Alcune tematiche ermeneutiche inerenti l’applicazione del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 al vaglio delle Sezioni unite

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In presenza di un ricorso inammissibile non deve darsi alla persona offesa l’avviso previsto dall’art. 12, comma 2, d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 per l’eventuale esercizio del diritto di querela.

Nel tempo necessario a dare attuazione alle disposizioni transitorie previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 36 del 2018, il corso della prescrizione non resta sospeso.

(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Normativa di riferimento: D.lgs., 10 aprile 2018, n. 36, art. 12)

Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

La Corte di appello di Catania, in data 30 novembre 2017, parzialmente modificava quella di primo grado e, per l’effetto – confermato il giudizio di responsabilità in ordine al reato di appropriazione indebita in danno di V. I. – era stato rideterminato il trattamento sanzionatorio a seguito della esclusione della contestata recidiva.
Al ricorrente, nella qualità di amministratore unico della G.A.P. s.r.l. fino all’l1 aprile 2010, e di datore di lavoro di I., era stato addebitato di essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, delle somme dovute alla lavoratrice predetta a titolo di indennità di maternità, omettendo il versamento delle indennità relative ai mesi da febbraio ad agosto 2010, per un ammontare complessivo di 4.120 euro e la contestazione includeva la aggravante dell’avere commesso il fatto con abuso di relazioni di prestazione d’opera, ciò che rendeva il reato, ai sensi dell’art. 646, terzo comma, cod. pen., allora vigente, procedibile d’ufficio.
In punto di fatto, come si evince dalla lettura combinata delle sentenze di merito, era rimasto accertato che il ricorrente si fosse reso inadempiente al dovere di versare le indennità di maternità che spettavano alla denunciante.
La Corte, peraltro, individuava il soggetto creditore di tali versamenti anche nell’INPS, contestualmente affermando, in risposta ad un motivo di appello, che la contestata aggravante ex art. 61, primo comma, n. 11 cod. pen. doveva ritenersi configurabile nella specie, essendosi l’imputato avvalso dei poteri di amministratore per realizzare l’appropriazione.
Posto ciò, avverso il suddetto provvedimento, proponeva ricorso per cassazione l’imputato per il tramite del suo difensore.
In particolare, venivano formulate le seguenti doglianze: a) vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alla attestazione che il ricorrente rivestisse il ruolo apicale di cui alla imputazione al tempo cui si riferisce la contestazione in quanto egli era chiamato in causa come amministratore fino al mese di aprile del 2010 sicché la condotta appropriativa addebitatagli, formalmente contestata dalla stessa accusa come consumata da aprile ad agosto dello stesso anno, non poteva essergli attribuita e tanto meno poteva esserlo con la circostanza dell’abuso di relazioni di prestazione d’opera, non essendovi stato, tra esso ricorrente e la I., nel periodo in questione, alcun rapporto lavorativo; al riguardo si evidenziava altresì come costui fosse stato amministratore solo formale, come desumibile dalle stesse affermazioni della dipendente I. attenzione della Corte territoriale con specifici motivi di appello, trascurati dal giudice della impugnazione: la denunciante aveva detto di non conoscere l’imputato ma altri soggetti che amministravano la società, dal che si sarebbe dovuto dedurre che egli non poteva essere amministratore di fatto dopo la scadenza del mandato; inoltre non si era considerato che egli non disponeva della somma di cui alla imputazione; b) violazione di legge nonché il vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto invocandosi all’uopo la giurisprudenza favorevole alla tesi secondo cui la condotta del datore di lavoro che, avendo esposto fittiziamente l’avvenuta corresponsione di somme al lavoratore a titolo di indennità per malattia o maternità o assegni familiari, ottenga dall’INPS il conguaglio di tali somme con quelle da lui dovute all’Istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e/o assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso Istituto le corrispondenti erogazioni, va inquadrata non nella cornice normativa della appropriazione indebita, ma in quella del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter cod. pen. (Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014) posto che nel caso di specie, ai fini della configurabilità del reato di appropriazione indebita, difettava il requisito della “altruità” della cosa di cui l’agente avrebbe dovuto acquisire il possesso prima di porre in essere la condotta appropriativa; inoltre, si sarebbe trattata di condotta che comporta in ipotesi la configurazione di reato in danno dell’INPS – sempre che il datore di lavoro ottenga dall’Istituto il citato conguaglio – e non del lavoratore tenuto conto altresì del fatto che, anche considerando i fatti con riferimento al diritto della lavoratrice alla indennità di maternità ai sensi della legge 26 marzo 2001, n. 151, in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, sosteneva il ricorrente che l’esito finale del procedimento avrebbe dovuto essere ugualmente liberatorio; si rilevava al contempo come, vertendosi in tema di somme che il datore di lavoro è tenuto ad anticipare per conto dell’INPS, per poi recuperarle dal capitolo delle somme dovute all’Istituto previdenziale per i contributi da versare in relazione alle posizioni dei propri dipendenti, si sarebbe trattato di denaro che proveniva dal patrimonio dello stesso datore di lavoro e su di esso, anche una volta maturato il diritto del lavoratore al soddisfacimento del credito, questi non acquisisce contestualmente un diritto di proprietà relativamente alla somma che invece rimane in capo al datore di lavoro, con la conseguenza che il comportamento omissivo del primo si atteggia a mera inadempienza di natura civilistica, come attestato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 1327 del 2004; infine, il ricorrente faceva anche notare che, essendo il diritto del lavoratore relativo, comunque, alla indennità per cinque e non per sette mesi, diversamente da quanto contestato, il vantaggio per l’imputato si sarebbe risolta in una ottenuta esenzione dal pagamento di contributi per importo inferiore a quello previsto dall’art. 316-ter cod. pen. come soglia minima per la rilevanza penale della condotta.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Posto ciò, il ricorso era stato segnalato dal Coordinatore dell’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi penali al Primo Presidente, per una eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in ordine alla questione giuridica, ritenuta di particolare rilevanza, relativa all’entrata in vigore del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità in attuazione della delega di cui alla legge 23 giugno 2017, n. 103 (art. 1, commi 16 e 17), che ha stabilito la procedibilità a querela di alcuni reati originariamente perseguibili d’ufficio, tra cui quello contestato al ricorrente (art. 646, terzo comma, cod. pen.).
In particolare, si era evidenziato come la novella legislativa fosse destinata ad operare, in base alla disciplina transitoria fissata dall’art. 12 d.lgs. cit., anche in relazione ai reati commessi prima della entrata in vigore dello stesso e per essi è prevista una sorta di restituzione nel termine della persona offesa ai fini della proposizione della querela, termine destinato a decorrere, per la persona offesa che ha avuto già conoscenza del fatto costituente reato, dalla entrata in vigore della legge fermo restando che, nel secondo comma dell’art. 12, è altresì previsto, per il caso di procedimento pendente, che, a cura del pubblico ministero o del giudice, la persona offesa sia informata del diritto di querela, con la conseguenza che, in relazione a tale ipotesi, la decorrenza del termine per l’esercizio del diritto è procrastinata fino al giorno in cui tale avviso sia stato dato.
La rimessione alle Sezioni Unite sarebbe stata dunque giustificata in primo luogo dalla necessità di chiarire se – ritenuto l’incombente configurabile anche nella sede della legittimità – l’avviso alla persona offesa debba essere dato in relazione ai ricorsi che l’Ufficio spoglio della Corte di cassazione seleziona per l’inoltro alla speciale Sezione per le inammissibilità (eccetto quelli ivi destinati per la rilevazione della già maturata prescrizione del reato) e comunque, in generale, in relazione ai ricorsi inammissibili: ricorsi ai quali la giurisprudenza consolidata della Cassazione non riconosce l’inidoneità alla costituzione di un valido rapporto processuale e che quindi reputa insensibili ad una serie di eventi processuali successivi, quali il venire a maturazione del termine di prescrizione, cui potrebbe equipararsi il diritto alla proposizione della querela introdotto dalla novella legislativa in esame; evenienza, quest’ultima, non sovrapponibile alla rilevazione della estinzione del reato per remissione di querela, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto di far operare anche in presenza di un ricorso inammissibile per la peculiarità della disciplina che la riguarda (art. 152, terzo 4 comma, cod. pen.) dato che questa, invero, ne prevede la operatività fino alla “condanna”, in tal modo mostrando di individuare come termine ad quem quello della formazione del giudicato in senso formale.
In secondo luogo la rimessione alle Sezioni Unite era volta a sollecitare la soluzione della questione riguardante la possibilità o meno di far operare, per il termine trimestrale di cui la persona offesa usufruisce per la proposizione della querela, il regime di sospensione del termine della prescrizione previsto dall’art. 159 cod. pen..

Le argomentazioni prospettate dalla Procura generale

Premesso che, con decreto del 16 maggio 2018, il Primo Presidente disponeva, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen., l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi in udienza pubblica, si osserva come dal canto suo il Procuratore generale, nel corso della discussione, in relazione alla questione giuridica controversa, sosteneva che il filo rosso della disamina dovesse essere quello già tracciato dalla sentenza Chiasserini in tema di rapporti tra ricorso inammissibile e remissione di querela nel senso della prevalenza degli eventi capaci di far apprezzare il venir meno o, come nel caso di specie, la sopravvenuta inesistenza della condizione di procedibilità, da considerarsi anche omologabile ad una condizione per la punibilità in ragione della portata sostanziale dei suoi effetti e detta prevalenza deve ritenersi rilevabile di ufficio, in ogni stato e grado del processo, ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen.
Il requirente aveva, in particolare, criticato la distinzione, di creazione giurisprudenziale, tra giudicato formale e giudicato sostanziale, sostenendo che soltanto il primo è previsto e regolato dal codice di rito nell’art. 648, con la conseguenza che se non ci si trova al cospetto del giudicato per la scadenza dei termini di presentazione del ricorso – evenienza che renderebbe il ricorso stesso addirittura “irricevibile” – o comunque di provvedimento dichiarativo della inammissibilità, la proposizione del ricorso in tutti gli altri casi rende il procedimento sensibile al fenomeno della successione delle leggi nel tempo ed in particolare alle sopravvenienze in mitius, quale deve ritenersi il sopraggiungere di una normativa che trasforma il regime di procedibilità da quello di ufficio a quello soggetto a querela di parte.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni unite tracciavano il tema sottoposto al loro scrutinio giurisdizionale nei seguenti termini: “Se, in presenza di un ricorso inammissibile, debba darsi alla persona offesa l’avviso previsto dall’art. 12, comma 2, d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 per l’eventuale esercizio del diritto di querela“; “Se durante i novanta giorni decorrenti dall’avviso dato alla persona offesa, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. cit., operi la sospensione del termine di prescrizione”.
Posto ciò, una volta rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto in quanto fondato su ragioni diverse da quelle che possono essere sottoposte al giudice della legittimità, e con l’effetto che la prescrizione riguardante potenzialmente talune delle condotte contestate in continuazione, non era maturata dopo la sentenza di appello, poiché il ricorso inammissibile non genera una utile fase processuale ai fini del perfezionarsi della causa estintiva, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 266818) gli ermellini rilevavano nel dettaglio, quanto al primo motivo di ricorso, che il ricorrente avesse contrapposto, alla motivazione esibita dalla Corte di appello, una nuova questione di fatto, la cui decisività non veniva stimata apprezzabile dalla Cassazione, trascurandosi in essa dei rilievi che invece la Corte di merito aveva ritenuto fondanti dell’intero suo ragionamento.
A sua volta il secondo motivo venivano stimato parimenti inammissibile stante il fatto che all’imputato era stato addebitato il reato di appropriazione indebita in danno della dipendente, relativamente all’omesso versamento ad essa delle indennità dovute per maternità, mentre egli invocava, deducendo violazione di legge, la riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 316-ter cod. pen.; una riqualificazione stimata improponibile visto che tra il reato contestato e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato vi sarebbe stata non una mutazione del paradigma giuridico ma la configurazione di un fatto nuovo, con conseguente necessaria investitura del pubblico ministero, come disposto dall’art. 518 cod. proc. pen. tenuto conto altresì del fatto che se è vero che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel novero di quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen., è anche vero che essa può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto di fatto (ex plurimis, Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, omissis, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, omissis, Rv. 259730).
Detto questo, la rilevata inammissibilità del ricorso rendeva però, ad avviso della Corte, rilevante la prima questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite atteso che il procedimento in esame aveva ad oggetto un reato – l’appropriazione indebita aggravata ai sensi dell’art. 61, primo comma, n. 11, cod. pen. – che, originariamente previsto nel codice come procedibile di ufficio, era divenuto, assieme ad altri, procedibile a querela della persona offesa per effetto del d. Igs. n. 36 dell’aprile 2018, entrato in vigore il 9 maggio successivo, e perciò si poneva il problema di definire l’impatto di tale innovazione sui reati commessi antecedentemente, per i quali sia già iniziato il procedimento.
Iniziando la disamina della questione sottoposta al suo vaglio giudiziale, si faceva presente, come si evince dalla Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, come il legislatore della delega avesse voluto procedere ad un ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela per migliorare l’efficienza del sistema penale, condizionando la repressione penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto ed alla sovranità della persona offesa – analogamente a quanto disposto con gli ultimi interventi sistematici operati nella medesima direzione con l’art. 99 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e, successivamente, con l’art. 19 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (recante delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario), è stata predisposta una disciplina transitoria (art. 12) per regolare le modalità con le quali, in relazione ai reati per i quali è mutato regime di procedibilità, la persona offesa viene messa nelle condizioni di valutare l’opportunità di esercitare nei termini il diritto di formulare l’atto propulsivo – e tale disciplina transitoria è da ritenersi operativa anche in riferimento ai procedimenti pendenti in Cassazione, come si desume dal fatto che la originaria previsione, contenuta nello schema di decreto legislativo (art. 14), di escludere che la trasformazione del regime di procedibilità operasse nel giudizio di legittimità, è stata espunta, su sollecitazione della Commissione Giustizia del Senato, per il profilarsi di un eccesso di delega e, ancor più, come evidenziato anche dalla dottrina a posteriori, di situazioni di ingiustificata disparità di trattamento.
Oltre a ciò si evidenziava come la disciplina transitoria contenuta nell’art. 12 cit. andasse interpretata secondo i principi già indicati da Sez. U, n. 5540 del 17/04/1982, omissis, Rv. 154076 in relazione alla corrispondente norma, formulata in termini sovrapponibili, nel contesto della legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 99), principi dai quali la Corte considerava come non vi fosse motivo di scostarsi nel senso che l’art. 99 è da interpretare nel senso che per i reati commessi prima del giorno di entrata in vigore dell’anzidetta legge e divenuti perseguibili a querela, il termine di proponibilità della querela stessa decorre, ove il procedimento non sia pendente, da detto giorno allorché la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto mentre, in caso di pendenza del procedimento, dal giorno in cui quella persona sia stata informata dall’autorità giudiziaria, ancorché abbia già avuto notizia del fatto costituente reato; e ciò perché la circostanza che discrimina la previsione del secondo comma rispetto a quella del primo comma della citata disposizione dell’art. 99 è costituita dalla pendenza del procedimento e non dalla conoscenza del fatto costituente reato da parte della persona offesa fermo restando che il correttivo del secondo comma dell’art. 99 alla regola posta nel primo comma della stessa norma è da spiegare con l’intento di impedire che i procedimenti promossi per reati originariamente perseguibili di ufficio possano chiudersi con una sentenza di proscioglimento per mancanza di querela sulla base della “fictio legis” e non già a seguito di una formale informativa rivolta dal giudice alla persona offesa in ordine alla facoltà di esercizio della privata doglianza.
A questa prima disamina, di ordine generale, ne seguiva un’altra più specifica ossia se l’informativa alla persona offesa debba essere data, nel giudizio di legittimità, in ogni caso e, in particolare, anche quando il ricorso sia inammissibile.
Al riguardo si richiamava la sentenza Corapi la quale, onde evitare conseguenze aberranti derivanti da una interpretazione formalistica della norma transitoria, giungeva a postulare come l’avviso alla persona offesa non dovesse essere dato quando risulti dagli atti che il diritto di querela sia già stato formalmente esercitato ovvero che l’offeso abbia, in qualsiasi atto del procedimento, manifestato la volontà di instare per la punizione dell’imputato o, ancora, che l’offeso abbia rinunciato al diritto di querela in modo espresso o tacito ai sensi dell’art. 124, cod. pen.; che il diritto di querela sia estinto a norma dell’art. 126 cod. pen.; che sia intervenuta remissione della querela; che la persona offesa non sia stata identificata ovvero risulti irreperibile.
In tutte queste situazioni, inoltre, le Sezioni unite giungevano ad asserire come dovesse essere immediatamente dichiarata l’improcedibilità dell’azione penale per mancanza o per remissione di querela.
Dedotto ciò, si analizzava una ulteriore questione ovverossia se l’avviso di cui alla predetta disposizione debba essere fatto anche nel caso in cui per il reato divenuto perseguibile a querela sia già intervenuta una causa di estinzione, quale la prescrizione o la morte dell’imputato e, a questo proposito, si ricitava la sentenza Corapi nella parte in cui era ivi postulato che la maturata causa di estinzione non può essere recessiva rispetto alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa atteso che, valutato il problema dal punto di vista di quest’ultima, una volta esercitato il diritto di querela, il procedimento è comunque destinato a concludersi con una declaratoria di estinzione del reato; valutato il problema dal punto di vista dell’imputato, dunque, non può prescindersi dal rilevare che nel caso di solo “potenziale” e non anche “attuale” sussistenza di una causa di impromuovibilità o di improseguibilità dell’azione penale e di una causa di estinzione del reato, quest’ultima è destinata ad operare con immediatezza come disposto dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., in quanto è sottratto al giudice il potere di esaminare e di decidere ogni altra questione relativa all’azione penale.
Tal che se ne faceva conseguire come l’inammissibilità del ricorso dovesse ritenersi ostativa alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa anche perché, in tale prospettiva, occorre in primo luogo evidenziare che la inammissibilità dovuta a tardività del ricorso per la sua intempestiva presentazione costituisce una ipotesi di indiscussa ostatività alla rilevazione di cause di non punibilità o improcedibilità stante anche il fatto che, come di recente ribadito da Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del ricorso determina, secondo la lettera dell’art. 648, secondo comma, cod. proc. pen, il formarsi del giudicato formale ed il ricorso presentato con le dette modalità non è altro che un “simulacro di gravame” sicché il provvedimento giudiziale di inammissibilità che ne consegue, per la sua natura dichiarativa, non fa altro che rimuoverlo dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine e dunque ben può affermarsi che ci si trova in presenza di un atto inidoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione ed alla instaurazione di un valido rapporto processuale.
Il ricorso inammissibile per tardività, pertanto, non ritenuto idoneo a far rilevare la illegalità della pena neppure se derivante da una declaratoria di illegittimità costituzionale, a maggior ragione va considerato inidoneo, ad avviso della Corte, a dar vita alla fase nella quale dovrebbe avere luogo la attività complessa volta alla verifica delle condizioni per la declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela.
Ebbene, a fronte di ciò, i giudici di Piazza Cavour osservavano, sempre in questa pronuncia, come a nulla rilevasse (nel caso di specie) il disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. che, nel rendere doveroso per il giudice rilevare in ogni stato e grado del processo una eventuale causa di non punibilità, pure coordinato con l’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. sui poteri di ufficio della Corte di cassazione, pone un precetto che in tanto si rende operativo, in quanto abbia avuto esito positivo il previo scrutinio sulla ammissibilità dell’impugnazione: uno scrutinio che deve coniugarsi col principio dispositivo delle impugnazioni e cioè quello che consente l’introduzione del giudizio di impugnazione esclusivamente nei limiti concretamente individuati dalle parti e nel necessario rispetto delle regole poste dal codice tanto più se si considera che il ricorso inammissibile preclude di procedere all’iter complesso previsto dal legislatore del 2018 per la eventuale realizzazione delle condizioni di procedibilità del reato, a querela di parte.
Anche sotto il profilo nomofilattico, si richiamava, a sostegno di quanto appena esposto, la sentenza Ricci che, ponendosi nel solco di Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, efficacemente ribadiva che l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che presuppone il pieno esercizio della giurisdizione e dunque non riveste, cioè, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 266818).
Da ciò se ne faceva discendere come fosse da escludersi che, in presenza di ricorso inammissibile, e senza che si apprezzi alcuna novità normativa o sistematica atta a riaprire il dibattito sulla eventuale distinguibilità fra cause di ontologica invalidità del ricorso (come nel caso di atto non sottoscritto o presentato da soggetto non legittimato) e cause che richiedano un meno evidente apprezzamento da parte del giudice (come nel caso di manifesta infondatezza dei motivi), possa affermarsi, nell’ottica dell’attivazione della disciplina transitoria posta dal citato art. 12, che, alle condizioni suddette, il procedimento sia “pendente” anche perché tale affermazione non è neppure in contrasto con i diritti fondamentali sul giusto processo garantiti dalla CEDU, se si considera che, come sottolineato anche dalla sentenza Ricci, è la parte interessata ad essere onerata di attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l’equità o la razionalità del processo.
Si escludeva altresì che la sopravvenienza della procedibilità a querela e, ancor prima, la procedura finalizzata all’eventuale accertamento della improcedibilità per mancanza di querela a seguito dell’esito negativo della informativa data alla persona offesa, potessero essere ritenute idonee ad operare come una ipotesi di abolitio criminis (e finalizzazione all’accertamento di abolitio criminis), capace di prevalere sulla inammissibilità del ricorso atteso che la sopravvenuta eventualità della improcedibilità, dovuta all’abbandono del regime di perseguimento di ufficio del reato, non opera come la richiamata ipotesi abrogativa la quale è invece destinata ad essere rilevata anche in sede esecutiva mediante la revoca della sentenza ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen..
Si riteneva dunque come fosse da escludersi che il giudice dell’esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità così come, anche nel giudizio di legittimità, la mancanza di tale condizione era stata comunemente trattata come una questione di fatto, soggetta alle regole della autosufficienza del ricorso (Sez. 6, n. 44774 del 08/10/2015) ed ai limiti dei poteri di accertamento della Cassazione (Sez. 3, n. 39188 del 14/10/2010), sicché non poteva sostenersi che la declaratoria di inammissibilità del ricorso fosse destinata ad essere messa in crisi da una ipotetica, incondizionata necessità di verifica dello stato della condizione di procedibilità come richiesta dalla normativa subentrata.
Venendo invece a trattare l’istituto della querela in quanto tale, una volta osservato che detta condizione di procedibilità, per come disciplinata nel vigente codice di rito, che le ha riservato una collocazione sistematica di univoca significatività nel Titolo III del Libro V, tra le condizioni di procedibilità, presenta una vocazione essenzialmente processuale, vocazione che risulta più accentuata che in passato, si denotava però come i tratti, che sul piano dogmatico la caratterizzano, non fossero univoci, come messo in evidenza dalla stessa giurisprudenza penale, che non ne sottovaluta anche la attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato; infatti, a differenza della giurisprudenza civile (cfr., Sez. U, n. 27337 del 18 novembre 2008) e della prevalente dottrina, la giurisprudenza penale ne sottolinea, in continuità col passato, anche un profilo sostanziale, così aderendo alla c.d. teoria “mista”.
Orbene, proprio in virtù di questo polimorfismo, le Sezioni unite mettevano in risalto come le questioni sulla verifica della querela di cui è sopraggiunta la necessità per effetto di successione di leggi nel tempo, ed in assenza di disciplina transitoria, non venissero trattate in base al principio del tempus regit actum evidenziandosi a questo riguardo come la giurisprudenza, piuttosto, non dissimilmente, in questo, dalla dottrina, avesse accreditato la querela come istituto da assimilare a quelli che entrano a comporre il quadro per la determinazione dell’an e del quomodo di applicazione del precetto, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. (v., in tema di procedibilità d’ufficio per i reati di violenza sessuale, Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 e Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, omissis, Rv. 209188; in tema di procedibilità a querela introdotta per il reato di cui all’art. 642 cod. pen., Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, omissis, Rv. 241862), giungendo per via interpretativa, quando non vi aveva provveduto il legislatore con una specifica norma transitoria, alla conclusione della applicazione retroattiva dei soli mutamenti favorevoli (sostituzione del regime della procedibilità di ufficio con quello della procedibilità a querela), senza che possa valere la regola della cedevolezza del giudicato.
A fronte di ciò, si evidenziava come, nel caso di specie, la disciplina transitoria dell’art. 12 d.lgs. n. 36/2018 avesse regolato positivamente la retroattività del nuovo regime di procedibilità e le condizioni alle quali esso opera, senza peraltro che dalla norma stessa o dalla disciplina codicistica dei mutamenti normativi favorevoli diversi dalla abolitio criminis potessero trarsi argomenti per sostenere che le innovazioni che introducono la procedibilità a querela, nel rapporto con il ricorso inammissibile, non sarebbero da uniformare al trattamento riservato, in base alla giurisprudenza assolutamente prevalente, ai mutamenti favorevoli in tema, in generale, di cause di non punibilità ed in particolare di cause estintive del reato, aventi natura più marcatamente sostanziale: retroattività, col limite della presentazione di ricorso inammissibile, e ciò anche perché non osta a tale conclusione neppure il principio enunciato dalla sentenza Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, incentrata sulla “remissione di querela” che sia intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e sia stata ritualmente accettata: in relazione ad essa era stato affermato che, nel determinare l’estinzione del reato, detta remissione prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, sempre che il ricorso sia stato tempestivamente proposto atteso che detta affermazione prende le mosse da un inquadramento della remissione della querela non tanto come istituto sostanziale e per questo assimilabile alle altre cause di estinzione del reato, quanto piuttosto in ragione della sua capacità di differenziarsi dalle dette altre cause di estinzione per la caratteristica che essa presenta non solo di estinguere il diritto punitivo dello Stato, ma di paralizzare la perseguibilità stessa del reato: con la conseguenza della massima estensione da attribuire al termine ultimo per la sua rilevazione, secondo il disposto dell’art. 152, terzo comma, cod. pen., e cioè fino alla condanna irrevocabile in senso formale, che è evenienza processuale sicuramente posteriore e indipendente dal fatto in sè della presentazione di un ricorso inammissibile e utile ai fini in esame, salvo il caso della inammissibilità per tardività.
A sua volta la stessa sentenza Chiasserini non mancava però di rilevare, in primo luogo, che in caso non di remissione, ma di “mancanza” di una condizione di procedibilità, la problematica appare “davvero non coincidente” non fosse altro perché il tempo per la relativa rilevazione, sia secondo il disposto dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. sia secondo quello dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. per l’esercizio dei poteri officiosi, sia, soprattutto, secondo la norma transitoria dell’art. 12 cit., è, per la rilevazione tanto della mancanza originaria quanto di quella sopravvenuta, quello della pendenza di un “processo”, preclusa, per quanto sopra osservato, dalla presentazione di ricorso inammissibile, che deve ritenersi quindi idonea a determinare il giudicato sostanziale.
Le Sezioni unite però ritenevano come un’altra argomentazione fosse davvero dirimente per risolvere il quesito prospettato ossia quella secondo la quale il confine ampliato per la rilevazione della remissione di querela, su un terreno che privilegia il dato cronologico (fino alla condanna irrevocabile e cioè al giudicato formale) su quello dei rapporti processuali validi, in linea generale, per le altre cause di non punibilità (pendenza del processo in ragione della presentazione di un ricorso ammissibile, e quindi mancata formazione del giudicato sostanziale) può valere per registrare gli effetti dell’esercizio (extra-processuale) del diritto potestativo della persona offesa a far cadere la già espressa manifestazione di volontà negoziale; viceversa, non trattandosi qui della constatazione diretta della mancanza di querela, ma dell’espletamento di un procedimento incidentale a effetto eventuale, quale quello a tutela della persona offesa, volto a verificarne la volontà nell’ottica della presentazione della querela ai sensi dell’art. 12 d.lgs. n. 36 del 2018, non può non rilevarsene l’inidoneità ad essere assimilato al caso precedente e a beneficiare degli stessi ambiti di operatività dato che – fermo il fatto che una volontà espressa in senso affermativo dalla persona offesa nulla apporterebbe all’interesse dell’imputato al proscioglimento – in caso invece di esito negativo, a fronte pure di un prolungamento sine die dei tempi processuali, si consentirebbe il consolidarsi di una condizione di improcedibilità con impropri effetti sananti delle inammissibilità che affliggevano il ricorso proposto.
Pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, gli ermellini giungeva a postulare il seguente principio di diritto: “In presenza di un ricorso inammissibile non deve darsi alla persona offesa l’avviso previsto dall’art. 12, comma 2, d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 per l’eventuale esercizio del diritto di querela“.
Quanto al secondo quesito proposto, cioè quello relativo ai casi in cui, invece, essendo necessario che la procedura per la informativa alla persona offesa debba essere espletata, se sia possibile o meno che, per tutto il periodo interessato, operi la sospensione del termine di prescrizione.
La risposta data dalla Corte è stata negativa per le seguenti ragioni.
Si evidenziava prima di tutto come la norma codicistica che regola la sospensione del corso della prescrizione, ossia l’art. 159 cod. pen., lo faccia in relazione ad una casistica molto dettagliata e di stretta interpretazione, andando ad incidere sul diritto dell’imputato di vedere definito il processo in tempi ragionevoli e, in caso contrario, di vedere riconosciuta la cessazione dell’interesse dello Stato all’accertamento della responsabilità e alla punizione e, quindi, se la norma generale è quella contenuta nel primo comma dell’articolo citato ove la sospensione della prescrizione viene agganciata, quale corollario, a tutti i casi in cui, ancor prima, «una particolare disposizione di legge» abbia imposto la sospensione del procedimento o del processo, ciò vuol significare che non basta che la legge extra-codice preveda o meglio imponga una determinata attività processuale a carico della autorità giudiziaria con riferimento ai processi in corso, per inferirsene che tale previsione comporti, di per sè, la sospensione della prescrizione dato che è richiesto, piuttosto, che il legislatore abbia previsto, unitamente a quella, la sospensione del procedimento o del processo.
Ebbene, nel caso in questione, una previsione di tal tipo non è stata ritenuta sussistente, né si è ritenuto di procedere ad una interpretazione estensiva (o analogica che dir si voglia) per includere la sospensione della prescrizione anche in evenienze processuali di questo genere e ciò perché, oltre le ragioni già illustrate in precedenza, da un lato, l’impiego di un termine per l’informativa alla persona offesa e per consentirle di esprimersi nel trimestre successivo, con la possibilità di far proseguire il processo pendente, non può gravare sull’imputato, sterilizzando sine die il corso della prescrizione, con una interpretazione analogica in malam partem dell’art. 159 cod. pen., dall’altro, esaminata la questione anche dal punto di vista della tutela dell’interesse dell’imputato, l’esercizio della detta facoltà, con esito invece favorevole ad esso, sarebbe rapportabile alle attività di interesse per il diritto di difesa e per tale ragione per essa opererebbe il consolidato principio per cui il differimento dell’udienza determinato dalla necessità di consentire il concreto esercizio di una facoltà riconducibile al diritto di difesa non comporta sospensione della prescrizione (Sez. 4, n. 9224 del 29/01/2002, omissis, Rv. 220986).
Tal che, in virtù di tali considerazioni decisorie, si addiveniva a postulare il seguente principio di diritto: “Nel tempo necessario a dare attuazione alle disposizioni transitorie previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 36 del 2018, il corso della prescrizione non resta sospeso”.

Conclusioni

La sentenza in esame è sicuramente condivisibile atteso che in detta decisione si è fatto un buon governo dei principi ermeneutici che regolano aspetti giuridici sicuramente non marginali delle questioni che sono state sottoposte al vaglio delle Sezioni unite (quali il tema delle conseguenze derivanti da un ricorso per cassazione dichiarato inammissibile e come deve essere interpretato l’art. 159 c.p.).
Va da sé, dunque, che sotto un profilo pratico, non vi è nessuna conseguenza procedurale nel caso in cui non sia dato alla vittima l’avviso previsto dall’art. 12, c. 2, decreto legislativo n. 36/2018 ove il ricorso per cassazione sia dichiarato inammissibile.
A sua volta il corso della prescrizione non si sospende durante il periodo in cui si deve dare attuazione alle disposizioni transitorie previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 36 del 2018 dato l’art. 159 c.p. nulla dispone al riguardo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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