L’Amministrazione finanziaria, attenta ai fenomeni di arricchimento che non passano dall’Erario, ha contestato l’assoggettabilità ad imposizione dei ricavi delle vendite di opere d’arte inviando numerosi avvisi di accertamento e formando un nodo degno di Gordio nel voler demarcare la distinzione tra lo speculatore occasionale ed il collezionista proprio.
Nuove forme d’investimento e l’investitore speculativo
Tra i mesi di marzo ed aprile sono stati pubblicati, dagli Istituti di settore, i rapporti annuali sul mercato dell’arte e tutti hanno rilevato una crescita del 12% rispetto ai periodi precedenti: così l’Art Basel-UBS ha stimato per il mercato fisico un monte complessivo di 63,7 miliardi di dollari di ricavi mentre l’Hiscox Online Art Trade ne ha rilevati, con riferimento al mercato dell’arte online, un totale pari a 4,22 miliardi di dollari. L’incertezza dei mercati tradizionali causata da innumerevoli fattori geopolitici ed i bassi tassi di rendimento degli investimenti finanziari ed immobiliari spingono sempre più un grosso numero di persone a diversificare i propri portafogli e comprare opere d’arte.
Come spesso però accade, il diritto non si attesta sul medesimo binario dell’evoluzione economica e se questa si innova e varia, la capacità camaleontico-adattativa delle norme è assai precaria ed inadeguata. Così vengono a formarsi problematiche, come quella che esaminiamo, dove da un lato si attesta una norma vetusta che non prevedeva fenomeni attuali e dall’altro un’Autorità finanziaria che la interpreta nei modi più restrittivi. Anche la giurisprudenza, che generalmente viene in soccorso del professionista improntando una linea interpretativa di massima – nonostante il nostro Ordinamento di civil law non assegni alla medesima una valenza forte – nel caso de quo ha unicamente analizzato il discrimine tra il collezionista ed il commerciante in arte tralasciando la figura dell’investitore speculativo.
Possiamo invero parlare di investitore speculativo per riferirci ad un soggetto, sia fisico che giuridico, il cui scopo non è né quello proprio del collezionista puro di possedere per il gusto del possesso materiale, né quello del mercante d’arte che pone alla base dei suoi acquisti il commercio e dunque la certa rivendibilità dell’opera d’arte. L’investitore speculativo si colloca in una via mediana, è in altri termini un collezionista accorto che acquista un bene vuoi per un gusto collezionistico vuoi in un’ottica di eventuale rivendibilità.
La tassazione del reddito prodotto dalle opere d’arte
Non resta che esaminare funditamente la disciplina tributaria che può trovare applicazione nei confronti di chi intende compravendere opere d’arte. La vendita dei beni artistici, in quanto produttori di ricchezza, può determinare il sorgere di risvolti fiscali a seconda del modo in cui il soggetto pone in essere la sua condotta. Il testo legislativo di riferimento è il Testo Unico delle Imposte sui Redditi non essendo prevista una normativa specifica in punto a tassazione delle compravendite effettuate dai privati. In primo luogo occorre aver conto dell’art. 6 T.U.I.R. e valutare se i ricavi generati dalla vendita di un’opera d’arte possono rientrare in una delle categorie reddituali previste. Alla domanda risponde in parte l’art. 55 del medesimo Testo esaminando il concetto di reddito d’impresa, ossia quel reddito derivante da un “esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. […] anche se non organizzate in forma di impresa“.
Il primo concetto che occorre affrontare è proprio quello di impresa laddove il Legislatore civile assegna una definizione più stringente rispetto a quella data dal Legislatore tributario. Invero l’art. 2082 c.c. considera imprenditore colui il quale svolge un’attività economica organizzata in modo professionale, di contro il citato art. 55 non richiede il requisito dell’organizzazione bensì la mera professione abituale delle attività di cui all’art. 2195 c.c. anche non svolta in modo esclusivo[1]. In altri termini risulterà consueto che agli occhi del Fisco lo stesso soggetto che per il diritto civile non è imprenditore eserciti invece attività d’impresa.
La Corte di Cassazione ha assunto un granitico orientamento in ordine alla necessità che il requisito dell’abitualità debba essere valutato casu casu in relazione alla rilevanza economica delle operazioni economiche poste in essere ed alla loro complessità. Se è vero che non si potrà dunque definire imprenditore colui il quale svolge operazioni isolate, dobbiamo non concordare con un’impostazione voluta dalla Suprema Corte secondo cui anche il compimento di un unico affare potrebbe configurare attività imprenditoriale nel caso in cui abbia un consistente rilievo economico e sia compiuto mediante la posizione in essere di una serie di operazioni complesse.
Nel caso in cui non si configuri un reddito d’impresa occorrerà verificare se i proventi della vendita non trovino assoggettamenti da altre norme. Sul punto giova ricordare come anteriormente all’emanazione del Testo Unico di riferimento l’art. 73 del D.P.R. 597 del 29 settembre 1973, proprio in materia di attività di compravendita delle opere d’arte posta al di fuori dell’attività d’impresa, tassava ogni plusvalenza conseguita in ragione di operazioni condotte con animo speculativo quand’anche non rientravano in redditi d’impresa. Il medesimo articolo individuava poi un criterio oggettivo senza possibilità di prova contraria volto a definire l’intento speculativo: il caso in cui la vendita seguiva l’acquisto dell’opera a meno di due anni di distanza.
La medesima fattispecie non è stata però trasposta all’interno del Testo Unico ed il solo riferimento è rappresentato dall’art. 67, c. 1, lett. i) secondo cui i redditi derivanti da attività commerciali non abituali costituiscono redditi diversi. La ragione di questa scelta legislativa è stata da alcuni individuata nella noluntas tassandi verso regimi fiscali che potrebbero portare tangibili discriminazioni tra la vendita di un qualsivoglia oggetto prezioso e l’alienazione di uno di questi qualificabile “opera d’arte”[2].
Da questo ne deriva che il novello impianto giuridico del Testo Unico sui Redditi impone un criterio generale capace di applicarsi nei confronti di qualsiasi reddito diverso e quindi di imporsi sui proventi generati da qualsiasi attività commerciale non esercitata in modo abituale. Occorrerà dunque attenzionare l’ipotesi in cui la transazione che avviene tra due soggetti privati possa configurarsi quale attività commerciale posta in essere dal venditore, e quindi tassabile nella misura dei proventi conseguiti, in caso contrario ogni pluris deve andar esente dall’imposizione[3].
In base a quanto sino a qui evidenziato possiamo ritenere di distinguere tre soggetti che interagiscono con il mercato dell’arte: il mercante, ossia colui il quale professionalmente ed abitualmente esercita il commercio di opere d’arte – anche in maniera non organizzata imprenditorialmente – col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere; lo speculatore occasionale, ovvero chi acquista occasionalmente opere d’arte spinto dall’animus lucrandi di cederle, in futuro, cercando di conseguire un utile; ed il collezionista che acquista le opere spinto da un sentimento culturale, col fine quindi di incrementare la propria collezione e possedere l’opera e non di rivenderla generando una plusvalenza.
Con riguardo alla casistica qui supra indicata il sistema fiscale italiano prevede conseguenze differenti: per il primo possiamo ragionevolmente parlare sia di redditi d’impresa ex artt. 55 ss. TUIR che di passività ai fini IVA come previsto dall’art. 4 del d.P.R. 633/1972. Infatti solo nel solo caso in cui non possegga l’organizzazione imprenditoriale prevista dalle norme civilistiche, non troverà applicazione, secondo quanto granitica giurisprudenza ha avuto modo di precisare l’IRAP[4].
Quello che abbiamo individuato come speculatore occasionale potrà invero generare i redditi diversi di cui all’art. 67, c. 1, lett. i), TUIR non trovando però assoggettamento ai fini IVA per mancanza del requisito dell’abitualità. Il collezionista invece non sarà soggetto ad alcuna imposizione.
Se da un lato è quindi abbastanza agevole individuare le differenze sul piano teorico tra le differenti fattispecie non può essere detto altrettanto per lo stabilire il confine pratico tra le tre ipotesi nei casi concreti. La dottrina[5], in tema di attività commerciali non abituali, ha rinvenuto degli alert che possono essere utilizzati in un’analisi casu casu per capire l’ipotesi effettiva in cui ci si ritrovi in un ipotetico caso di specie: lo scopo dell’acquisto, la frequenza ed il numero delle transazioni, la durata del possesso, la posizione in essere di attività finalizzate a facilitare la vendita ed infine l’esame delle ragioni che hanno portato all’alienazione.
La giurisprudenza in materia
Come spesso accade in un quadro non meglio normato dal Legislatore, la giurisprudenza è abbondantemente altalenante individuando il requisito della commercialità dell’attività secondo il caso di specie che è chiamata ad esaminare di volta in volta. Questo approccio, seppur a prima battuta buono, si rivela invero controproducente per il contribuente che non trova una linea giuridica certa ed inequivocabile vedendosi reso sensibilmente più ostico, ed a tratti non garantito, il diritto di difesa.
Il discrimine utilizzato per definire o meno la sussistenza dell’attività è la condictionem dell’abitualità. Lo stesso requisito è infatti sussunto anche dall’art. 55 TUIR in tema di reddito d’impresa. Invero un Giudice[6] ha considerato attività d’impresa la compravendita di oggetti su una nota piattaforma di aste online posta in essere da un soggetto in ragione dell’ampio arco temporale durante il quale sono state svolte le vendite, sette anni, e dal numero di transazioni elevato, quasi seicento in un anno.
Su una linea analoga si è poi attestata la Corte di Cassazione che ha dichiarato l’esistenza di un’attività commerciale in ragione di elementi significativi che dimostravano la sistematicità e la professionalità dell’attività d’impresa: numero delle transazioni effettuate, importi elevati, quantitativo di soggetti con cui venivano intrattenuti rapporti, varietà della tipologia di beni alienati. Oltre a tutto questo il Giudice di legittimità ha affermato il principio secondo cui non rileva, ai fini impositivi, che il profitto conseguito venga capitalizzato in beni e non in denaro in quanto porta sempre intrinsecamente un arricchimento del patrimonio personale del soggetto[7]. In termini di allineamento è poi un’altra sentenza che ravvede un’attività commerciale in presenza simultaneamente della rilevanza dell’investimento e dell’esclusione dell’utilizzo nella sfera personale del beni oggetto di compravendita[8].
Se è vero che l’abitualità è indice rilevante non possiamo però escludere che l’assenza di questa conduca all’esenzione da tassazione dei redditi prodotti: l’art. 67 TUIR manda a tassazione come redditi diversi anche i proventi derivanti dall’esercizio non abituale di un’attività commerciale. Possiamo quindi ritenere che per distinguere lo speculatore dal collezionista, vero nodo d’interesse nel presente elaborato, non dovremo esaminare la presenza di abitualità – che conduce a distinguere il mercante dallo speculatore – bensì lo svolgimento o meno dell’attività commerciale, in altri termini verificare se la ratio sottesa alle vendite porta con se un preordinato intento speculativo[9].
Indagare in punto preordinazione non è certo agevole: il nesso causale potrebbe essere rinvenuto nella breve durata del possesso in ragione del fatto che chi specula detiene le opere per un tempo minore al fine di monetizzare la plusvalenza quanto prima, o nella presenza di una commissione per l’acquisto, sulla quale anche influisce la durata.
Il punto di distinzione maggiore tra lo speculatore, in qualsiasi forma intesa, ed il collezionista “puro” è però l’interesse di quest’ultimo non tanto al valore economico della res quanto più alla value estetico-culturale. Una parte della dottrina ha visto una bipartizione tra i «collezionisti propriamente detti ed i collezionisti a tempo»[10]: i primi acquistano per il piacere che le opere generano in loro, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre. Per questo genere di collezionisti l’eventuale bassa profittabilità dell’investimento in arte è bilanciata dal piacere estetico avuto col possesso, il c.d. “dividendo estetico” teorizzato da Frey e Pommerehene[11]. I secondi acquistano le opere come investimento finanziario ovvero come status symbol di benessere sociale ed economico.
Quella della ragione culturale dell’operazione economica è un esimente riconosciuto anche dalla giurisprudenza che ha ritenuto non sussistere l’attività commerciale per un collezionista che vende ed acquista monete rivolgendosi ad una Casa d’Aste in quanto meramente finalizzato al trarre piacere dalla raccolta di opere di pregio[12].
La preordinazione manca poi anche nel caso in cui sopraggiungano necessità finanziarie ovvero nell’ipotesi in cui il collezionista rivaluti la sua collezione inserendo in essa, ad esempio, una moneta di alta qualità che già possedeva ma di livello inferiore liberandosi di quest’ultima; o ancora nell’ipotesi di permuta tra collezionisti. L’intento speculativo è altresì da ritenersi ragionevolmente escluso nel caso in cui l’alienazione abbia ad oggetto un bene ricevuto a titolo di donazione ovvero di lascito ereditario.
Conclusione
Come abbiamo avuto modo di vedere il mercato dell’arte negli ultimi tempi ha avuto un forte implemento ponendo dei dubbi a seguito di contestazioni e verifiche effettuate dalla competente Autorità. Le regole del diritto tributario non sono specifiche, anzi, si presentano come del tutto incerte sia sulla loro effettiva applicazione sia sul modo in cui queste possono colpire il collezionista.
La dottrina ha quindi ricercato alcune soluzioni, una tra tutte quella del ripristino dell’art. 76 d.P.R. n. 597/1973, allineando il periodo di possesso funzionale a scriminare l’intento speculativo dell’alienazione a quello previsto per i beni immobili, ossia cinque anni. Dobbiamo però chiederci se il mero dato temporale sia di per sé sufficiente a distinguere le categorie e se non osta alla definizione di reddito laddove la compravendita di beni mobili configura reddito rilevante ai fini fiscali unicamente nel caso in cui sia manifestazione di un’attività commerciale e non in quanto tale. La stessa giurisprudenza tributaria ha chiarito che, necessitando il requisito dell’attività commerciale, il mero atto traslativo non integra detta condizione nemmeno valutata in termini di occasionalità, invero è sempre necessaria una prova efficace dell’esistenza dell’animus lucrandi[13].
La soluzione pare però che possa già trovarsi a seguito di un intervento chiarificatorio che l’Amministrazione finanziaria dovrebbe attuare. Infatti possiamo ritenere abbastanza superfluo il prevedere ulteriori norme rispetto alle già numerose esistenti: quand’anche esse siano redatte in forma puntuale per il caso di specie rischierebbero sempre di porsi quale duplicato di una norma generale de facto già esistente. La soluzione ideale dunque si prospetterebbe quella di un vero e proprio vademecum, magari a risvolto pratico, in cui l’Authority faccia luce sui punti d’ombra e si esprima chiaramente sulle situazioni, capaci di produrre un reddito idoneo da andare in tassazione, differenti dalla mera attività di naturale ricircolo delle risorse proprie di qualsiasi collezionista.
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[1] Sul punto la stessa Corte di Cassazione ha affermato “il principio secondo cui la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese non coincide con quella civilistica, giacché [l’art. 55 del T.U.I.R.] intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma d’impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo che costituisce, invece, elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale ancorché non esclusiva“. In Cass. 20 dicembre 2006, n. 27211.
[2] Sul punto cfr. S. Trettel, La compravendita (tramite internet) da parte di “collezionisti” non crea materia imponibile, in il fisco, XXX, 2016, 3188.
[3] Così anche S. Spinello – M. Bisogno, Compravendite di opere d’arte tra privati: il difficile confine tra speculazione e collezionismo, in il fisco, XXXVI, 2017, 3431.
[4] Cass. 30 novembre 2016, n. 24515.
[5] G. Falsitta, Alcune puntualizzazioni in tema di “attività commerciali non abituali”, di “operazioni speculative isolate” e di “capital gains”, in Rassegna Tributaria, I, 1990, 96.
[6] C.T.P. di Firenze 16 giugno 2011, n. 56.
[7] Cass. 31 marzo 2008, n. 8196.
[8] Cass. 20 dicembre 2006, n. 27211.
[9] Cfr. M. Beghin, La capitalizzazione del profitto in beni non esclude l’esercizio dell’attività di impresa, in Corriere Tributario, XX, 2008, 1612.
[10] M. Locatelli Biey – R. Zanola, Il mercato delle sculture in Italia: gli operatori e il loro ruolo, in Aedon, II, 1999.
[11] Per un’analisi più fundita cfr. B.S. Frey – W.W. Pommerehene, Muses and Markets: Explorations in the Economics of the Arts, Oxford, 1999.
[12] C.T.P. di Venezia 2 giugno 1994, n. 323.
[13] C.T.R. Toscana 22 ottobre 2005, n. 101.
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