneizzazioni pericolose.
La scelta di questa indagine criminologica sulla psiche mafiosa e sul conseguente comportamento dei detenuti mafiosi risponde ad una precisa esigenza: cercare di comprendere le strategie comportamentali e manipolative adoperate da questi detenuti nel carcere al fine di mettere a fuoco più realisticamente le possibilità di fronteggiamento al crimine organizzato nel contesto penitenziario.
L’istituzione detentiva si è mostrata un prolifico campo di indagine e di studio, ha permesso la raccolta di dati e comportamenti dei detenuti mafiosi, di osservare il loro modo di agire e vivere dentro il contesto carcerario, dando corpo ad inferenze e deduzioni importanti sul modo in cui la psiche mafiosa reagisce alla reclusione. Tentare di penetrare una maglia cosi complessa come il fenomeno mafioso in carcere non è compito semplice, neanche per chi si muove oltre il paradigma dell’indagine giudiziaria ma è interessato a comprendere il vertice psicologico e criminale del fenomeno.
L’analisi criminologica di questa tipologia di ristretti ha permesso di cogliere elementi che contribuiscono a delineare la matrice psichica degli appartenenti alle organizzazioni di mafia, in un contesto, quello penitenziario, che rispecchia e forse anticipa molte dinamiche esterne. Gli spunti di riflessione sono stati vari a partire dall’atteggiamento e dall’approccio con cui affrontano la detenzione gli esponenti di diversi clan di mafia.
Il carcere in genere dovrebbe determinare una drastica messa tra parentesi della vita e delle attività vissute all’esterno, ma, in relazione a tali ristretti, si avverte un particolare rovesciamento psicologico. Uno dei primi aspetti è il particolare modo in cui si presentano i detenuti mafiosi: molto attenti alla cura della persona, ordinati, disciplinati e attenti alle regole penitenziarie, dando una immagine fortemente in contrasto con il luogo in cui si trovano.
Mentre i detenuti comuni mostrano in genere grosse difficoltà a passare la vita in una cella, l’esperienza del carcere non sembra vissuta dai detenuti mafiosi con la sofferenza esistenziale di chi è privato della libertà personale, con la disperazione per una condizione certa e duratura di immobilità e alienazione dal mondo. Al contrario, costoro mostrano serenità e scioltezza nel muoversi all’interno degli istituti, sembrano, ad un primo approccio, estremamente diligenti. Si tratta di comportamenti che suscitano ad un operatore penitenziario estremo interesse: si può ipotizzare, al riguardo, che questo strano autocontrollo sia dovuto alla volontà di essere uomini “eccellenti” anche dentro il carcere, stigmatizzando le difficoltà connesse alla loro condizione.
A fronte di questo atteggiamento di spavalderia e sicurezza, andando a fondo nell’indagine e nello studio, si arriva ad una sensazione opposta, in quanto affiora la percezione di un radicale difetto di autostima nel mafioso, ravvisabile nel fatto che questi sente di essere qualcuno solo perché affiliato ed appartenente ad una organizzazione, mentre come individuo singolo non ha un grande spessore esistenziale. La questione criminologica sembra ruotare attorno ad un radicale conflitto: pur negando in apparenza l’esistenza, la pre-condizione di essere mafiosi e di appartenere ad una organizzazione, in verità, non esiste alcun dubbio sul fatto che il loro sistema organizzativo vada difeso ad oltranza, ricreando in carcere quel modello comportamentale, riproponendo quelle regole, quelle consuetudini, che possano preservare la rispettabilità e l’onorabilità propria e dell’organizzazione mafiosa.
Controllo, negazione, rigidità nei comportamenti, un controllo rigoroso anche nelle parole, sembrano essere meccanismi necessari contro cui la Polizia Penitenziaria deve confrontarsi ogni giorno nelle sezioni A.S.1 e A.S.3. La supervisione da parte dei capi mafia quale sorta di monitoraggio scientifico dei comportamenti degli altri detenuti appartenenti al medesimo sodalizio criminoso si ripropone sia nella scelta dei gruppi nei passeggi sia nell’assegnazione dei posti a sedere vicino al Capo durante i momenti di socialità. È ovvio quindi che, essendo il carcere una struttura contenitiva e coercitiva determinata dalla nettezza dei confini, di norme, di regolamenti, la gestione prudente anche delle distanze tra detenuti e di ogni loro comportamento diventa un aspetto fondamentale di quella funzione sociale di sicurezza pubblica che è propria dell’Istituzione penitenziaria.
Altro spunto di riflessione già anticipato è l’attivazione emotiva di negazione, da parte di questa tipologia di detenuti, rispetto al tema dell’esistenza dell’organizzazione mafiosa e dell’ostinato vittimismo espresso anche attraverso il discredito della magistratura e dello Stato. Di quale organizzazione criminale li stanno accusando ? – si chiedono. L’associazione mafiosa – sostengono loro – “è solo una creazione immaginaria per incastrare dei poveri innocenti”. E’ curioso come questo “leit motive” ritorni costantemente in tante forme e livelli. Questa idea sembra, tuttavia, invalidata da alcuni elementi contraddittori: emerge chiaramente che l’affiliato non parlerà mai dell’organizzazione per via del vincolo di segretezza, di solidarietà e omertà che li lega.
L’analisi prende anche lo spunto dalle differenze di natura psicoantropologica e culturale tra Cosa Nostra, N’drangheta e Camorra. Ciò induce a considerazioni e analisi diverse, a partire dal concetto di organizzazione, dal diverso rapporto con il territorio e il sociale, dal diverso valore dei legami affettivi. La Mafia siciliana, ad esempio, è molto più presente sul territorio, usa scientificamente e spietatamente le basi antropologiche della sua cultura, connettendosi strumentalmente con i gangli del sociale. La Mafia calabrese sembra invisibile, svela legami affettivi più forti e autoconservativi tanto da rendere molto ridotto il ricorso allo strumento della collaborazione.
Sarà, pertanto, necessario innanzitutto comprendere i problemi che attengono alla definizione di mafia; definire il quadro normativo che impone la differenziazione trattamentale e la creazione di diversi circuiti Alta Sicurezza; successivamente cercare di approfondire gli studi antropologici e criminologici sulla personalità dei detenuti mafiosi. L’ultima parte è dedicata ai rilievi criminologici del fenomeno in esame.
Giova premettere che l’esigenza, nel nostro ordinamento penitenziario, di classificazione e di separazione dei detenuti Alta Sicurezza è determinata da ragioni di pericolosità criminale e penitenziaria e rappresenta una sorta di pendant intramurario della differenziazione nell’accesso ai benefici di cui all’art 4 bis. OP.
L’aspetto qualificante e caratterizzante il circuito carcerario “Alta Sicurezza” è efficacemente riassunto nell’inciso “per i detenuti A.S. le esigenze della sicurezza devono prevalere su quelle trattamentali”. Evidente è il parallelismo con la presunzione di permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata di cui al primo periodo del comma 1, art 4 Bis., norma fondamentale nel contrasto ai fenomeni di proselitismo, di supremazia, di subordinazione, strumentalizzazione e di intimidazione in carcere.
Il quadro di riferimento: Le diverse organizzazioni mafiose
La nozione di mafia è troppo vasta per poter essere considerata omogenea in quanto esistono diverse forme di organizzazioni di questo tipo che si differenziano tra loro.
In generale le organizzazioni di tipo mafioso si caratterizzano per alcuni aspetti comuni come tendere a mescolarsi con la società civile, cercare di esercitare il massimo controllo sul territorio, di svolgere in apparenza attività imprenditoriali legali, conoscere sino in fondo le attività economiche presenti, riconoscere tempestivamente potenziali alleanze, eliminare i nemici[2].
La mafia è un sistema di potere politico-militare illegale e le organizzazioni riconducibili alla fenomenologia mafiosa sono “più o meno strutturate a seconda dei tempi e delle esigenze, si propongono di perseguire l’utile economico di un’élite attraverso il controllo e/o la conquista di posizioni di potere politico, la gestione diretta e massiccia dei mercati illegali, l’annullamento dei rapporti di solidarietà civile, utilizzando come mezzo non esclusivo, ma specifico, la violenza[3]” .La sottocultura mafiosa viene generalmente trasmessa ed appresa in famiglia, di cui si ha una rappresentazione forte – a fronte di una concezione debole dell’individuo singolo.
L’organizzazione mafiosa siciliana si chiama “cosa nostra”. Si tratta di una organizzazione criminale dotata di precise regole di comportamento, di organi formali di direzione, criteri di selezione rigidi, con una struttura organizzativa di tipo verticale, centri di potere provinciale e regionale (mandamenti e commissioni) ed una struttura di base detta “Famiglia”.
È importante il meccanismo di affiliazione in “cosa nostra”: la persona che ha le caratteristiche per essere affiliata viene lungamente osservata, anche a sua insaputa, da un uomo d’onore, che ne valuta il carattere e la personalità, la disponibilità a commettere reati di sangue.
Per questa organizzazione, l’impunità ha un valore fondamentale, è il segno visibile del prestigio dell’uomo d’onore e della sua sovranità sul territorio, rende evidente la sua capacità di condizionare lo Stato. L’impunità presenta vari aspetti: non essere perseguiti per le attività svolte, essere assolti o condannati a pene più lievi, non essere arrestati, ottenere dei trattamenti privilegiati in carcere. Il metodo principale è l’aggiustamento dei processi, con tutte le modalità possibili, dall’avvicinamento cauto e confidenziale, alla minaccia, sino all’omicidio punitivo.
Strettamente connesso all’impunità è il fenomeno delle latitanze, in particolare quelle domiciliari, presso la propria abitazione o comunque nella propria città. Questa è una condizione che accomuna il mafioso in genere, cioè organizzare la latitanza nel proprio territorio, poiché il radicamento sociale gli consente di nascondersi meglio, di evitare denunce, di essere informato delle operazioni di polizia. Inoltre, il suo allontanamento dal territorio sarebbe un segno di debolezza, di mancanza di fiducia verso i propri uomini, e quindi, significherebbe mancanza di quel prestigio necessario per ottenere fedeltà.
Mentre “cosa nostra” ha una struttura gerarchica, verticistica, la “camorra” nasce da una serie di piccole organizzazioni che si compongono o scompongono, attraverso una struttura pulviscolare. La camorra ha origini fortemente cittadine, diversamente da cosa nostra e dalla ‘ndrangheta. Nasce e si sviluppa nella città di Napoli ed è strettamente intrecciata alla storia di questa città. L’origine metropolitana le ha fatto acquisire una cultura della negoziazione, come forma essenziale delle relazioni sociali, così come una fisionomia aperta, dinamica, preparata ai mutamenti improvvisi. La “camorra” diversamente da “cosa nostra”, non contrappone un ordine alternativo a quello dello Stato, ma si limita a governare il disordine sociale. È rivolta verso la disperazione sociale, dove recluta la maggiore manovalanza. Instaura una relazione di dominio verso gli emarginati e i nulla tenenti, attraverso l’offerta di facili guadagni e attraverso il suo particolare rapporto di integrazione e di dominio verso gli strati piu poveri, “si confonde con l’illegalità diffusa”.
La Camorra è molto più invasiva delle altre organizzazioni, è in grado di affermare un modello criminale fondato sull’intermediazione violenta in qualsiasi attività economica. Spietatezza, cinismo, violenza, opportunismo economico sono caratteri comuni alle varie organizzazioni mafiose, ma nella “camorra” hanno una impronta più forte per la sua natura mercenaria: non c’è attività redditizia che non possa essere svolta, non c’è prestazione che non possa essere assicurata, non c’è relazione politica che non si possa avviare.
Un tratto tipico dei camorristi, molto utile all’osservazione in carcere, è dato dalla estrema visibilità ed ostentazione degli appartenenti. Al riguardo, ben diverso dalle altre organizzazioni è l’approccio con il carcere[4]. Per il comune delinquente il carcere è una sorta di male necessario, comporta la caduta degli introiti, la separazione dalla famiglia, l’impossibilità di avere un proprio ruolo nella vita esterna, la necessità di sottomettersi alle gerarchie e regole dello stato. L’affiliato a “cosa nostra” cerca di entrarvi il meno possibile perché l’ingresso in carcere potrebbe significare perdita di affari, di denaro, di potere e di influenza[5]. Nella cultura camorristica, proprio per quel bisogno di ostentazione e affermazione, “entrare in carcere è segno di valore[6]”, è segno che si sono commessi dei reati; è perciò naturale vantarsi delle detenzioni subite. Il carcere è un pregio, un vanto perché si acquista più valore”.
La differenza trova la sua ragione d’essere nella struttura stessa della “camorra”, che non ha organizzazioni ben strutturate, criteri di selezione e reclutamento certi, né cerimonie iniziatiche radicate come “cosa nostra”. Il carcere diventa cosi un banco di prova che supplisce a questa mancanza di criteri selettivi. Il passaggio in carcere mostra quindi la qualità criminale del camorrista, il suo comportamento dimostra se è in grado di comportarsi bene in condizioni di difficoltà.
Ma questa non è la sola ragione. Vi è una ragione storica, ovvero lo stretto rapporto tra Camorra e malavita minore, il ruolo storico di governo all’interno del carcere della bassa camorra.
Il detenuto mafioso e il carcere nella storia
Al momento della sua entrata in vigore, la Legge 354 del 75 non prevedeva disposizioni che si occupassero in modo specifico dei soggetti detenuti per reati di mafia. La ragione si coglie, con molta probabilità, nella scarsa attenzione del legislatore dell’epoca al fenomeno mafioso, nel particolare impegno dello Stato impegnato in via prioritaria nella lotta al terrorismo politico.
Una volta cessato il fenomeno del terrorismo eversivo, si assistette al nuovo dibattito sulla custodia dei detenuti definiti “mafiosi”, atteso che dalle informazioni in possesso dell’Amministrazione a partire dagli anni ‘60[7], all’interno delle carceri si andavano formando aggregazioni spontanee di detenuti, in base alle diverse provenienze geografiche (clan dei siciliani, calabresi, napoletani, sardi).
Il carcere non ha mai costituito un deterrente efficace nei confronti della delinquenza mafiosa, anche per la semplice ragione che il mafioso metteva sistematicamente in conto di essere arrestato prima o poi e conseguentemente all’incarcerazione di un capomafia veniva nominato un sostituto. La detenzione non produceva di per sé la cessazione dei rapporti che legavano il soggetto alla famiglia e all’organizzazione mafiosa. Quest’ultima provvedeva al sostentamento della famiglia del detenuto, gli metteva a disposizione quanto era necessario per migliorare il suo tenore di vita, compresa l’assistenza legale, e se necessario si adoperava per condizionare l’esito del processo a suo favore.
La condizione di favore per certi soggetti derivava dall’appartenenza ad una famiglia o associazione mafiosa: maggiore era il peso che questa esercitava nell’economia e nella società esterna, maggiore era la possibilità di guadagnare condizioni di vivibilità estranee ai detenuti comuni. Grazie alla particolare influenza esercitata sulla restante popolazione detenuta, i mafiosi detenuti ricoprivano ruoli di preminenza arrivando, in alcuni casi, ad influenzare certi equilibri all’interno del carcere[8].
La detenzione era uno strumento per accrescere il proprio prestigio personale. Già nel 1899 il deputato Giuseppe De Felice-Giuffrida, nel denunciare i soprusi a cui erano soggetti i contadini dell’epoca rispetto allo strapotere dei padroni terrieri, sottolineava come le dinamiche di potere all’interno delle organizzazioni criminali si formassero attraverso l’interazione con l’istituzione carceraria. Il carcere era considerato per lo più un luogo di reclutamento di nuove leve e di incontri tra mafiosi. Il pentito Salvatore Annacondia, parlando del suo rapporto con altri detenuti ebbe occasione di dire: “Una volta che sono passati dalla tua parte, li riconosci come tuoi ragazzi. Bisogna battezzarli poi e tu sei il loro padrino. Loro oramai conoscono il vero papà, perché gli dà da mangiare, li protegge. Loro si sentono forti; vengono arrestati e dicono: appartengo a Salvatore Annacondia. Allora si sentivano protetti e forti perché andavano nel carcere di Milano e venivano rispettati perché erano miei ragazzi”.
La soggettività’ mafiosa: il concetto di onore, di omertà e il segreto
Esiste un rapporto tra le azioni criminali, le condotte degli appartenenti ad organizzazioni mafiose e il senso dell’onore che questi personaggi hanno e pretendono di ricevere. Tra le numerose strutture criminali appartenenti alla Mafia, quella che ha sviluppato un vero codice d’onore è “cosa nostra”, ma appartiene a tutte le citate organizzazioni la presenza di un codice di comportamento non scritto ma tramandato anche al di fuori dell’ambito familiare.
Le conoscenze sull’organizzazione interna di “cosa nostra” si devono prevalentemente all’opera di Giovanni Falcone, il primo magistrato che ha rotto il muro di omertà a partire proprio dal carcere, avvalendosi dell’aiuto dei pentiti.
Uno storico contemporaneo, Giuseppe Carlo Marino, descrive magistralmente il significato del concetto di onore: “per un grande mafioso, il rispetto della legalità imposta dallo Stato non sarebbe altro che una caduta nella mediocrità del vivere. Invece, una vita non mediocre e degna di onore, che fa di un individuo comune un Uomo, ubbidisce a regole autonome, vincolate ai privati interessi di famiglia, alle tradizioni dell’ambiente sociale di appartenenza. Il suo è un illegalismo convinto, avvertito come necessario, obbligante e senza alternative, per avere un diritto ad una dignità, ad un prestigio che altrimenti non avrebbe”[9].
Marino accosta questa descrizione delle idee dell’uomo d’onore al concetto di “personalità autoritaria” prepotente ed arrogante sviluppata dal filosofo marxista tedesco TW Adorno:“se le leggi esistono e valgono per gli altri, non possono comunque vincolare la sua primigenia autorevolezza” .
La cultura dell’omertà è un dato antropologico, trasmesso da secoli, un codice familiare e sociale: dal punto di vista mafioso, l’omertà raffigura il senso di appartenenza e la scissione dall’esterno, dal sociale, da quello Stato con cui è impossibile identificarsi. Il non dire, il segreto, proteggono la dimensione della famiglia, intesa come nucleo criminale, di fronte l’alterità di un fuori minaccioso.
Uno degli elementi più inquietanti dell’organizzazione mafiosa è la capacità di essere perpetuata nel tempo senza produrre mai nessun documento scritto circa la propria esistenza, avvolta nella segretezza, nell’invisibilità. La segretezza è davvero l’aspetto essenziale, si esprime in forme molteplici, permea il comportamento e la mentalità degli uomini d’onore, fino nei particolari più insignificanti della vita di tutti i giorni[10]. L’interpretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi, dei silenzi, costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore; difficilmente mostra fino in fondo quello che sente emotivamente o quello che prova, spesso uno sguardo è più indicativo di tanti discorsi.
Il segreto e la riservatezza sono un codice che garantiscono la sopravvivenza e l’eternarsi dell’organizzazione; chi viola il codice si pone al di fuori delle regole e viene escluso dal proprio clan.
Il senso mafioso della famiglia
Partendo da un principio base di sociologia, il comportamento criminale può essere considerato il prodotto che coinvolge interazioni complesse tra fattori biologici e socio-culturali, tra cui rientra certamente la famiglia e l’ambiente.
La Criminologia ci insegna che l’insieme di questi fattori in continua interazione può essere sintetizzato nel concetto di “fattore psicologico”, nel senso che c’è sempre necessariamente un comportamento individuale che precede un crimine. La sfera psicologica individuale rappresenta l’interfaccia tra gli imput interni (biologici) ed esterni (socio-culturali e ambientali) e gli output (il comportamento criminale).
Volendo concentrare l’attenzione in particolare sulla sfera familiare, in letteratura, è abbastanza pacifico che il nucleo familiare possa incidere fortemente sul processo criminogenetico, attraverso alcuni fattori empirici: indageguatezza dei genitori, abuso e trascuratezza verso i figli, deprivazione materna e paterna, comunicazione intrafamiliare carente, modello educativo violento, degrado culturale e morale, criminalità dei genitori, tossicodipendenza e alcol dipendenza dei genitori, violenza intrafamiliare.
Ciò premesso, il pensare mafioso è un modo di essere ereditato e trasmesso transpersonalmente in seno alla famiglia, che contiene una rappresentazione forte della famiglia e debole dell’individuo come singolo. E’ noto come le organizzazioni di tipo mafioso siano rigidamente formate e costituite prevalentemente da uomini, attraverso la enfatizzazione di un codice di valori che si identificano come modelli tipicamente maschili: il coraggio, il valore, la magnanimità, il rispetto, la freddezza, la forza, la virilità. La donna, tuttavia, dice il professore Innocenzo Fiore, “ha un ruolo determinante nella formazione e nel mantenimento della cultura mafiosa, ruolo che è stato definito di “centralità sommersa”, che si estrinseca essenzialmente nell’essere custode dell’onore della famiglia, nell’essere esclusiva responsabile della funzione educativa dei figli”.
In chiave psicologica la cultura genitoriale è normalmente suddivisa in tre tipi di culture specializzate: la cultura materna, si fonda sostanzialmente sullo scambio tra protezione ed accudimento a fronte di una totale obbedienza ed assoluta fedeltà dovuta dal figlio al genitore; la cultura paterna, quella delle regole e dei doveri appresi con la maturazione e progressivamente dal figlio con l’acquisizione di margini di autonomia individuale; infine la cultura fraterna, che si riassume nei codici della competizione e della solidarietà.
Orbene, secondo la lettura offerta da Innocenzo Fiore e condivisa dal Prof. Girolamo Lo Verso di Palermo, “la famiglia in cui origina e si perpetua il pensare mafioso è una famiglia di cultura materna, la quale mette in atto una vera e propria sopraffazione rispetto agli altri modelli culturali”.
Nella sequenza evolutiva del soggetto all’interno della famiglia mafiosa, il passaggio dalla cultura materna della protezione a quella paterna, che consente al soggetto di rendersi progressivamente autonomo, viene soffocato dalla prevaricazione del modello materno, impedendo all’individuo di concepirsi come soggetto autonomo. Il legame tra l’individuo e la famiglia, nel sentire mafioso, rimane, pertanto, saturo di interferenze psicologiche anche drammatiche: il pensiero dell’autonomia è un pensiero di tradimento e, dunque, genera ansia, frustrazione, aggressività, ogni bisogno di superare o rimodulare il legame con la famiglia, che si sviluppa naturalmente nell’individuo, si trasforma in pensiero di tradimento.
Conclusivamente, l’unico NOI che il soggetto, appartenente ad una famiglia mafiosa, specie del tipo “’ndrangheta” o “cosa nostra”, può riconoscere è quello della famiglia che obbliga i figli ad una condizione di dipendenza, secondo la logica dello scambio protezione con fedeltà e obbedienza.
Come sottolinea il Prof. Lo Verso, la cultura mafiosa è la cultura dell’assenza del dubbio, dove non vi è la libertà di avere o alimentare dubbi, incertezze, contrapposizioni o peggio conflitti, ma si regge su un patrimonio valoriale semplice, assertivo e indiscutibile. Una cultura costruita su un nucleo quantitativamente e qualitativamente semplice di assiomi costituisce un eccellente sistema immunitario rispetto alle possibili contaminazioni derivanti da occasionali contatti con sistemi culturali diversi ed antagonisti. Anche il sistema della legalità e della giustizia della legge è destinato ad essere immediatamente individuato come antagonista, estraneo e quindi rigettato.
L’opinione comune ritiene che le organizzazioni mafiose siano, come più volte detto, delle strutture rigide, che il legame di un affiliato alla sua organizzazione sia più forte dei rapporti di parentela. Si continua a ritenere che l’organizzazione mafiosa sovrasti e annulli in certi casi i legami di sangue. Certamente il punto di forza delle organizzazioni mafiose è il “patto mafioso”, cioè quel rapporto di pronta e totale adesione a regole etero-imposte, in grado di spersonalizzare l’associato al punto da costringerlo a rinnegare i legami familiari in nome di un “superiore ideale criminoso”. La criminologia aiuta a distinguere una lettura del fenomeno propagandata dalla cultura mafiosa da un esame obbiettivo di come si atteggiano in concreto le strutture criminali.
Se ci si ferma ai contenuti formali, ai proclami, si rischia di parlare però di una mafia interpretata, semplificata e di carta. Infatti, la storia ha dimostrato che il vincolo di sangue spesso prevale sulle regole del cursus honorum della militanza, non fosse altro perché ritenuto più efficace e più funzionale di un formale e coltivato legame mafioso. Spesso, infatti, il vincolo di sangue, con la sua possibilità di ottenere colloqui, con la possibilità di avvicinarsi o essere in contatto diretto con i vertici dell’organizzazione (pensiamo al fratello, al figlio o nipote di un Capo), è ritenuto dai vertici dell’organizzazione ben più importante e funzionale di ogni altra attitudine mafiosa.
L’arresto e la solidarietà mafiosa: il detenuto appartenente alla criminalità organizzata
Il mafioso non cessa mai di esserlo quali che siano le vicende della sua vita. L’arresto e la detenzione non solo non recidono i legami con riorganizzazione ma, anzi, attivano quell’indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti ad una organizzazione di tipo mafioso. Al riguardo, gli uomini d’onore e i loro familiari vengono sostenuti economicamente durante la detenzione dalla famiglia di appartenenza. Non si tratta di un aiuto irrisorio se si considera che spesso il detenuto di un certo spessore mafioso rifiuta anche il vitto dell’amministrazione penitenziaria per quel senso di distacco e spregio generalizzato che nutre verso lo Stato[11].
Naturalmente tale solidarietà viene meno in caso di collaborazione, piuttosto si trasforma in necessaria vendetta per il tradimento subito, coinvolgendo l’intera famiglia del pentito. Tale vendetta originariamente indirizzata contro i soli familiari maschi, si è fatta negli ultimi decenni più sanguinaria arrivando a colpire anche i bambini, scontando la sola colpa del legame di sangue.
Pur in assenza di prova, sembra che oggi i mafiosi siano giunti ad un nuovo accordo : coloro che sono detenuti e rischiano l’ergastolo o pene comunque molto lunghe, al fine di ottenere sconti e benefici, possono pentirsi rispettando una serie di condizioni: limitarsi a raccontare retroscena già noti, incolpare se stessi, persone morte, altri pentiti. In tal modo le attività dell’organizzazione e gli uomini in libertà possono continuare a prosperare senza temere nulla.
Tornado alle conseguenze di una detenzione relativa ad un esponente di rilievo all’interno dell’organizzazione, secondo il codice mafioso, verrà sostituito da un vice nelle decisioni importanti[12], ma il capo cercherà sempre di far conoscere il suo punto di vista attraverso collegamenti con il mondo esterno. Tale punto di vista non è ritenuto vincolante nella decisione contingente, ma cessata la detenzione può pretendere che il vice gli renda conto delle decisioni adottate.
Infine, una regola di condotta conseguente all’arresto e alla detenzione è quella secondo la quale l’uomo d’onore raggiunto da gravissimi indizi di colpevolezza che giustificano la custodia in carcere non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire alla condanna: siffatto comportamento sarebbe indicativo dell’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Tuttavia, sono numerosi gli esempi di uomini d’onore detenuti che hanno simulato la pazzia anche in considerazione del fatto che tale condotta non viene sanzionata dall’organizzazione.
Il mafioso detenuto è un particolare tipo di autore di reati: “assume la fisionomia di persona inserita economicamente nella società, perfettamente integrato seppur con caratteristiche svariate e plasmato sui modelli della civiltà dei consumi[13]”.
Non è il carcere a dare al detenuto lo status di mafioso o a crearlo come tale, in quanto la mafiosità è un connotato che si acquisisce all’esterno nella società libera. Solo un operatore di Polizia Penitenziaria con un buon bagaglio di esperienza tecnico professionale (conoscenza profonda dell’ambiente, del quartiere, dei legami di parentela) unitamente ad un personale intuito e spirito di osservazione, potrà individuare il soggetto che presenta caratteristiche tipiche della mentalità mafiosa, definita, appunto, “spirito di mafia”. All’interno dell’istituto penitenziario si possono cogliere aspetti comportamentali (ad. es. ingiustificati favoritismi o privilegi da parte di alcuni detenuti verso altri, forme di sospetta prodigalità, aspetti di esagerato protezionismo verso emarginati, linguaggio ambiguo, rapporti umani di dubbio fraternismo, eccessivo rispetto verso il personale penitenziario) che confermano questo spirito di mafia. Ma come sottolinea Il dott. Giuseppe Gebbia, “questa mentalità non basta a configurare il soggetto come mafioso: è necessario che questo elemento psichico si concretizzi in atti di mafia che si rilevano attraverso i reati contestati, le sentenze di condanna, provvedimenti di prevenzione, non potendo mai trascurare che tali soggetti, a differenza del delinquente comune, non opera quasi mai da solo, ma all’interno del gruppo e delle famiglie”.
L’osservazione criminologica non può sottrarsi dall’apportare il suo contributo scientifico – conoscitivo coadiuvando il lavoro di contrasto svolto dagli operatori penitenziari. È necessario compiere un’analisi contingente, rigorosa, composita e storicizzata delle manifestazioni comportamentali e psichiche connesse al fenomeno mafioso in carcere.
La gestione dei detenuti mafiosi è una problematica penitenziaria particolarmente difficile ed attuale, atteso che nelle carceri, soprattutto quelle del sud Italia, si ripropongono in modo esasperato ed in forma più drammatica modelli di organizzazione sociale che sono già presenti e consolidati nella società libera. Per anni il carcere ha rappresentato le condizioni generali della società criminale, perché vi si stabilivano centri di potere e sopraffazione. Come sottolineato da Giuseppe Gebbia nella relazione presentata nel convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati, “la Mafia trova nel carcere un serbatoio in cui è facile reclutare la propria manovalanza criminale; è la sede legale delle cosche in cui si decidono collegialmente comportamenti processuali, intimidazioni e quant’altro serve per l’inquinamento, l’occultamento o la distruzione delle prove”. Proprio per questi motivi, l’ordinamento penitenziario prevede l’assegnazione di questa tipologia di ristretti in stabilimenti penitenziari lontani dai luoghi di residenza o da quelli in cui operano le organizzazioni mafiose, al fine di diminuire le conseguenze di un accentramento nello stesso istituto di detenuti pericolosi. La concentrazione nello stesso istituto di capi e gregari delle organizzazioni determinerebbe incontrollabili canalizzazioni di azioni criminali sia verso la comunità interna che verso quella esterna.
L’osservazione in carcere dei detenuti classificati Alta Sicurezza
I detenuti classificati “Alta Sicurezza” vivono la detenzione cercando di non apparire deboli o in difficoltà agli occhi degli operatori penitenziari o di altri detenuti, anche quando devono rappresentare un problema personale che, infatti, viene spesso esternato polemicamente. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto del circuito A.S.1, (vale a dire proveniente, per declassificazione, dal regime speciale di cui all’art. 41 Bis Ordinamento penitenziario) si relaziona di meno con gli operatori penitenziari proprio per quella tendenza a mostrarsi sicuro di sé. Possono mostrare un comportamento più spavaldo che denota una certa sicurezza dei propri mezzi, più apparente che reale, finalizzata per lo più ad incutere un certo timore reverenziale sia nei confronti degli operatori penitenziari e di altri detenuti. Il rapporto tra i detenuti A.S. all’interno della camera detentiva è solitamente improntato al rispetto e alla collaborazione reciproca, difficilmente emergono incompatibilità che sfociano in liti o atti eclatanti sotto il profilo della sicurezza.”
Ciò in quanto il detenuto mafioso è obbligato a tenere un comportamento consono alla sua qualità e reputazione, rispettando i codici di comportamento mafiosi e, se aveva un ruolo di leadersheep nella organizzazione criminale, tende a comportarsi come tale tra i detenuti, intervenendo per dirimere questioni tra gli stessi. Al riguardo, il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici.
Questo tipo di detenuto ha un modo maggiormente sofisticato di contestare le istituzioni dello Stato, cerca il modo per vivere le detenzione il più tranquillamente possibile, cercando con astuzia di continuare a tenere i contatti con l’esterno per non perdere credibilità con le famiglie. L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse ad una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti[14] e gli operatori penitenziari sono meno propensi a favorire attività comuni ricreative o sportive”[15].
Si nota una diversità tra un boss ed un semplice affiliato anche dal tono di voce usato, dalla cura della persona, dall’abbigliamento. In genere, i capi riconosciuti all’interno della organizzazione sono molto orgogliosi, fanno richieste più specifiche e importanti, celando il tentativo di ricostituire un gruppo di fiducia, puntano alle telefonate extra e ai colloqui straordinari con la famiglia di tipo permanente. Questi detenuti tendono di celare fortemente il proprio disagio per affermare la propria forza e conseguire ossequio e rispetto: cosi facendo il detenuto mafioso lancia una sorta di sfida allo Stato. Egli non è un emarginato ma perfettamente integrato perché è nel carcere che deve rivelare il suo spessore criminale, sia pure in forma esteriore. Al riguardo, il detenuto di maggior spessore tende non solo a conseguire un certo grado di rispetto dagli altri detenuti ma a ricercare una sorta di tutela e protezione dai compagni di detenzione.
Inoltre, in modo particolare nel circuito AS1, il detenuto per sua natura non ammette mai l’appartenenza ad alcuna cosca, cerca di dare di sé l’immagine di una persona rispettosa, si distanzia con sorpresa dall’accusa di essere un delinquente: al riguardo, il mafioso, in genere, accusa giornalisti, carabinieri e poliziotti di rovinare onesti padri di famiglia per una tendenza al vittimismo che lo porta a considerarsi una vittima dello Stato, poiché ritiene che la scelta di vivere nell’illegalità ha rappresentato da sempre l’unica alternativa ad una condizione di disagio e di sofferenza. Lo Stato è visto come nemico, come estraneo ai suoi problemi, ha trascurato i suo figli, i suoi genitori, per cui si tratta “inevitabilmente” di una scelta di vita criminale obbligata.
Conclusivamente possiamo dire che i detenuti appartenenti al circuito Alta Sicurezza sono una categoria particolare per due aspetti: non hanno una pericolosità penitenziaria etero-aggressiva e per questo non sono quasi mai protagonisti di criticità autolesioniste o disordini, tuttavia hanno una rilevanza ed un peso criminale più significativo e questo richiede una particolare attenzione nella prevenzione e sorveglianza nonché nell’osservazione dei loro comportamenti e delle loro richieste.
Al riguardo vale la pena sottolineare un fenomeno anomalo, segnalato dalla Procura nazionale antimafia, ovvero la strategia di molti boss-mafiosi detenuti di dotarsi del titolo accademico universitario quale mezzo per il mantenimento di una posizione di supremazia e per avere quella caratterizzazione di invisibilità ed entrare nel mondo delle istituzioni. In particolare si è rilevato che “alcuni elementi potrebbero far ritenere utile una maggiore analisi sotto il profilo della riconducibilità a talune strategie di condotte”. Dunque nella strategia mafiosa, anche quella di capitalizzare i profitti universitari: “molti detenuti 41-bis avevano in corso iscrizioni universitarie presso sedi molto distanti dal luogo di detenzione e spesso coincidenti con le proprie origini criminali e territoriali. Ciò ha comportato, in passato, il passaggio di detenuti presso carceri del sud Italia per sostenere gli esami, così di fatto vanificando parte degli effetti di prevenzione”.
Adesso i detenuti sottoposti al regime speciale del 41-bis comma 2, ord. pen. possono sostenere esami solo in videoconferenza, mentre quelli della fascia Alta sicurezza possono iscriversi solo in una sede vicina a quella in cui sono ristretti, con la possibilità per il professore di venire ad esaminarli in carcere, ma non si esclude che nella scelta dei boss ci possa essere uno scopo strumentale.
Un’attenzione particolare merita l’approccio dei detenuti Alta Sicurezza con il sistema sanitario. Al riguardo il rapporto con il medico costituisce un aspetto fondamentale della tendenza al vittimismo mafioso. Il detenuto mafioso è abilissimo a cogliere il “locus resistentiae” del sistema giustizia: infatti, inizia sin dal momento dell’ingresso in istituto a cercare le debolezze del sistema penitenziario, le possibili vie “traverse” per guadagnare spazi di libertà sotto un’apparente legalità. Al riguardo il Dott. Gebbia ha dichiarato: “di fronte alle rivendicazioni in genere strumentali relative alla salute è ben difficile assumere una linea rigida senza apparire dalla parte del torto”.. “veri e finti problemi di salute sono usati per ottenere, nell’ambito dell’istituto penitenziario o con ricovero in luogo esterno di cura, spazi di libertà, contatti con i familiari, modi di resistere alle costrizioni della vita dell’istituzione”. Si tratta di situazioni molto complesse e difficili da interpretare, atteso che il carcere inevitabilmente suscita ogni tipo di stato d’animo, come il senso di abbandono, l’ansia, l’angoscia, l’aggressività, è di per sé una causa di squilibrio della salute psicofisica del detenuto. Ma la salute, come detto, oltre che essere un’aspetto rilevante della persona, diviene uno strumento molto duttile e strumentalizzabile dai detenuti mafiosi. Gli scopi di tali strumentalizzazioni sono tanto più evidenti a seconda della fase in cui si trova il procedimento a loro carico. Per cui il magistrato competente a disporre i ricoveri in luoghi esterni di cura si vede impegnato a compiere una serie di indagini complesse per scoprire tentativi di simulazioni o strumentalizzazioni che vanno dalla libertà provvisoria per incompatibilità con il regime detentivo al rinvio del processo per oscure finalità, dall’assoluzione per incapacità di intendere e di volere alla sospensione della pena per sopravvenuta infermità.
Infine, sono frequenti da parte di questa tipologia di detenuti le richieste di autorizzazioni a compiere atti giuridici attraverso terzi. I detenuti mafiosi temono per i loro patrimoni, per cui rivendendo a terzi di buona fede il loro patrimonio, cercano di eludere la misura fiscale del sequestro e della confisca quali misure di prevenzione.
Comunicazione” mafiosa
La comunicazione è una condizione essenziale della vita umana e dell’ordinamento sociale, poiché contribuisce a creare il senso di identità e permette soprattutto la trasmissione di informazioni tra i membri della società. La comunicazione avviene su tre livelli: verbale, che ha una incidenza del 7 % sull’intero processo comunicativo, paraverbale, con una incidenza del 38 % circa; il non verbale, cioè quanto può essere prodotto o variato con movimenti del corpo (55 %). Il tipo di comunicazione da approfondire all’interno di gruppi di detenuti di tipo mafioso nel contesto penitenziario è, certamente, quella non verbale, poiché è la più diffusa e maggiormente difficile da interpretare.
La comunicazione non verbale, secondo gli studi di psicologia[16], svolge diverse ed importanti funzioni nel comportamento sociale dell’uomo. L’idea di una persona, che possiamo crearci, proviene essenzialmente dal suo comportamento. Le funzioni svolte dal linguaggio non verbale sono: instaurare una relazione, partecipare alla presentazione di sé, completare una comunicazione verbale, regolare l’interazione sincronizzando turni e sequenze, sostituire la comunicazione verbale dove necessario[16]. La comunicazione non verbale è costituita dal comportamento spaziale, strettamente condizionato da fattori culturali, da fattori socio-emozionali, dalla struttura fisica dell’ambiente. Il comportamento spaziale comprende: il contatto corporeo, che ci indica il senso di intimità, la distanza interpersonale, (intima, personale, sociale, pubblica), l’orientazione (i rapporti di collaborazione tra due persone interagenti), la postura (che dà informazioni circa lo stato emotivo). Il secondo fattore costitutivo è il comportamento motorio-gestuale, comprende i cenni del capo, i gesti manipolatori del proprio corpo. Infine il comportamento mimico del volto e il comportamento visivo. Questi due fattori hanno un ruolo determinante nel comunicare atteggiamenti interpersonali, aspetti tipici della personalità dell’individuo e nell’instaurazione di relazioni.
Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione, ma il primo ha più possibilità di essere trasmesso con il linguaggio verbale, mentre il linguaggio non verbale ha una netta predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.
Nell’interpretare i gesti, i codici di comunicazione, gli aspetti non verbali ed esteriori della comunicazione tra gruppi di detenuti mafiosi, è importante attenzionare e interpretare la ricchezza della gestualità che si accompagna al discorso (possono essere anche segnali vocali non verbali, la mimica del volto, l’atto di silenzio, l’abbigliamento, la postura, la posizione all’interno di un gruppo di persone o in un contesto, gli atteggiamenti rivolti dagli altri al soggetto da osservare).
L’agente di Polizia Penitenziaria addetto a determinati servizi (vigilanza cortili passeggi, sezioni, infermeria, colloqui, vitto e sopravvitto, socialità, attività di gruppo), ha la necessità di combinare questi due tipi di linguaggio, verbale e non e deve costantemente tradurre dall’uno all’altro per interpretare la comunicazione e comprendere le dinamiche psico-sociali all’interno dei gruppi, nell’ottica sdi una efficace attività di polizia amministrativa della prevenzione generale.
I detenuti mafiosi presso i circuiti A.S., come già sottolineato, sono soggetti molto abili ed espressivi, dotati di una buona capacità di autogestione e, soprattutto quelli del circuito A.S.1 pienamente consapevoli della propria identità di leader. Questi detenuti sono profondi conoscitori del carcere, delle dinamiche psicosociali che si sviluppano all’interno, conoscono bene la popolazione detenuta, i meccanismi criminali importati dall’esterno e che si possono diffondere all’interno. Essi sono perfettamente in grado di ricreare, attraverso strategie manipolative e comportamentali, quelle condizioni idonee a far sviluppare e riconoscere nuove risorse criminali.
Quelli mafiosi sono gruppi dove è forte il contagio, dove non emergono individualità ma meccanismi di leadership che favoriscono il proselitismo. In genere i gruppi all’interno delle sezioni A.S.1 e A.S.3 sono derivanti da rapporti di affiliazione o di tipo familiare-parentale, gestiti dalla persona più autorevole, per spessore criminale e per astuzia. I rapporti di parentela e di affiliazione garantiscono l’intelaiatura del gruppo, ma l’adesione ad esso è data dal ritrovarsi spesso insieme, nei momenti di socialità o nelle occasioni di incontro in attività di gruppo. L’adesione alla consorteria viene via via rafforzata in questi momenti, come anche durante i passeggi, importanti per far sentire al singolo la forza del suo legame con il gruppo. Per questo motivo si può affermare che l’adesione ad un gruppo mafioso in carcere avviene gradualmente, una volta acquisita la fiducia del capo. L’elasticità di questi gruppi, che assumono a modello la famiglia mafiosa, costituisce la forza della mafia in carcere. Il giro di amicizie e parentele forma un legame fluido che può coinvolgere moltissime persone. Il rapporto di clientela alla consorteria che si instaura all’interno delle sezioni è la forza accomunante più efficace e maggiormente pericolosa per la sicurezza: spunto del rapporto può essere una prestazione del futuro aderente o la protezione concessagli dal boss, ma l’una sarà sempre seguita dall’altra. Lo scambio unico è raro: si crea piuttosto una relazione di scambi alterni fino all’instaurazione di un rapporto fisso. Con l’espressione di “patronato”, si intende la posizione permanente e quasi istituzionalizzata di una persona che riveste autorità, prestigio, influenza, ricchezza sugli altri detenuti, attraverso le quali cerca di favorire loro al fine di acquisire consenso, fedeltà, servizi di ogni genere e fare “proselitismo”. In questa relazione di scambio, “permane sempre un residuo irrazionale, di gratitudine e di senso di inferiorità, che viene sfruttato dal più forte che potrà in ogni momento chiedere il saldo del suo credito”[18].
Rilievi criminologici
Come scrive un autorevole magistrato, Roberto Scarpinato, “l’istituzione totale mafiosa è stata vissuta da molti affiliati come un orizzonte di senso predefinito. Un orizzonte di senso che rompendo l’esilio psichico e l’abulia sterile dell’autismo familiare, offriva l’unica possibilità di entrare da protagonisti nella complessità della realtà, trasformando magicamente l’impotenza rassegnata dell’individuo in potenza collettiva ordinatrice del mondo”. Queste poche frasi forniscono un’idea molto chiara della psiche mafiosa: l’idea che le organizzazioni mafiose abbiano offerto un’opportunità, un logos, un ordine, una ragione per entrare da protagonisti in una realtà dove si rischiava solo di essere emarginati. Dobbiamo, allora, chiederci: qual è l’universo antropologico culturale che alimenta le organizzazioni mafiose? Prendiamo in esame la realtà della Sicilia, una terra in cui è forte l’assenza di identità, di appartenenza sociale, delle istituzioni. La caratteristica di questa terra è stata da sempre una chiusura in se stessi, l’indifferenza al mondo. Qui il potere e le istituzioni sono state impersonate da un’aristocrazia terriera parassitaria e sfruttatrice, nella quale era impossibile identificarsi. In questo tipo di società, molto presente tra l’altro anche in Campania e Calabria, segnata dalla mancanza di diritti e dalla legge della violenza, la mafia ha colmato quei vuoti, dando una risposta abnorme e deviante ad un bisogno profondo ed inappagato di identità e di appartenenza. Come sottolinea Scarpinato, “il Cursus honorem offerto dall’organizzazione, come soldato – capodecina – capofamiglia – capo mandamento – tesoriere – copre l’arco di una esistenza, trasformando il vuoto in pieno, il nulla in senso.. ha offerto la possibilità di entrare a far parte di una classe dirigente occulta e parallela”.
A ciò aggiungerei la strategia della delegittimazione, da sempre una delle armi più usate dalla mafia per acquisire consensi, cui si coniuga una vera propaganda culturale per alimentare processi di identificazione con l’organizzazione, per distruggere qualunque possibilità di identificazione alternativa.
Questa disamina criminologica pone naturale una domanda: esiste un modello tipizzato di detenuto mafioso? Come e perché si sceglie di entrare a far parte di un’organizzazione mafiosa?
I detenuti A.S. sono generalmente molto cortesi e riservati, non infrangono le regole, il loro comportamento è formalmente impeccabile. La declassificazione è il loro obiettivo da raggiungere. In A.S. il detenuto vive sdoppiato, ha una doppia personalità: una dedicata a ritrovare la libertà, a cercare la declassificazione, perché appena arrivati al circuito media sicurezza inizia a chiedere i benefici. Per questo obiettivo, si comporta bene, non reagisce, non crea disordini, studia atteggiamenti di autocontrollo. Poi c’è la personalità propria, intima che conduce o meno alla revisione critica: quando si è soli con se stessi si fantastica con la mente, si analizzano gli anni passati e si scrutano i pensieri più reconditi.
Tuttavia non si può descrivere un modello esemplificativo: piuttosto si potrebbero catalogare per spessore criminale (manovalanza, boss, ecc.), per provenienza geografica e appartenenza (cosa nostra,´ndrangheta, camorra) oppure per clan o consorteria criminale. In comune tutti i detenuti di questo tipo hanno senza dubbio il culto della famiglia, che li appoggia, non li abbandona quasi mai. Per la famiglia il detenuto in carcere è anche una fonte di sostentamento, perché sostenute per solidarietà economicamente dai clan. Questo crea una sorta di compromissione a cui il detenuto del familiare prima o poi si dovrà disobbligare. I congiunti non condannano i trascorsi del detenuto, condividono la sofferenza della restrizione, come un fatto che doveva accadere.
L’accesso in questo mondo criminale dipende dall’origine di natura familiare e culturale. Il mafioso si contraddistingue per il modello socio-familiare di appartenenza, per l’origine geografica, per l’appartenenza criminale. La mafia è l’espressione socio-antropologica di un fenomeno criminale ben preciso e si è evoluta nel tempo in quanto è passata dalle “damigiane” di olio e di vino alle stragi di Falcone e Borsellino, che hanno segnato un momento storico di incontro tra il sociale, il politico e la mafia. Negli anni settanta molti provenivano dalle campagne, dall’emarginazione e dall’abbandono. Oggi il dato è diverso, quasi tutti hanno una famiglia alle spalle e una forza economica considerevole.
L’uomo d’onore, al momento in cui entra a far parte dell’organizzazione, abbandona i propri sentimenti autentici e naturali, abbandona le vecchie relazioni, perché dal momento dell’iniziazione in poi, per tutta la sua vita e certamente anche durante il periodo di detenzione, conteranno solo gli uomini d’onore, i sentimenti e le prassi ammesse dall’organizzazione secondo schemi tradizionali tramandati da decenni. Dal momento dell’ingresso nell’organizzazione comincia per l’uomo d’onore una doppia vita, che si fonda su una doppia morale: l’uomo d’onore terrà comportamenti ben precisi, determinati, in generale sobri: nella società esterna cercherà di avere una parvenza di vita normale e di lavoro lecito, nel carcere cercherà di assumere un comportamento sobrio, “lecito”, che non dia nell’occhio.
Anche nel corso della detenzione, permane una fedeltà riorganizzazione, ai valori, alle regole tanto che molti esperti del settore mettono in forte discussione la possibilità di un reinserimento e pentimento.
Si tratta in genere di soggetti dal passato violento, dediti ad estorsioni, danneggiamenti, violenze varie, talvolta coinvolti in storie di sfruttamento della prostituzione. Sono persone che, per la maggior parte, vengono reclutati dall’organizzazione con la lusinga di far fare loro il salto di qualità, di attribuirgli uno status. Tutto questo determina una forte adesione a certe convinzioni che è davvero difficile scardinare. Ma verso la strada del pentimento reale e della revisione critica del proprio vissuto criminale e deviante, vi è una altra difficoltà che allo stesso tempo può rappresentare la stessa soluzione al problema.
In genere il mafioso riceve una forte educazione religiosa di tipo tradizionale e si considera religioso. Quando si chiede ad un collaboratore di giustizia che significato abbia avuto per lui essere stato religioso e al tempo stesso un criminale, questi nella maggior parte dei casi risponde di aver ricevuto tutti i sacramenti, dal battesimo al matrimonio, che ha rispettato la Chiesa, i preti, ma ancor più rilevante, risponde che da mafioso non ha mai avvertito il disvalore delle azioni compiute in quanto le stesse rispondevano ad una morale superiore, ad una sorta di “ragion di Stato”.
È fin troppo evidente che il mafioso si costruisce una “morale su misura” e, come è stato giustamente osservato da N. Fasullo, “il mafioso ha una teologia fondata sull’assunzione del punto di vista di Dio che il mafioso ritiene essere quello da lui immaginato. Dio è ridotto al giudizio del mafioso, di cui è misera proiezione. Il mafioso è come un soldato, in guerra e per lo Stato è lecito uccidere”. Il sacerdote per il mafioso rappresenta un conforto, una giustificazione: il mafioso è come il servitore dello Stato che per secoli è stato legittimato dalla volontà divina. La stessa costruzione giustificativa viene mutata da Cosa Nostra e dalle altre organizzazioni.
Il tema della religiosità mi porta ad affrontare il collegato tema del pentimento. L’analisi criminologica del fenomeno porta alle seguenti considerazioni. Il mafioso può anche impunemente distaccarsi dall’organizzazione di cui faceva parte, anche se la sua mentalità rimane spesso fortemente radicata: per questo motivo ed in tal senso si può parlare di ricuperabilità del soggetto mafioso ma la rieducazione e la revisione critica di certe convinzioni non è facilmente riferibile ai capi carismatici di gruppi mafiosi o a chi su tali gruppi eserciti un poter particolare. Spesso si tratta di gregari di cui i capi si servono per affidare incarichi esecutivi e di fiducia”[19].
Tuttavia questo discorso non deve escludere la possibilità di un recupero dei soggetti di alto profilo mafioso, tanto è vero se si considera che il fenomeno della “collaborazione con la giustizia rilevante” è cresciuto negli ultimi anni. La maggiore probabilità di reinserimento trova una sua spiegazione nella nuova struttura della mafia moderna, essendo essa cambiata insieme alla società. Le organizzazioni tradizionali si basavano su norme di onore, sulla piena dedizione ad una determinata causa che non potevano essere tradite. La nuova struttura della mafia non comporta perciò traumi nel caso di allontanamento o di uscita di un affiliato dal clan.
Sotto il profilo della sicurezza penitenziaria e sociale, un altro aspetto è molto rilevante: potrebbe verificarsi che il detenuto mafioso dissimuli di volersi reinserire al fine di rimanere nel proprio ambiente o scelga di reinserirsi in altro contesto per meglio gestire i propri affari personali.
In alcune circostanze, nei casi di collaborazione, vi è oltre ad un indifferente calcolo sui benefici processuali, la soddisfazione di avere rotto con un sistema che non si condivide più. Vi è in ultima analisi, la soddisfazione di essersi liberati da un sistema ingombrante, che finisce per trasformare la propria vita in una realtà tragica. Diciamo che il pentitismo difficilmente si accompagna ad un sincero dolore per le proprie vittime, che, al più, vengono rispettate dopo la collaborazione in una sorta di nuova pietas. Ciò in quanto non dimentichiamo che il mafioso ha sempre una grande considerazione del se’, ovvero un “Io” ipertrofico, che non percepisce il valore delle azioni che compie o fa compiere. In questo tipo di ragionamento, possiamo concludere che colui che decide di collaborare ed inizia un reale processo di revisione critica, va alla ricerca di una nuova identità, cerca di sostituire all’identità del mafioso una nuova identità, in quanto rompendo con l’organizzazione si trova solo contro tutti: è solo un naturale meccanismo di reazione che è sintomo della ricerca di un nuovo ruolo all’interno della società.
Bibliografia:
Ardita S., Direttiva n. 0136665-2005 “Evasioni e tentativi di evasione poste in essere dalla popolazione detenuta”
Brunetti C. – M. Ziccone, Manuale di diritto penitenziario, Piacenza, La Tribuna, 2004
Fiore I. Le radici inconsce dello spichismo mafioso, Franco Angeli ed. 1997
Lo Verso G. (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli ed., Milano, 1998.
Padovani T., La materializzazione del carcere di massima sicurezza: una vicenda esemplare,
Riviste:
Commissione antimafia, XI legislatura, audizione Procuratore Distrettuale di Palermo Elio Spallitta, seduta del 5 novembre 1992, pag. 241
Commissione antimafia, XI legislatura, audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia, seduta del 30 luglio 1993, pag. 2474
Curi F., commento all’art. 13 della legge 19 marzo 1990, n. 55, in Legislazione penale, 1991, pag. 445
Gebbia G., Realtà e gestione del detenuto mafioso, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 1983, pag. 727;
Giostra G., Un limite non giustificato in tema di misure alternative, in Politica del Diritto, 1978, pag. 435
Merani R., Il rapporto con il sistema penitenziario. I vari circuiti penitenziari, in Quaderni del CSM, 1995, n. 80, pag. 286.
[1] Osservatorio permanente sulla Criminalità Organizzata: “il Nucleo familiare alle radici del crimine”, a cura di Michele Barillaro, Milano – Giuffrè ed. 2005
[2] (per una completa bibliografia sulle mafie, cfr A. Bedotto, Mafie: panorama bibliografico, (1945- 1993), Franco Angeli, Milano 1994 per comprendere le vicende delle organizzazioni mafiose e dell’antimafia).
[3] Armao.
[4] . Le diverse organizzazioni mafiose non hanno tutte lo stesso rapporto con il carcere: “L’affiliato a Cosa Nostra cerca di entrarvi il meno possibile perché questo significa perdita di influenza e di affari, e quindi di potere e denaro. Diversa è la situazione per la camorra. Nella cultura camorristica entrare in carcere è un segno di valore, significa che si sono commessi reati gravi; è perciò abituale vantarsi delle detenzioni subite” (L. VIOLANTE, Non è la piovra, cit., pag. 139). Il motivo di questa diversa concezione, secondo l’autore, deriva dal fatto che “la camorra non ha organizzazioni ben strutturate, né affidabili criteri di selezione degli affari, né cerimonie iniziatiche particolarmente radicate. Il carcere diventa, così, un banco di prova che supplisce alla mancanza di altri criteri e procedure di selezione”.
[5] N. RUSSO, Antologia della mafia, Palermo, Il punto, 1964, pag. 124.
[6] Dichiarazione del pentito collaboratore Salvatore Migliorino.
[7] “Le fonti penitenziarie evidenziano un cospicuo ingresso, accentuatosi negli anni più recenti, di soggetti associati alla criminalità organizzata, anche internazionale (commercio e spaccio di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, etc.)” in Quaderni dell’Ufficio Studi, Ricerche e Documentazione della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, La popolazione penitenziaria nel ventennio 1959-1978, Roma, 1984 pag. 26.
[8] Commissione antimafia, XI legislatura, audizione di Tommaso Buscetta, cit., pag. 359: “Non pensate che le carceri siano invalicabili; le carceri sono valicabili. In carcere si viene con un documento falso ed entra qualsiasi persona (…) Io ho ricevuto i capi mandamento dentro il carcere”.
[9] Il concetto di onore per un mafioso, pag 61 in “Crimini e onore” di Antonella Colonna Vilasi
[10] “La segretezza impone di reprimere la curiosità circa i fatti illeciti sui quali non è permesso fare domande”– da “Crimini ed onore”, di Antonella Colonna Vilasi.
[11] Commissione antimafia, XI legislatura, audizione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina, seduta del 4 dicembre 1992, pag. 567. “PRES.: Se una persona è detenuta è la famiglia che provvede? L. MESSINA: Se è detenuta per conto di Cosa nostra, Cosa nostra lo mantiene. Se possedeva una Mercedes, una Rolls Royce od altro gliele mantiene fino a che non esce. PRES.: Se un’intera famiglia è in galera è sempre Cosa nostra a provvedere? L. MESSINA: È il mandamento che provvede, cioè il livello superiore”.
[12] Quando viene arrestato un capo, la direzione della famiglia viene assunta dal suo vice che poi, gli renderà conto del proprio operato al momento della dimissione dal carcere. Intendo dire che il capo, quando è in carcere, non può più impartire ordini perentori, ma fa pervenire all’esterno i suoi punti di vista e i suoi desideri, che vengono valutati dal vice il quale, sulla base della valutazione della situazione, deciderà se attuare o meno gli inviti del capo” dall’interrogatorio reso da Tommaso Buscetta al giudice Falcone il 6 agosto 1984 (L. Violante, Non è la piovra, Torino, Einaudi, 1994, pag. 141).
[13] Dott. Giuseppe Gebbia, “Relazione presentata nel convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati”, 21-23 Gennaio 1983, Palermo.
[14] P.V. Buffa – F. Giustolisi, Al di là di quelle mura, Rizzoli ed., Milano 1984, p.52 e 53 «…la mafia …ha sempre evitato gesti clamorosi ubbidendo al detto popolare “chinati junco ´cca passa la china”…rivolta vuol dire trasferimento, e trasferimento significa essere allontanati dai propri interessi, dalla propria famiglia».
[15] Dott. G. De Gesu, Custodia e trattamento del detenuto mafioso, conferenza tenuta presso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari in Roma nel 1992, in occasione del corso di formazione per vice direttori in prova.
[16] Dott.ssa Iana Guzzo, Docente di psicologia delle organizzazioni, esperta in “psychological Disaster Management”.
[17] L’interazione definibile come una serie di messaggi scambiati tra persone, può essere considerata come un sistema aperto, in cui i soggetti comunicano tra loro e con l’ambiente (la famiglia, ad es. è un sistema paerto, i cui membri sono in relazione tra loro, ma ciascuno intrattiene rapporti con altre persone).
[18] Crisantino –La Fiura, “La Mafia come metodo e come sistema”.
[19] G.Gebbia, Realtà e gestione del detenuto mafioso, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 1983, per le citazioni dirette vedasi pp.730, 731, 735 e 736.
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