Previsto dal secondo libro del Codice Penale, all’interno del Titolo V “Dei delitti contro l’ordine pubblico”, il reato di “Istigazione a delinquere” punisce:
“Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione:
1) con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti;
2) con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni.
Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita nel numero 1.
Alla pena stabilita nel numero 1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti”.
La norma qui riferita, per alcuni giorni, è divenuta oggetto, oltre che delle consuete elucubrazioni degli scienziati del diritto e delle tipiche applicazioni giurisprudenziali, anche degli organi di informazione radiofonici, televisivi, cartacei e multimediali.
“Apologia della Pedofilia”: così hanno tuonato i mezzi di informazione.
Ma cosa vuol dire “apologia”? Qual è la condotta punibile? Quale, invece, quella non punibile perché ritenuta lecita visti i confini di libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost.? E’ certo che l’apologia è “il terreno incolto” al di là della libera manifestazione del pensiero?
Questo approfondimento tenterà di dare risposta ai quesiti appena esposti.
Letteralmente “apologia” è il discorso o l’esaltazione che taluno fa di una dottrina rifiutata dalla maggioranza. Essa deve distinguersi, però, sia dalla istigazione, sia dalla propaganda. Infatti, mentre quest’ultima è l’azione volta a conquistare l’adesione di un pubblico sempre maggiore verso la tutela di un interesse che (almeno tendenzialmente) è lecito, l’istigazione è la condotta di colui il quale induce o persuade taluno (per di più con modalità subdole) ad azioni riprovevoli o punite dalla legge.
Se è netta la distinzione tra le condotte apologetiche e quelle di istigazione, più ardua, invece, risulta la distinzione tra l’apologia, la propaganda e, soprattutto, il proselitismo. Mentre quest’ultime, infatti, si caratterizzano perché seguono cronologicamente eventuali fatti di apologia e, soprattutto, perché possono avere ad oggetto anche la diffusione di atti comunemente considerati leciti; l’apologia, invece, si caratterizza per l’estremo tentativo di diffondere nuove ideologie ritenute diffusamente illecite o contrarie all’ordinamento giuridico instaurato (così da essere, potenzialmente capace e intrinsecamente finalizzata – se ripetuta, divulgata e non adeguatamente repressa – a mutare la concezione sociale dei fatti sostenuti).
Dal punto di vista giuridico, invece, l’apologia di reato può definirsi come quel delitto, genericamente previsto dall’ultimo comma dell’art. 414 c.p. che punisce colui il quale pubblicamente esalta e/o manifesta la correttezza e la giustificabilità di atti ritenuti illeciti dall’ordinamento giuridico.
Se volessimo rimanere (esageratamente) legati allo stretto dettato normativo dell’ultimo comma dell’art. 414 c.p. – tralasciando, al momento, i principi generali e la sovraordinata Carta Costituzionale – potremmo spingerci ad affermare che il legislatore (nella parte in cui afferma “chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti”) punisce la “mera” condotta di colui il quale manifesta ed esalta pubblicamente la correttezza di atti ritenuti illeciti. Ciò significherebbe che il solo affermare – o non riconoscere – la validità di talune scelte legislative potrebbe rilevare penalmente quale apologia del delitto (criticato)[1].
Logicamente la norma di cui si tratta deve essere analizzata (ed applicata) osservando i principi costituzionali e i principi generali dell’ordinamento giuridico. Per quanto riguarda questi ultimi, un sistema penale orientato alla tutela dei beni giuridici può ritenere costituzionalmente lecita una norma solo se essa, oggettivamente, è idonea ad evitare la lesione o la messa in pericolo di un bene. La norma di cui si tratta, quindi, non può punire la mera manifestazione del pensiero contraria a talune scelte di politica criminale effettuate dal legislatore, ma solo quelle condotte che siano intrinsecamente (o potenzialmente) idonee a provocare la commissione di delitti della stessa specie di quelli apologizzati. La manifestazione del pensiero, quindi, deve essere tale da “indottrinare” e da “persuadere” terzi – agevolandone psicologicamente, anche, la commissione – della correttezza, validità e liceità (ingiustificatamente o erroneamente non riconosciuta dall’ordinamento giuridico vigente) dei comportamenti.
Inevitabile, però, così, lo scontro tra la “libera manifestazione del pensiero” (costituzionalmente tutelata) da considerarsi lecita e quella, invece, illecita[2]. Se, infatti, avallassimo la lettura (esageratamente) restrittiva del dettato dell’ultimo comma dell’art. 414 c.p., giungeremmo ad affermare l’equivalenza “apologia = libera manifestazione del pensiero”. Affermando ciò, però, qualunque condotta apologetica sarebbe costituzionalmente scriminata dal dettato dell’art. 21 Cost.. Da ciò possiamo già dedurre che l’apologia è qualcosa di ulteriore e diverso dalla mera manifestazione del pensiero[3].
Ad una analisi della sola Carta Costituzionale troveremmo, che la manifestazione del pensiero illecita è solo quella che viola il c.d. “buon costume”. Indipendentemente dalle svariate definizioni che, nel tempo, sono state date al “buon costume”, appare banale – al fine di ritenere riprovevole e, quindi, penalmente punibile, la condotta di “apologia della pedofilia” – fondare la penale rilevanza di essa sul solo limite costituzionale appena riferito[4].
Una ricerca scientifica meritevole di tale attributo, ad avviso di chi scrive, impone ulteriori approfondimenti.
Ciò che “giornalisticamente” è stata definita “apologia della pedofilia” è giuridicamente riconducibile al dettato normativo dell’ultimo comma dell’art. 414 c.p. (apologia di reato) e degli articoli 600ter c.p. (pornografia minorile) o art. 609bis c.p. (violenza sessuale) e seguenti (in particolare il delitto di atti sessuali con minorenne previsto dall’art. 609quater c.p.).
L’art. 6ooter c.p. punisce le condotte di realizzazione, distribuzione o divulgazione, anche per via telematica, di materiale pornografico minorile. La norma è utilizzata dagli investigatori e dall’autorità giudiziaria per reprimere quelle condotte di “pedofilia” che vengono divulgate o distribuite sul web (fotografie, filmati, etc…).
L’art. 609bis c.p., invece, punisce “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a commettere o subire atti sessuali”. Gli atti sessuali, purtroppo, possono essere commessi anche in danno di minori. La legge – attraverso le due norme dell’art. 609bis c.p. e 609quater c.p. – distingue se essi sono commessi con violenza o con il consenso del minore (che abbia già raggiunto una determinata età e che non sia legato da particolari vincoli con il soggetto con cui si compiono gli atti).
Dal combinato disposto dell’art. 414 c.p. con l’art. 600ter c.p. o 609bis e ss. c.p., l’apologista può manifestare la liceità o della divulgazione o della diffusione o, ancora, della distribuzione di materiale pornografico minorile (anche per via telematica) oppure la liceità della consumazione di atti sessuali con soggetti minorenni.
L’apologizzare tali condotte è reato o libera manifestazione del pensiero?
Opinando a contraris, già Cass. Pen. 18 Marzo 1983 ebbe modo di affermare che “la libertà di manifestazione del pensiero non può ritenersi assoluta, ma deve trovare limiti nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nella esigenza di prevenire o far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema (fattispecie in tema di istigazione per delinquere e apologia di reato)”.
Tra gli “altri beni di rilievo costituzionale” vi è certamente quello della protezione della infanzia, previsto dall’art. 31 secondo comma Cost. (in cui, espressamente, si afferma che la Repubblica: “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”).
A dire il vero, a parere di chi scrive, l’analisi delle condotte apologetiche che possono considerarsi penalmente rilevanti può compiersi senza dover chiamare in causa il principio della libera manifestazione del pensiero. Questa operazione, infatti, è generalmente compiuta al solo fine di individuare i confini della libertà di pensiero così, una volta individuati questi ultimi, si può “catalogare” tra il “lecito” (o l’illecito) la condotta apologetica oggetto di disquisizione.
Ad un’analisi più approfondita, invece, si può scorgere che la condotta (penalmente rilevante) di apologia non si arena alla manifestazione di un pensiero più o meno turpe (o più o meno condiviso), ma si spinge a “suggestionare” (senza, però, giungere “all’istigazione”) o a persuadere terzi della errata illiceità, ritenuta dall’ordinamento giuridico vigente, di una condotta che può e che deve, invece, considerarsi lecita e, quindi, di cui si “stimola” (agevolandola psicologicamente) la commissione[5].
Ad ulteriore avallo di quanto appena affermato è possibile indicare (oltre al citato pronunciamento della Corte di Cassazione) anche quanto riferito dal medesimo ente giudicate appena due anni prima (Cass. Pen. 10 Marzo 1981). In essa si legge che: “Per la sussistenza del reato di apologia di delitto non basta che l’agente si sia limitato ad esprimere un’opinione positiva o favorevole su un delitto o su chi lo ha commesso, ma si richiede una condotta consistente nella lode e nell’esaltazione suggestiva, fatte cioè con espressioni e modalità tali da renderle idonee alla propaganda”.
Sembra, così, sufficientemente provato che la condotta apologetica è qualcosa di diverso e più avanzato della manifestazione del pensiero. Essa fa uso della manifestazione del pensiero al fine di lodare ed esaltare in modo suggestivo atti (comunemente ritenuti illeciti) così da persuadere i terzi a commetterli. Come ha affermato la Corte di Cassazione del 1983 l’apologia è penalmente rilevante quando ha “un contenuto immediatamente offensivo per il bene tutelato, in quanto solo il requisito di una concreta offensività per tale interesse riesce a superare e neutralizzare le garanzie poste dal sistema costituzionale a tutela della liberà di manifestazione del pensiero e della critica”. Come dire, ancora una volta, è apologetico ciò che offende o mette in pericolo un bene giuridicamente tutelato da altra norma dell’ordinamento giuridico.
Si può affermare, quindi, che la condotta apologetica è l’inverso (e orientata verso l’illiceità) della consuetudine quale fonte del diritto[6]. Se nessuno, però, per quest’ultima adduce limiti traendoli dai “confini” della libera manifestazione del pensiero, stranamente ciò accade in tema di apologia. In questa visione, però, nel contempo, si trova una delle giustificazioni fondamentali che danno cittadinanza giuridica all’istituto dell’apologia: il legislatore, reprimendola, intende evitare che la costante e ripetuta persuasione e stimolazione a considerare lecito ciò che in realtà non lo è, possa inficiare e rendere concretamente inapplicabile la condotta illecita ingiustamente apologizzata.
La illiceità di affermazioni apologetiche inerenti la c.d. “pedofilia” (sia quale condotta di violenza sessuale nei confronti di minori, ex art. 609bis e ss. c.p., sia come divulgazione per via telematica di materiale pornografico minorile ex art. 600ter c.p.) è ulteriormente suffragata da altri indici normativi[7].
La legge 269/98, introdotta al fine di reprimere “nuove forme di riduzione in schiavitù” (e fra esse, la c.d. “pedofilia”), afferma all’art. 1 che “costituisce obiettivo primario perseguito dall’Italia” (…) “la tutela dei fanciulli contro ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale a salvaguardia del loro sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale”.
Da ciò è semplice dedurre che un ordinamento giuridico coerente non può perseguire come “obiettivo primario” la tutela dei fanciulli consentendo, nel contempo – magari sotto la falsa giustificazione della libera manifestazione di pensiero – condotte che esaltano e giustificano la correttezza giuridica e scientifica di atti di violenza sessuale nei confronti di minori.
A ciò deve aggiungersi che in Parlamento tempo fa giaceva un Disegno di Legge (S1342) che prevedeva l’introduzione nel codice penale dell’art. 529bis c.p. intitolato “Apologia di Reato”. Il disegno di legge prevedeva che “chiunque, anche con il mezzo telematico, induce altri a ritenere leciti i rapporti sessuali con minorenni, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa non inferiore a 3.000 euro”.
La condotta apologetica tipica e normativamente prevista deve indurre, quindi, l’operatore giuridico ad osservare la sussistenza dei requisiti tipizzati – ricavabili anche dai principi generali dell’ordinamento – nella condotta concretamente tenuta dal soggetto agente. Ove questi sussistano, allora l’azione sarà meritevole della risposta sanzionatoria prevista dall’ordinamento giuridico. Non sussistono, quindi, confini (leciti o illeciti) delle condotte apologetiche diversi da quelli ricavabili dall’art. 414 c.p. e dagli altri principi generali dell’ordinamento giuridico[8]. Così opinando il reato previsto dal codice penale può solo essere (o non essere) consumato dal soggetto agente[9]. Il principio di libera manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 Cost. – sorto quale massima garanzia costituzionale da eventuali “imbavagliamenti” sociali e/o politici – così, non può trovare applicazione in condotte che si caratterizzano per qualcosa di ulteriore e diverso.
Dott. Francesco Marcellino
fmarcellino@videobank.it
Note:
[1] Questa “lettura” è stata correttamente respinta dalla stessa Corte Costituzionale nella nota sentenza N° 70/65.
[2] La “libertà” della manifestazione del pensiero non può considerarsi “assoluta”. Ciò è evidente se si pensa che l’ordinamento giuridico sebbene consenta genericamente di manifestare il proprio pensiero in modo “libero”, non permetta, nel contempo, che esso superi taluni limiti o violi altri beni giuridicamente tutelati. Si pensi, ad esempio, ai reati di calunnia, ingiuria e diffamazione.
[3] E che, semmai, fa semplicemente uso di esso per “manifestarsi all’esterno”.
[4] E’ già stato riferito, però, che sussistono manifestazioni del pensiero che, seppur non lesive del c.d. “buon costume” non sono comunque considerate lecite dall’ordinamento giuridico.
[5] Si veda, in questo senso, Cass. Pen. 18 Marzo 1983
[6] Agli operatori del diritto è noto che la consuetudine è il comportamento costantemente ed uniformemente tenuto per un certo periodo di tempo dai consociati con la convinzione, da parte di essi, che si tratti di un comportamento giuridicamente doveroso. Essa, diffusa nella pubblica amministrazione ed identificata con il termine di “prassi amministrativa”, non è di certo soggetta all’analisi dei “confini” della libertà di manifestazione del pensiero allorquando viene addotta o motivata in modo errato o eccessivamente “fantasioso”.
[7] Oltre al già citato art. 31 Cost., e dal combinato disposto dell’art. 414 c.p. con gli articoli 600ter c.p. e 609bis e ss. c.p.
[8] D’altra parte, non si comprenderebbe perché nei casi di ingiuria o diffamazione non si cercano nuovi e diversi “confini” atti a “giustificare” la libera manifestazione del pensiero espressa dal soggetto agente e ciò, invece, deve essere compiuto nei casi di apologia.
[9] E non “scriminato” o “consentito” da altre norme dell’ordinamento giuridico.
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