Così la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza n. 18293 dell’11 luglio 2018, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da una dipendente avverso il licenziamento disciplinare intimatole dalla società datrice per illecita fruizione dei permessi ex cit. Legge 104/1992.
Giusta causa provata anche dalle risposte evasive del dipendente
Per i giudici di merito – come dunque confermato in Cassazione – gli estremi della giusta causa di licenziamento, ex art. 2119 c.c., erano nella specie rinvenibili nel fatto che l’odierna ricorrente avesse fornito risposte evasive alle pressanti richieste della datrice di lavoro di conoscere il modo in cui avesse fruito dei predetti permessi. Senza contare che la dipendente si era allontanata dall’abitazione della madre, per assistere la quale aveva ottenuto un giorno di permesso, per recarsi con la famiglia in una nota località turistica.
E’ evidente pertanto, concludono gli Ermellini, che mediante il proprio ricorso, la dipendente abbia rimesso in discussione la valutazione dei fatti compiuta dai giudici di merito e, come tale, incensurabile in sede di legittimità. Se è vero che la giusta causa di licenziamento – chiarisce in proposito la Corte Suprema – integra una causa generale che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma (quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge), non è meno vero che l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in Cassazione se non nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.
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