Ognuno di noi, dal giurista all’uomo della strada, si è certamente imbattuto nel diritto comunitario di cui, però, spesso, poco si sa. Si sa che è frutto di un legislatore sovranazionale che, se in alcune occasioni ha una forza ed un’incisività molto maggiore di quello nazionale, e può dove quest’ultimo non ha potuto, in altre mostra la sua estrema lontananza dalle realtà locali, dando risposte astruse a problemi fortemente sentiti.
Una persona che abbia avuto occasione di avvicinarsi al diritto e ne abbia, per una qualsiasi ragione, una certa visione d’insieme, è portata subito a pensare che il diritto comunitario non sia altro che un ramo del più ampio diritto internazionale, una sua sottospecie e come tale risponda alla stessa logica.
Probabilmente non c’è nulla di più sbagliato.
In comune con il diritto internazionale ha sicuramente il carattere di sovranazionalità; che le sue norme fondamentali sono contenute in trattati internazionali (il Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della CECA, i Trattati di Roma del 1957 istitutivi della CEE e dell’EURATOM), ma tolto questo, ha molti più punti di contatto con il diritto nazionale.
Volendo riassumere e schematizzare, le differenze principali sono:
Mentre le norme di diritto internazionale hanno come unici destinatari gli Stati ed, eventualmente, le organizzazioni internazionali a cui si riconosce soggettività, quelle di diritto comunitario (comprese i trattati istitutivi) sono dirette anche ad altri soggetti (privati, imprese…);
Mentre il diritto internazionale ha mezzi molto limitati per indurre i destinatari al rispetto delle norme, il diritto comunitario ha un sistema sanzionatorio e coercitivo (fondato pur sempre sull’utilizzo degli strumenti predisposti a livello nazionale) che ne garantisce l’attuazione;
Mentre le norme di diritto internazionale pattizio sono comunque soggette all’eventuale abrogazione ad opera di consuetudini successive di contenuto diverso, le norme di diritto comunitario (ad esclusione di quelle dei trattati, seppur con dei limiti e delle precisazioni) non sono suscettibili di abrogazione ad opera di consuetudini. Questo perchè, in realtà, è diverso il rapporto rispetto alla gerarchia delle fonti di diritto interno.
Questi tre aspetti valgono ad evidenziare la natura “anomala” del diritto comunitario, che non può collocarsi nè nell’alveo del diritto internazionale, avendo caratteri propri del diritto interno (es. la coercitività), nè in quello del diritto interno, avendo caratteri propri del diritto internazionale (es. la sovranazionalità).
Cos’è, allora, il diritto comunitario? Torniamo, così, al quesito iniziale: il diritto comunitario è un tertium genus, un quid novi nel panorama della teoria generale del diritto non assimilabile in nessuna delle categorie precedentemente conosciute.
Comunque a questa domanda non può essere data una soluzione esauriente sin da ora ma solo dopo aver approfondito tutti gli aspetti afferenti; solo così verrà piano piano in luce la natura e l’originalità di questo “nuovo ramo del diritto”.
Da un punto di vista schiettamente metodologico, il lavoro sarà ripartito seguendo una serie di itinerari tematici che verranno affrontati analiticamente nel tentativo di dare una visione particolareggiata e tale da renderlo un vero e proprio vademecum teorico-pratico.
Questa velleità sistematica, però, implica che esso non possa essere realizzato in tempi brevi, ma richieda un impegno protratto e tale da renderlo il frutto di studi specifici e monografici; per cui è gioco forza doverlo realizzare a tappe, dando così “alle stampe” ogni singolo risultato che andrà ad arricchire i precedenti in vista dell’obiettivo finale.
A tal punto una scelta si imponeva: da dove iniziare? Che struttura dare al lavoro?
La scelta è stata ardua; questo è il risultato:
Le quattro libertà fondamentali;
Il diritto della concorrenza;
I fondi (strutturali e non);
Le istituzioni comunitarie;
Le fonti normative.
E’ una ripartizione, questa, sui generis, che inverte l’ordine tradizionale degli “addendi”: non si parte dal generale, dagli elementi istituzionali e strutturali per passare all’analisi dell’operatività, bensì si fa il contrario. Questo per dare un carattere più pratico-tecnico all’indagine e supportarla solo successivamente con elementi di tipo istituzionale. La caratteristica, e la forza, dell’ipertestualità sta proprio in questo: nella possibilità di manipolare un testo attagliandolo alle proprie, concrete esigenze. In quest’ottica, la centralità del discorso, nel diritto comunitario, spetta all’ambito operativo non a quello istituzionale per cui, dovendo essere quest’ultimo strumentale al primo, potrà essere collocato in maniera diversa da come tradizionalmente si fa, per cui ne è la premessa ma non la premessa necessaria.
Le quattro libertà fondamentali.
Sono i pilastri su cui è stata fondata la Comunità Economica Europea al suo nascere nel 1957. L’intenzione degli Stati firmatari del Trattato di Roma istitutivo della CEE era, appunto, quella di creare un mercato comune in cui, indipendentemente dall’andamento e dalla regolazione di esso, comunque fosse garantita una libera circolazione dei prodotti (merci e servizi) e dei fattori produttivi (capitale e lavoro). Questo per eliminare ostacoli di tipo protezionistico garantendo alle economie nazionali una possibilità di maggior espansione.
Per questo furono previste le quattro libertà:
Libera circolazione delle merci;
Libera circolazione dei servizi;
Libera circolazione delle persone (rectius: dei lavoratori);
Libera circolazione dei capitali.
Affinchè un regime liberista fosse effettivamente e proficuamente realizzato si sancì l’obbligo di conduzione di una politica economica (comunitaria e nazionale) improntata al principio di economia di mercato aperto e in libera concorrenza, altrimenti una vera e propria libera circolazione non si sarebbe potuta nemmeno immaginare (da ciò ne derivo irrimediabilmente l’inserzione delle norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stati, ovvero una serie di divieti imposti alle imprese e agli Stati di tenere comportamenti che falsassero il gioco della libera concorrenza, ledendo irrimediabilmente il meccanismo della libera circolazione).
All’indomani dell’Atto Unico Europeo e del Trattato di Maastricht, con cui si è avuto un notevolissimo ampliamento delle competenze delle Istituzioni Comunitarie (e quindi del diritto comunitario), le quattro libertà restano, comunque, i baluardi fondanti l’intero sistema economico europeo, fulcro su cui si muove l’intera leva del sistema.
La libera circolazione delle merci
E’ prevista e disciplinata nel trattato in tre sedi distinte con riferimento, pertanto, a tre diversi aspetti:
L’unione doganale, ovvero l’abolizione dei dazi e delle tasse di effetto equivalente ai dazi doganali all’interno del mercato comune, nonchè la fissazione di una tariffa doganale comune per gli scambi con i paesi terzi (artt. 9-29);
Il divieto di imposizioni fiscali interne di portata discriminatoria per i prodotti importati (art. 95);
L’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi intracomunitari e delle misure di effetto equivalente, nonchè l’abolizione dei monopoli commerciali (artt. 30-36, art. 73).
Sono stati approntati, cioè, tutti gli strumenti necessari a che fosse inibito agli Stati membri di limitare gli scambi commerciali infracomunitari; è stato loro inibito non solo di utilizzare misure protezionistiche di tipo “classico” quali dazi doganali o tasse di effetto equivalente ma anche, e qui sta l’estrema forza del diritto comunitario degli scambi, misure normative (di natura provvedimentale ma anche legislativa) che sebbene poste a tutela di interessi di tipo diverso rispetto alla protezione dell’economia nazionale (es. a garanzia di standards qualitativi più o meno elevati di un prodotto) comunque incidono sulla libera concorrenza falsandola.
Molto hanno fatto le norme del trattato, in tal senso, ma molto ha fatto la giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGCE) che nella sua attività nomofilattica ha chiarito principi e norme dalla non facile interpretazione fortificando ulteriormente le posizioni se non, addirittura, ampliandole. Da ciò si comprende che analizzare le norme sulla libera circolazione delle merci non significa soltanto limitarsi alle disposizioni del trattato ma soprattutto nell’analisi, comprensione ed integrazione delle sentenze della Corte del Lussemburgo. In realtà questo è vero non solo per la materia che ora ci occupa ma per tutte le disposizioni del trattato allorchè ogni norma è stata, è e sarà vivificata dalle pronunce della Corte ma per la libera circolazione delle merci è tanto più vero in quanto copiosissima è la produzione di sentenze. Questo per una serie di ragioni, anzitutto perchè la CEE nasce come organismo internazionale volto a promuovere l’integrazione economica dei paesi aderenti il che, almeno per i primi decenni, ha significato cercare di garantire un mercato più ampio alle merci. Sebbene, cioè, il trattato non si riducesse agli scambi di merci ma avesse come obiettivo anche l’integrazione del mercato dei lavoratori, dei capitali e dei servizi si è finiti per considerare vera ed assoluta l’equazione: mercato comune = libera circolazione delle merci. E, in realtà, non è nemmeno inspiegabile o da criticare una posizione del genere allorchè in un contesto in cui gli Stati erano arroccati su posizioni di estrema difesa delle prerogative nazionali solo la possibilità del profilarsi di un’espansione dell’economia, grazie ad un ampliamento dei mercati, avrebbe fatto loro “digerire” un sistema completamente avulso dalla tradizione del diritto internazionale.
Il concetto di merce nel diritto comunitario.
Prima ancora di analizzare le norme del trattato è preliminarmente necessario chiarire il concetto di merce rilevante ai fini della disciplina comunitaria. E’ tale da comprendere tutti i prodotti valutabili in denaro e quindi idonei ad essere oggetto di una transazione commerciale. Tale definizione è stata data con riferimento al caso Commissione c. Italia (causa 7/68, sentenza del 10 dicembre 1968) in cui si trattava di stabilire se rientrassero nella nozione di merce gli oggetti di interesse artistico, storico, archeologico o etnologico che si assumeva non fossero assimilabili a beni di scambio e, pertanto, sottratti alla disciplina comunitaria. La Corte, invece, ha ritenuto che anche tali beni vi rientrassero in quanto, essendo valutabili economicamente, possono pur sempre essere oggetto di transazioni commerciali. Il criterio enunciato è quello della valutabilità economica indipendentemente da quello che è il regime giuridico loro proprio, cioè, sebbene il bene risulti essere una res extra commercium comunque potendo, anche se illegalmente, essere commerciato è merce. Di qui si è ricostruita una nozione economica e non giuridica di merce.
Sono poi state comprese nella nozione rilevante di merce:
le monete che non abbiano più corso legale, mentre costituiscono mezzo di pagamento quelle in corso e che circolano liberamente in uno Stato membro, seppur coniate ed emesse da uno Stato terzo (Thompson, causa 7/78, sentenza 23 novembre 1978);
i prodotti che incorporano opere dell’ingegno o artistiche come i dischi (Gema, cause riunite 55/80 e 57/80, sentenza 20 gennaio 1981) e le videocassette (Sacchi, causa 155/73, sentenza 30 aprile 1974);
i prodotti che rivestano rilievo particolare per l’economia di uno Stato membro, come il petrolio (Costa c. Enel, causa 6/64, sentenza 15 luglio 1964);
gli stupefacenti (Evans Medical, causa C-324/93, sentenza 28 marzo 1995).
Estremamente discusso è il caso dei rifiuti. Se pare che non ci siano particolari remore riguardo all’includibilità nella categoria dei rifiuti riciclabili che hanno un loro valore commerciale, estremamente scettici si è riguardo a quelli non riciclabili che invece rappresentano solo un costo per lo smaltimento. La Corte in maniera pressochè apodittica si è pronunciata nel senso che qualsiasi oggetto trasportato al di là di una frontiera per dar luogo a transazioni commerciali sono sottoposti al regime della libera concorrenza delle merci indipendentemente dalla natura della transazione ed inoltre la distinzione tra rifiuti riciclabili e non andrebbe rigettata sia perchè di difficile applicazione, sia perchè la riciclabilità dipenderebbe da fattori del tutto variabili e principalmente dal costo delle relative operazioni (Commissione c. Belgio, causa C-2/90, sentenza 9 luglio 1992).
Vanno, poi, esclusi dal novero i prodotti che riguardano la sicurezza in senso stretto (armi, munizioni…) che, inseriti in un apposito elenco predisposto dal Consiglio, sono sottoposti alla disciplina speciale dell’art. 223 del trattato.
I prodotti agricoli, compresi quelli ittici, invece, generalmente rientrano nella disciplina generale del mercato comune salvo un’espressa esclusione connessa alla applicabilità di un regime specifico regolato dalle disposizioni sulla Politica Agricola Comunitaria (PAC) (Commissione c. Regno Unito, causa 231/78, sentenza 29 marzo 1979; Charmasson, causa 48/74, sentenza 10 dicembre 1974; Commissione c. Francia, causa 68/76, sentenza 16 marzo 1977).
L’unione doganale.
La norma si apre con la enunciazione del principio secondo cui la Comunità è fondata su un’unione doganale. Ciò la rende diversa rispetto ad altre organizzazioni quali il GATT (ora WTO), l’EFTA, il SEE che instaurano semplicemente una zona di libero scambio; la differenza risiede nel fatto che mentre quest’ultima è l’ipotesi di un insieme di Stati tra cui si aboliscono i dazi e altre misure restrittive degli scambi limitatamente ai prodotti originari dei paesi aderenti, l’altra, invece, indica una forma più avanzata di cooperazione in cui all’abolizione dei dazi e delle altre restrizioni si aggiunge l’uniformità sostanziale dazi applicati agli scambi con i paesi terzi.
Ma la Comunità Europa è ancora altro:
la libera circolazione vale non solo per i prodotti originari degli Stati membri ma anche in libera pratica, ovvero originari di Stati terzi ma entrati, comunque, nel mercato europeo;
esiste un regime di preferenza per i prodotti comunitari;
la disciplina doganale è sottoposta ad un meccanismo di interpretazione giudiziaria centralizzata attraverso il rinvio pregiudiziale alla CGCE ex art. 177 del trattato;
le entrate costituite dalle tariffe doganali sono destinate al bilancio comunitario.
Il primo di questi tratti evidenzia come la normativa comunitaria stranamente si applica non solo a beni prodotti all’interno del territorio di uno degli Stati membri ma anche di paesi terzi ed immesso nell’unione. Questo però è vero solo con riguardo alla circolazione intracomunitaria per cui dazi, contingentamenti possono benissimo essere posti alle frontiere esterne. Questo implica che il prodotto extracomunitario possa essere oggetto di discriminazione e pertanto dal sistema si profila il regime di preferenza. Il problema che ci si è posti, a tal riguardo, è: quando un bene può ritenersi d’origine comunitaria? Una risposta è tanto più ardua quanto più complessa è la produzione, tale da realizzarsi in più fasi riguardanti due o più Stati. A tal uopo soccorre l’art. 24 del reg. 2913/92 del Consiglio (12 ottobre 1992), il cd. codice doganale comunitario, dove si legge che ai fini dell’individuazione dell’origine del prodotto si prende in considerazione “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione” (criterio dello stadio produttivo determinante).
I dazi doganali e le tasse di effetto equivalente.
Pone il divieto agli Stati membri di introdurre dazi doganali e tasse di effetto equivalente negli scambi (gli artt. 13-15 prevedono la procedura che avrebbero dovuto osservare per eliminare quelli esistenti).
Dubbi interpretativi non nascono tanto con riguardo al concetto di dazio quanto a quello di tassa di effetto equivalente su cui vi è una copiosa giurisprudenza volta a specificarne e chiarirne i caratteri essenziali.
Si può dire che è tassa di effetto equivalente quell’onere pecuniario (altrimenti potrà costituire una misura di effetto equivalente e non una tassa) che, indipendentemente dalla denominazione e dalla struttura, è direttamente o indirettamente collegato all’importazione o all’esportazione di un prodotto, anche se imposto in un momento diverso per cui pur non essendo una dazio produce lo stesso effetto discriminatorio tra prodotto nazionale e prodotto “estero”, elevando il prezzo di quest’ultimo, in ragione del semplice attraversamento delle frontiere (Commissione c. Lussemburgo e Belgio – Pan pepato -, cause riunite 2/62 e 3/62, sentenza 14 dicembre 1962. Nello stesso senso Deutschmann, causa 10/65, sentenza 8 luglio 1965; Germania c. Commissione, cause riunite 52/65 e 55/65, sentenza 16 giugno 1966). Questa era la definizione tradizionale che agli inizi della vita della Comunità è stata data; successivamente è stato precisato che l’abolizione delle barriere doganali non ha tanto e/o solo l’obiettivo di colpire gli intenti protezionistici eventualmente perseguiti dagli Stati ma piuttosto assicurare in generale la libera circolazione delle merci pertanto il problema si è posto rispetto ad ipotesi in cui non vi erano prodotti nazionali concorrenti sui quali si potesse misurare l’elemento della discriminazione (Commissione c. Italia, causa 24/68, sentenza 1 luglio 1969; Sociaal Fonds Diamantarbeiders, cause riunite 2/69 e 3/69, sentenza 1 luglio 1969; IGAV, causa 94/74, sentenza 18 giugno 1975).
Deve colpire il prodotto in ragione dell’importazione ma non necessariamente rendendola più onerosa, che è gia cosa diversa rispetto al semplice aggravio di costo (Marimex, causa 29/72, sentenza 14 dicembre 1972), ma anche soltanto aggravandone gli adempimenti amministrativo-burocratici (Variola, causa 29/72, sentenza 14 dicembre 1972).
Non ha rilevanza, invece, il momento in cui viene imposto o percepito l’onere, nonchè il soggetto beneficiario, che può anche non essere lo Stato (IGAV, causa 94/74, sentenza 18 giugno 1975; Commissione c. Italia, causa 24/68, sentenza 1 luglio 1969; Social Fonds Diamantarbeiders, cause riunite 2/69 e 3/69, sentenza 1 luglio 1969; Lamaire, causa C-130/93, sentenza 7 luglio 1994), così come la finalità (Commissione c. Italia, causa 7/68, sentenza 10 dicembre 1968; Marimex, causa 29/72, sentenza 14 dicembre 1972) e l’ammontare dell’onere che può essere anche minimo (Commissione c. Italia, causa 24/68, sentenza 1 luglio 1969).
Il divieto opera anche nell’ipotesi in cui il dazio e/o tassa d’effetto equivalente incida solo su un mercato regionale, ovverosia colpisca l’importazione solo con riguardo ad una determinata e ben definita regione e non tutto il territorio nazionale (si pensi ad una legge regionale) ed anche se esso incida indistintamente tanto sui prodotti esteri quanto sui prodotti nazionali di altre regioni; è il caso, ad esempio, del cd. “dazio di mare” che colpiva tutti i prodotti che venivano introdotti nei territori francesi d’oltremare (Legros, causa C-163/90, sentenza 16 luglio 1992; Ligur Carni, cause riunite C-277/91, C-318/91 e C-319/91, sentenza 15 dicembre 1993; Aragonesa Publicidad, cause riunite C-1/90 e C-176/90, sentenza 25 luglio 1991; Du Ponte de Nemours, causa 21/88, sentenza 20 marzo 1990).
A tal punto ci si è chiesti se, in caso di dazio “regionale” che discrimini non solo il produttore estero ma anche quello nazionale, possa quest’ultimo ricorrere all’art. 12 del trattato. La giurisprudenza della Corte è ferma nel ritenere inammissibile un tale ricorso in quanto la norma va applicata solo quando si falsi la libera circolazione infracomunitaria e non all’interno di uno stesso Stato, anche se pare verosimile ritenere che uno Stato qualora sia costretto ad eliminare il dazio a tutela di importatori comunitari comunque lo mantenga a danno di produttori nazionali non regionali (Lancry, cause riunite C-363/93, C-407/93 e C-411/93, sentenza 9 agosto 1994; Steen II, C-132/93, sentenza 16 giugno 1994).
E’ comunque previsto un regime di esenzione che lascia operanti alcune tasse all’importazione. Anzitutto lìipotesi di un onere pecuniario che sia richiesto dall’amministrazione a fronte di un servizio prestato in favore e nell’interesse dell’importatore, è, però, necessario che:
si tratti di un compenso per un servizio effettivamente prestato dall’amministrazione (Commissione c. Italia, causa 24/68, sentenza 1 luglio 1969);
il servizio sia reso individualmente e a favore dell’operatore e non semplicemente in vista di un interesse generale (Cadsky, causa 63/74, sentenza 26 febbraio 1975; Donner, causa 39/82, sentenza 12 gennaio 1983; Ligur Carni, cause riunite C-277/91, C-318/91 e C-319/91, sentenza 15 dicembre 1993);
l’onere pecuniario deve avere la natura di corrispettivo e quindi proporzionato alla qualità ed al costo del servizio (Bakker, causa C-111/89, sentenza 2 maggio 1990).
Una seconda deroga è connessa ad oneri imposti in base a normative comunitarie che, comunque, devono essere proporzionati al costo effettivo del servizio (Bauhuis, causa 46/76, sentenza 25 gennaio 1977), ovvero imposti da convenzioni internazionali che favoriscano la libera circolazione delle merci (Commissione c. Paesi Bassi, causa 89/76, sentenza 12 luglio 1977). Vi rientra anche l’ipotesi degli importi compensativi monetari istituti nell’ambito della PAC, in quanto si tratta di misura comunitarie destinate a compensare l’instabilità monetaria e non di oneri istituti unilateralmente dagli Stati membri (Racke, causa 136/77, sentenza 25 maggio 1978)
Altra deroga è quella in cui l’onere è parte di un sistema generale di tributi interni che colpisca con uguali criteri e sistematicamente sia il prodotto importato che quello nazionale.
Le imposizioni fiscali discriminatorie.
Si può incidere sulla libera circolazione delle merci anche senza imporre dazi doganali ma semplicemente diversificando il regime impositivo interno, ovvero colpendo la merce non ne l momento in cui entra nello Stato ma in una fase successiva.
I compilatori del trattato, pertanto, hanno supportato le norme sul divieto di dazi doganali con altre che vietano anche interventi protezionistici. A tal uopo è stato inserito l’art. 95 che vieta agli Stati membri di applicare direttamente o indirettamente ai prodotti comunitari (o in libera pratica) imposizioni interne di qualsivoglia natura superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali similari.
Il richiamo generico dell’articolo ad “imposizioni interne” sembra legittimare l’estendibilità non solo alle imposte indirette ma anche a quelle dirette, di fatto ha trovato applicazione solo per le prime, in sintonia con l’oggetto della norma, che vieta le imposizioni suscettibili di discriminare tra prodotti.
Il tributo interno discriminatorio di cui all’art. 95 va distinto dalla tassa di effetto equivalente di cui all’art. 12 con cui potrebbe essere confuso. Entrambe, infatti, hanno come caratteristica comune quella di non essere un dazio, ma mentre la tassa di effetto equivalente ad un dazio colpisce SOLO il prodotto importato ed IN RAGIONE dell’importazione, il tributo interno discriminatorio colpisce sia il prodotto nazionale che quello comunitario ed in maniera del tutto indipendente dall’importazione. In tale ultimo caso la concorrenza viene falsata non per la presenza dell’imposta ma per la differenza di trattamento tra i prodotti. Da ciò se ne fa derivare un diverso regime sanzionatorio: la tassa di effetto equivalente va eliminata per ripristinare l’uguaglianza di trattamento (perchè incide solo sul prodotto comunitario), il tributo interno discriminatorio va modificato in modo tale da incidere ugualmente sui due prodotti. Perciò:
I due regimi normativi non sono applicabili cumulativamente perchè sostanzialmente diverse sono le fattispecie (Lutticke, causa 57/65, sentenza 16 giugno 1966);
La tassa di effetto equivalente colpisce esclusivamente il prodotto comunitario e per ciò stesso va eliminata, se il tributo interno colpisce solo il prodotto comunitario (perchè non vi è nessun prodotto nazionale) senza che sia riscontrabile il carattere discriminatorio, è del tutto legittimo (Commissione/Danimarca, causa 47/88, sentenza 11 dicembre 1990).
Altresì, per distinguere le due categorie, andrebbe considerata anche la destinazione del tributo. Se il gettito va a compensare completamente la tassazione si ha tassa di effetto equivalente, altrimenti tributo interno discriminatorio (Capolongo, causa 77/72, sentenza 19 giugno 1973).
Ma quand’è che vi è discriminazione?
Ha chiarito la Corte di Giustizia, va definita tale un’imposizione che abbia l’effetto di “scoraggiare l’importazione di merci originarie di altri Stati membri a vantaggio dei prodotti nazionali” (Bergandi, causa 252/86, sentenza 3 marzo 88); pertanto la discriminazione può riconnettersi all’imponibile, all’aliquota, ma anche essere connessa alla commercializzazione, ai criteri o alle modalità di esazione, alle eventuali agevolazioni. Val la pena ricordare il caso di una tassazione progressiva sulle automobili che prevedeva un’aliquota molto elevata per vetture con un livello di potenza fiscale alto che, di fatto, veniva applicata solo su prodotti importati in quanto il mercato nazionale era limitato ad autovetture con cilindrate inferiori (Humboldt, causa 112/84, sentenza 9 maggio 1985).
La discriminazione deve avvenire a danno di prodotti similari, ovvero che per il consumatore hanno proprietà analoghe e rispondono alle stesse esigenze (Rewe, causa 45/75, sentenza 17 febbraio 1976), ma anche concorrenti, ovvero ritenuti dal consumatore un’alternativa: è il caso del vino leggero e di basso costo e della birra (Commissione/Regno Unito, causa 170/78, sentenza 12 luglio 1983). Questa estensione è dovuta al secondo comma dell’art. 95 e finisce per chiudere completamente il sistema, eliminando il pericolo di possibili scappatoie.
Le restrizioni quantitative agli scambi e le misure di effetto equivalente.
A differenza di quanto detto sinora le disposizioni di cui agli artt. 30 e 34 del trattato non fanno riferimento a disposizioni di tipo fiscale ma a qualsiasi altra norma che comunque limiti la libera circolazione delle merci.
Nessun problema di particolare rilievo ha dato il concetto di restrizione quantitativa; sono i cd. contingentamenti, ovvero limitazioni quantitative di prodotti in entrata o in uscita dallo Stato che, inevitabilmente, incidono sulla domanda globale e quindi sulla ripartizione di fette di mercato.
Estremamente complessa, invece, è stata l’individuazione del corretto contenuto della categoria di “misura di effetto equivalente”, ovvero di tutte quelle disposizioni che di fatto limitano la libera circolazione sebbene la ratio sottostante non miri a realizzare finalità di tipo protezionistico.
Un primo orientamento interpretativo delle Istituzioni è stato tale da ricomprendere solo le misure cd. distintamente applicabili, ossia connesse ad una differenza di trattamento, successivamente la Commissione con la direttiva 70/50 del 22 dicembre 1969 ha esteso l’ambito anche a quelle indistintamente applicabili, relative, cioè, alla commercializzazione che, seppur applicabili a tutti i prodotti, danno luogo ad effetti restrittivi della libera circolazione.
Ma, senza alcun dubbio, ruolo primario nella definizione di misure di effetto equivalente è spettato alla giurisprudenza della Corte che negli anni con pronunce a dir poco storiche ha vivificato il diritto comunitario in materia fungendo, spesso, da impulso per le altre Istituzioni.
Primariamente ha chiarito che rientrano nella categoria non solo le leggi o un qualsiasi atto amministrativo ma anche una prassi burocratica generalizzata (De Peijer, causa 104/75, sentenza 20 maggio 1976), un orientamento giurisprudenziale (Diensten, causa 6/81, sentenza 2 marzo 1982). Ma vi rientrano anche misure non statali quali quelle poste in essere da un’organizzazione professionale (Royal Pharmaceutical Society, cause riunite 266, 267/87, sentenza 18 maggio 1989), la prassi di un ente locale (Commissione/Irlanda, causa 45/87, sentenza 22 settembre 1988,) o di un organismo privato finanziato dallo Stato (Commissione/Irlanda, causa 249/81, sentenza 24 novembre 1982).
Ma quella che, a tutt’oggi, continua ad essere considerata la vera definizione di misura di effetto equivalente è quella contenuta nella sentenza Dassonville (tanto da essere stata coniata la dicitura “formula Dassonville”) in cui la Corte del Lussemburgo ha chiarito che: “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative” (Dassonville, causa 8/74, 11 luglio 1974).
Va sottolineato il carattere di potenzialità da cui deriva che l’indagine sull’efficacia restrittiva vada completamente sottratta da un giudizio di effettività; ben può darsi che non si sia prodotta alcuna restrizione o sia di lieve entità (per cui è escluso anche un giudizio de minimis).
Come detto innanzi, una misura di effetto equivalente vanno ripartite in distintamente ed indistintamente applicabili. Tra quelle della prima categoria vanno ricordati:
I controlli, ad esempio sanitari, operati al momento e in occasione dell’importazione (potrebbero, però, essere ammessi se rientranti in una delle ipotesi di deroga di cui all’art. 36);
Le misure che impongono una documentazione specifica per l’importazione o l’esportazione (Commissione/Francia, causa 68/76, sentenza 16 marzo 1977);
L’importazione di una cauzione o di una garanzia bancaria per le importazioni da pesi comunitari quando i pagamenti sono anticipati (Orlandi, cause riunite 206, 207, 209,210/80, sentenza 9 giugno 1982);
Ritardi frequenti e rilevanti nell’espletamento di procedimenti amministrativi (Commissione/Francia, causa 188/84, sentenza 28 gennaio 1986);
Pratiche volte ad ostacolare le cd. importazioni parallele, ovvero indirizzate in canali diversi da quelli connessi ad importatori (cd.) ufficiali (Commissione/Italia, causa 154/85, sentenza 17 giugno 1987).
Tra quelle delle seconda categoria, invece, vanno ricordati:
Le misure sulla disciplina dei prezzi, tali che fissino un minimo (Van Tiggele, causa 82/77, sentenza 24 gennaio 1978) o un massimo (Tasca, causa 65/75, sentenza 26 febbraio 1976) che, corrispondentemente, non permette all’impresa di sfruttare costi inferiori di produzione o sopportare quelli maggiori connessi all’importazione;
Misure sulla qualità e la presentazione del prodotto. A riguardo il problema che si è dovuto affrontare era legato essenzialmente ad una domanda: se uno Stato membro fissa delle norme per garantire determinati standards qualitativi di un prodotto ed eguali standards non esistono in un altro Stato membro, l’impresa produttrice appartenente a tale ultimo Stato, pur non rispettandoli (perchè non obbligata dalla propria legislazione) può commercializzare nello Stato con livelli qualitativi più alti?
E’ chiaro come alla base delle misure in questione non vi è minimamente un’intenzione protezionistica dell’economia nazionale quanto, piuttosto, un’esigenza di tutela, in senso ampio, del consumatore, in modo tale, cioè, che non si trovi a fruire di un prodotto scadente.
La soluzione definitiva non può che risiedere in una uniformizzazione, o quanto meno armonizzazione, dei livelli qualitativi in tutti i paese appartenenti all’Unione tale da evitare attriti. Ed infatti la Commissione ha freneticamente cercato di armonizzare le diverse legislazioni incontrando, però, enormi difficoltà, sia per la mole impressionante di lavoro, sia per la difficoltà di trovare un punto di incontro tra tutti gli Stati, portatori, spesso, di esigenza di consumatori con abitudini molto diverse tra loro.
La questione ha subìto una notevole sterzata con la sentenza passata alla storia come “Cassis de Dijon” (Rewe Zentrale, causa 120/78, sentenza 20 febbraio 1979) dove la Corte ha sancito il principio del mutuo riconoscimento in materia economica ovvero che, in assenza di una disciplina uniforme o armonizzata a livello comunitario, tutte le disposizioni nazionali devono ritenersi ugualmente rispettose della salute e delle esigenze del consumatore per cui va applicata esclusivamente la legislazione del paese di appartenenza e sono tollerati i cd. ostacoli tecnici solo per il soddisfacimento di esigenze imperative connesse all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, alla concorrenza nell’attività commerciale, alla difesa dei consumatori.
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