a) La riforma penitenziaria del 1998.
L’originale figura di custodia domiciliare prevista dal comma decimo dell’art. 656 del codice processuale penale venne introdotta nell’ordinamento in seguito alla profonda riforma dell’esecuzione penale e penitenziaria realizzata – dopo una travagliata gestazione parlamentare – con la promulgazione della legge 27 maggio 1998 n. 165, meglio nota come “legge Simeone”.
Proprio la “Simeone” (art.1) riformulò infatti il vecchio art. 656 c.p.p. inserendo nel corpo della norma presistente ben cinque nuovi commi, tra cui, appunto, il comma decimo che – nella versione originaria – recitava: “Nella situazione considerata dal comma 5, se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al tribunale di sorveglianza perché provveda, senza formalità, all’eventuale applicazione della misura della detenzione domiciliare. Fino alla decisone del tribunale di sorveglianza, il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerato pena espiata a tutti gli effetti. Agli adempimenti previsti dall’art. 47 ter della legge 26 luglio 1975, n.354, e successive modificazioni, provvede in ogni caso il magistrato di sorveglianza”.
In seguito, la norma ha subito un ulteriore lifting per effetto del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n.4. , il cui testo coordinato modifica l’art. 656 comma 10 c.p.p. sostituendo le parole “senza formalità all’eventuale applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare” con le parole “ alla eventuale applicazione di una delle misure alternative di cui al comma 5”.
La nuova figura mirava, nelle intenzioni del legislatore, ad evitare soluzioni di continuità nella situazione detentiva di una statisticamente vasta categoria di condannati raggiunti dalla definitività della sentenza di condanna mentre si trovano agli arresti domiciliari, e per ciò solo apoditticamente ritenuti ex lege di minore pericolosità sociale e meritevoli dunque di attendere la decisione definitiva del Tribunale di Sorveglianza in ordine alla concreta modalità di esecuzione della pena loro irrogata permanendo nell’abitazione ed evitando così il contatto anche temporaneo con il carcere.
In altri termini, la ratio era quella di evitare le c.d. “ detenzioni inopportune” (perché disposte nei confronti di soggetti probabilmente destinati all’espiazione della condanna in regime esterno al carcere) in rapporto a quei casi che – sia pure nella sede della cautela – erano già stati valutati sotto il profilo della pericolosità sociale in termini di compatibilità con la permanenza domiciliare.
Come accennato, il testo originario sacrificava alla pressante necessità di “decarcerizzare” un numero rilevante di esecuzioni penali e penitenziarie fondamentali principi tutelati anche a livello costituzionale, quali la garanzia defensionale del pieno contraddittorio in fase di applicazione della detenzione domiciliare.
Incideva inoltre profondamente sull’ordinario meccanismo di accesso alle misure alternative alla detenzione, imperniato (non senza motivo) sull’impulso di parte e non già su un procedimento integralmente officioso quale prefigurato dalla norma dell’art. 656 comma 10 c.p.p. introdotto dalla “Simeone”.
A tali rilevanti carenze pose in parte rimedio dapprima la stessa magistratura di sorveglianza, adottando largamente – sia pure con prassi extra legem – la procedura in contraddittorio ai sensi dell’art. 678 c.p.p. anche per le ipotesi previste dalla norma in commento, e successivamente ( e tardivamente) lo stesso legislatore, con le modifiche introdotte dalla L. 4/2001 citata, che ha ripristinato anche per legge quantomeno le garanzie costituzionali della difesa e del pieno contraddittorio.
Ai fini che qui interessano va però notato che il finalismo decarcerizzante pare non soltanto preservato ma addirittura ampliato in seguito all’entrata in vigore della L. 4/2001, laddove “libera le mani “ al tribunale di sorveglianza ampliando la portata delle misure alternative concedibili in sede di giudizio di sorveglianza introdotto ai sensi dell’art. 656 comma 10 c.p.p. dalla mera detenzione domiciliare alla panoplia delle misure indicate al comma 5 della norma citata.
La cornice in cui nasce e si sviluppa – attraverso la successiva legislazione – il particolare modello di custodia domiciliare previsto dalla “Simeone” è dunque quello di una politica penitenziaria volta ad obiettivi di deflazione della popolazione detenuta, che prefigura l’opzione detentiva quale ipotesi tendenzialmente residuale per privilegiare misure alternative di espiazione della pena, in particolare nella forma della detenzione domiciliare.
Di una politica penitenziaria, peraltro, che pare aver abbandonato ogni ideale di tipo rieducativo per indirizzarsi verso più limitati e pressanti intenti di riduzione della pressione carceraria e di non desocializzazione dei soggetti condannati a causa della permanenza in carcere.
A conclusioni non dissimili era del resto giunto anche chi,[1] all’indomani della “Simeone”, aveva stigmatizzato la distonia della nuova disciplina – tutta imperniata su procedimenti officiosi e quasi automatici – rispetto alle esigenze di collaborazione e responsabilizzazione del condannato all’ interno del procedimento di sorveglianza, rispondenti a quella logica rieducativa che oggi pare del tutto pretermessa dall’orizzonte legislativo.
L’esatta percezione del clima in cui vide la luce la riforma introdotta dalla l. 165/98 e le finalità che con essa il legislatore intendeva perseguire risultano di fondamentale importanza per dare una soluzione plausibile al problema della natura giuridica dell’ originale istituto della custodia domiciliare previsto dall’art. 656 comma 10 del c.p.p. .
b) Natura giuridica della custodia domiciliare .
Il riferimento alla ratio di deflazione della pressione carceraria e della tendenziale decarcerizzazione delle esecuzioni penitenziarie nei casi previsti dall’art. 656 comma 10 c.p.p. possono costituire dunque un’importante guideline nell’interpretare e, soprattutto, applicare una normativa che, come si esprimeva un autorevole commentatore apre “numerosi fronti problematici senza fornire gli indici necessari per la loro soluzione” (PRESUTTI).
In proposito, una prima, delicata, questione che si pone all’interprete concerne la natura giuridica dell’istituto ( della “situazione”) contemplata dalla disposizione dell’art. 656 comma 10 c.p..p .
Sul punto il legislatore della “Simeone” è stato particolarmente sfuggente, poiché si limita, genericamente, a parlare di “stato detentivo” nel quale il condannato si trova nel momento in cui è raggiunto dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna mentre si trova ristretto in regime di arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna stessa.
Non molto davvero per tentare un inquadramento nel sistema dell’esecuzione penale e penitenziaria di questo singolare istituto, che quanti si sono occupati della questione hanno spesso – perplessi – come “custodia domestica”, dando, per così dire, un colpo al cerchio e uno alla botte.
A riprova dell’estrema incertezza che regna fra gli interpreti in ordine al problema sta il fatto che, nel corso di questi primi anni di vita nel nostro ordinamento, sulla natura giuridica della fattispecie in esame si sono formate almeno cinque diverse ipotesi.
La prima, che potrebbe definirsi “minimalista” ritiene che la norma dell’art. 656 comma 10 c.p.p altro non sia che una mera “autorizzazione” del legislatore alla protrazione di una situazione detentiva, in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza in ordine all’applicazione eventuale della detenzione domiciliare, senza soluzione di continuità rispetto alla misura cautelare degli arresti domiciliari[2].
Tale impostazione risente tuttavia del tempo in cui vene formulata, poiché l’evoluzione normativa successiva alla “Simeone” (L. 4/2001, cit.), con l’ampliamento del novero delle misure alternative concedibili da parte del Tribunale di Sorveglianza, ha scardinato l’originaria sequenza procedimentale che vedeva il condannato progredire armonicamente da uno status cautelare (imputato agli arresti domiciliari) all’altro (detenuto domiciliare) attraverso il “ponte” dell’autorizzazione alla permanenza provvisoria nel regime di custodia domestica.
Come si è visto, la decisione del Tribunale di Sorvegliazna oggi può essere – e presumibilmente sarà – molto diversa rispetto alla mera ratifica dello status quo. Inoltre, la tesi “minimalista” pare non tenere conto dell’erroneità della presunzione di continuità tra arresti domiciliari e detenzione domiciliare, tenuto conto della disomogeneità della natura, dei presupposti e finaslità delle due figure: misura cautelare coercitiva l’una; misura alternativa alla detenzione, a carattere espiativo e rieducativo, l’altra[3].
Infine, non parrebbe ipotizzabile che il legislatore abbia inteso stabilire, con la locuazione “stato detentivo” una equiparazione meramente fattuale – sotto cioè il profilo delle concrete modalità di esecuzione – tra arresti domiciiari e detenzione domiciliare, e ritenendo perciostesso di garantire, attraverso la propria “autorizzazione”, un passaggio dall’una altra situazione senza soluzioni di continuità.
Invero, anche a tale livello le due misure divergono profondamente l’una dall’altra, di tal che pare problematico ipotizzare una sorta di continuità dell’una nel seno dell’altra: mentre infatti all’imputatoin regime cdi arresti domiciliari é applicabile l’art. 284 c.p.p., che prevede tasssative ipotesi di deroghe alle limitazioni alla libertà personale di movimento e comunicazione del soggetto ristretto; al condannato sottoposto alla detenzione domiciliare è applicabile l’ordinamento penitenziario, con la conseguente pacifica facoltà per il Magistrato di Sorveglianza di modificare e connotare le prescrizioni dettate dal Tribunale di Sorveglianza in rapporto alle esigenze rieducative e risocializzanti espresse dal detenuto.
Su tale linea si pone del resto la giurisprudenza della Cassazione, laddove stabilisce che anche la misura della detenzione domiciliare risponde alle finalità rieducative della pena.[4]
Deve infine osservarsi come risulterebbe problematico sostenere l’applicabilità di strumenti cautelari, quali la sospensione o la revoca della misura ai sensi dell’art. 51 ter O.P. (ammessa dalla prevalente giurisprudenza della magistratura di sorveglianza), a fattispecie ritenuta appartenente al genus delle misure cautelari: ciò infatti varrebbe a introdurre il principio della modificabilità da parte del giudice della pena (magistrato e tribunale di sorveglianza) di provvedimenti e prescrizioni adottati da altra autorità giudiziaria, in diversa sede e – come rilevato – con finalità affatto diverse da quelle proprie dell’esecuzione penitenziaria.
Una seconda ricostruzione, che presenta elementi di affinità con la precedente, assegna alla situazione disciplinata dall’art. 656 comma 10 c.p.p. natura di arresti domiciliari prorogati ex lege, la cui gestione è affidata al Magistrato di Sorveglianza in attesa della pronuncia del Tribunale di Sorveglianza, competente in ordine alla decisione definitiva sul percorso penitenziario del condannato.
La tesi confligge tuttavia con il rilievo – che pare difficilmente superabile – che la misura degli arresti domiciliari è una forma di custodia cautelare e non può dunque costituire modalità di esecuzione della pena detentiva . Tale obiezione tiene conto dell’orientamento assolutamente pacifico della Suprema Corte, che individua nel passaggio in giudicato della sentenza di condanna il momento dell’interversione automatica della misura cautelare in espiazione della pena a titolo definitivo.[5]
Appare, peraltro, di difficile da sostenibilità sul piano ermeneutico che le generiche espressioni utilizzate dal legislatore dell’ art. 656 comma 10 c.p.p. in esame abbiano voluto derogare al fondamentale principio sopra richiamato, attribuendo – oltretutto – ad autorità giudiziaria diversa da quella naturale dell’art. 279 c.p.p. i poteri di gestione, modifica e revoca della misura cautelare stessa.
Un terzo orientamento prende atto che la situazione descritta dall’art. 656 comma 10 c.p.p. rappresenta “una sorta di stato anodino, una specie di limbo tra il processo e la pena… non più arresti domiciliari, essendo concluso il processo di cognizione ed essendo affidata la gestione esecutiva al Magistrato di Sorveglianza, né ancora detenzione domiciliare, non essendo in tal caso prevista un’applicazione provvisoria di tale misura alternativa”.[6]
Una quarta tesi è seguita da quanti assegnano alla fattispecie disciplinata dalla norma in esame natura di sanzione sostitutiva, in contrapposizione dialettica con lo stato detentivo ordinario ma distinta anche dalle misure alternative alla detenzione.
A questa ipotesi si oppone tuttavia il rilievo che le sanzioni sostitutive, per loro natura, sono disposte dal giudice della cognizione in relazione a precise condizioni soggettive ed oggettive del caso concreto, dovendo essere nella pronuncia giudiziale chiaramente specificata ed individuabile tanto la pena sostituita quanto la pena sostitutiva (semidetenzione, libertà controllata o pena pecuniaria)[7].
Nella previsione dell’art. 656 comma 10 c.p.p. mancano invece tutti i presupposti e le condizioni sopra evidenziate, dal momento che la custodia domestica non è disposta discrezionalmente dal giudice ma è effetto automatico di legge; non è subordinata ad alcuna delle condizioni richiamate dalla L. 689/81 ma ricorre qualora si integri la ben diversa situazione prevista dalla norma in esame; non viene disposta dal giudice nel singolo caso, ma al contrario coinvolge automaticamente una serie indefinita di soggetti condannati senza la mediazione giudiziale che non sia quella, posticipata rispetto all’applicazione, del Tribunale di Sorveglianza.
Del resto, il legislatore della “Simeone” ha omesso qualsivoglia riferimento alla legge sulla depenalizzazione e alle sanzioni sostitutive disciplinate dalla L. 689/81, richiamando invece esplicitamente la normativa sull’ordinamento penitenziario attraverso il riferimento all’art 47 ter della L. 354/75 .
Su tale elemento ermeneutico si fonda la quinta ipotesii, che identifica nell’indistinta figura delineata dall’art. 656 comma 10 c.p.p. i contorni di una vera e propria misura alternativa sub specie di detenzione domiciliare.
Che si tratti di misura alternativa “è dimostrato dall’esplicito riferimento nell’ultimo alinea del co.10 dell’art. 656 agli adempimenti previsti dall’articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354… a cui provvede in ogni caso il Magistrato di Sorveglianza”.
Pertanto, “al passaggio in giudicato della sentenza, ed in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza, il soggetto entrerà automaticamente in detenzione domiciliare”.[8]
La tesi, se ha indubbiamente il pregio di ricondurre a razionalità il sistema, evitando le antinomie viste in precedenza, offre invero il fianco ad alcune obiezioni.
Anzitutto, la ratio del rimando dell’art. 656 agli adempimenti previsti dall’art. 47 ter della legge n. 354/75 pare essere quella di dettare una concreta disciplina dello “stato detentivo” in questione, e non può essere ritenuto, in assenza di una specifica indicazione del legislatore, quale introduzione (implicita oltretutto) di un nuovo tipo di detenzione domiciliare: ubi voluit lex dixit:,e infatti, lo stesso legislatroe della “Simeone”, quando ha voluto creare una nuova specie di detenzione domiciliare, si è pronunciato in termini espliciti, introducendo, a es. i commi 1 bis e 1 ter dell’art. 47 terO.P.
Sotto altro profilo, del resto, forti elementi di contraddittorietà ordinamentale si porrebbero se si accettasse la tesi suesposta, poiché la “detenzione domiciliare” ex art. 656 comma 10 c.p.p. verrebbe disposta da un giudice della cognizione (individuato ai sensi dell’art. 279 c.p.p.) e non dal giudice naturale (Magistrato e Tribunale di Sorveglianza, e perché siffatta misura avrebbe ovviamente caratteristiche eminentemente cautelari e non già rieducative ( i presupposti infatti sono dettati non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice del rito processuale) in ciò contrastando con i principi fondamentali in tema di finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.).
Vi è poi l’insuperabile dato testuale costituito dalla disciplina dell’iter procedimentale stabilita dallo stesso art. 656, laddove prevede che gli atti siano trasmessi a cura del pubblico ministero competente al Tribunale di Sorveglianza per l’applicazione di una delle misure alternative consentite, assumendo evidentemente che la situazione detentiva precedente non sia (ancora) una misura alternativa.
Nessuna delle teorie esaminate sembra ammettere che la situazione detentiva descritta dall’art. 656 sia inquadrabile quale detenzione ordinaria in espiazione a titolo definitivo. Invero, ora fanno ricorso a categorie quali l’autorizzazione o la proroga della misura cautelare degli arresti domiciliari, o richiamano istituti quali le sanzioni sostitutive oppure la detenzione domiciliare.
Tutte le riferite impostazioni si pongono però in contrasto, come si è visto, tanto con il quadro sistematico dell’ordinamento penale e penitenziario quanto, altrettanto spesso, con lo stesso dato letterale della norma.
La ricostruzione che qui di seguito si propone prende le mosse dalla considerazione che il primo elemento di certezza in ordine al complesso problema della natura giuridica della custodia domestica di cui all’art. 656 c.p.p. è costituito dal richiamo a quella giurisprudenza della Suprema Corte, sopra ricordata, che individua nel passaggio in giudicato della sentenza di condanna il momento in cui si realizza l’automatica interversione del titolo esecutivo della detenzione, che si trasforma da restrizione cautelare a espiazione della pena a titolo definitivo.
Tale passaggio dalla misura cautelare (istituto concepibile soltanto nella fase processuale di cognizione) alla pena definitiva è sancito anche formalmente dall’emissione dell’ordine di esecuzione da parte del pubblico ministero.
La stessa norma dell’art. 656 comma 10 c.p.p. sancisce – a fugare ogni residuo dubbio dell’interprete – che il tempo trascorso dal condannato in regime di custodia domiciliare “è considerato come pena espiata a tutti gli effetti” : precisazione in realtà ultronea ma forse non inutile alla luce dei dubbi interpretativi sopra sinteticamente illustrati.
E’ fondatamente sostenibile dunque che la fattispecie dell’art. 656 co.10 c.p.p. costituisce modalità di espiazione della pena a titolo definitivo nei confronti di condannato nei cui confronti la sospensione dell’ordine di carcerazione da parte del PM opera conseguentemente quale filtro rispetto alla restrizione in carcere ma non quale sospensione dell’espiazione della pena definitiva: agendo – in altri termini- sulle modalità esecutive ma non sulla sostanza dell’esecuzione stessa.
Ulteriore conseguenza del nuovo status che il soggetto condannato acquisisce con l’interversione del titolo esecutivo è rappresentato dall’incompatibilità logico-giuridica con forme anche larvate di permanenza o ultrattive di misure cautelari. Sotto altro e speculare profilo, la condizione detentiva in esame non può nemmeno considerarsi una sorta di misura alternativa ad applicazione anticipata, poiché il legislatore ha espressamente assegnato, nella stessa disposizione, dalla novella della L. 4/01, al Tribunale di Sorveglianza la competenza ad applicare al condannato una delle misure alternative previste, rendendo dunque evidente che la situazione pregressa alla decisione del tribunale della pena non possa essere (gia’) una misura alternativa : la condizione di chi si trova ristretto nel regime previsto dall’art. 656 co.10 c.p.p. è invero – come si è visto – penitenziaria ma non (ancora) alternativa alla detenzione ordinaria.
La concreta determinazione della modalità concreta di espiazione della condanna definitiva dovrà in ogni caso infatti, secondo i principi dell’esecuzione penitenziaria dai cui canoni la “Simeone” e le novelle successive non si discostano, essere determinata dal tribunale di sorveglianza quale giudice naturale competente a decidere sull’applicazione, sospensione e revoca della misure alternative alla detenzione.
Chiarito dunque – nei termini sopra esposti – la natura dello stato detentivo dell’art. 656 c.p.p., il problema si sposta sul terreno pratico, essendo necessario ricostruire i profili sostanziali del contenuto prescrittivo della custodia domestica e dei connessi poteri gestori attribuiti al magistrato di sorveglianza.
Quanto al contenuto sostanziale prescrittivo, questo sarà ovviamente determinato inizialmente dalle prescrizioni contenute nell’ordinanza con la quale il giudice del processo (art. 279 c.p..p) ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari.
Al contenuto standardizzato concernente l’usuale limitazione di alcune forme di libertà personale ( locomozione, comunicazione, etc.) potranno frequentemente aggiungersi le deroghe contemplate dall’art. 284 c.p.p concernenti la facoltà di assentarsi dal luogo di arresto per il tempo necessario a provvedere alle indispensabili esigenze di vita ovvero per prestare attività lavorativa.
Su tale corpo prescrittivo il Magistrato di Sorvegliazna ha potere-dovere di intervenire “in ogni caso” con “gli adempimenti previsti dall’art. 47 ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”.
Tale previsione normativa schiude al condannato la possibilità di invocare l’intervento del Magistrato di Sorveglianza nella pienezza dei poteri conformativi derivanti(gli)non più dagli angusti limiti circoscritti dalla norma cautelare dell’art. 284 c.p.p. ma dalle più ampie facoltà attribuite dalla normativa penitenziaria in cui l’art. 47 ter O.P. è inserito.
In altri termini, il quadro sistematico concente al Magistrato di Sorveglianza interventi specifici per conformare le prescrizioni cautelari ( che ormai non hanno più senso di per se alla luce del mutato status del condannato) a quelle esigenze non soltanto contenitive ma anche e soprattutto rieducative e risocializzanti cui l’espiazione della pena deve – per dettato costituzionale – tendere.
L’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della disposzione dell’aert. 656 co. 10 c.p.p. consente pertanto al Magistrato di Sorveglianza di adottare tutte quelle modifiche delle prescrizioni della cautela che possano esplicare una concreta efficacia risocializzante.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla possibilità di assentarsi dal luogo di detenzione domestica per contatti con le struttre di recupero sociale o terapeutico ( C.S.S.A. o Ser.T.), alle deroghe per coltivare rapporti familiari, ovvero per svolgere attività culturali o di studio.
Si tratta come è evidente di una serie di “aperture” che il Magistrato di Sorveglianza può adottare con prudente apprezzamernto discrezionale nello svolgimento degli ineludibili compiti di catalizzatrore del reinserimento sociale del condannato, propri della funzione
Tale ravvisata serie di possibilità rieducative cui il condannato nella situazione dell’art. 656 co.10 cp,p.p può attingere sono del resto le medesime previste per i detenuti a regime ordinario, che possono essere ammessi alle rammmentate attività esterne attraverso la forma dei permessi premiali . Peraltro, una dottrina autorevole ritiene concedibili i benefici di cui all’art. 30 ter O.P. anche ai detenuti domiciliari.
V’è del resto un elemento testuale che concorre a rafforzare il quadro sopra prospettato, costituito dall’espressione “in ogni caso”, utilizzata dal legislatore nell’attribuire al magistrato di sorvegliazna la competenza sugli adempimenti dell’art. 47 ter O.P. .
La citata locuzione non può essere intesa quale sovrabbondante (e dunque priva di senso) espressione tesa a rimarcare il riparto di competenze fra giudice del processo e giudice della pena già chiaramente stabilito dalla citasta disposizione: deve essere piuttosto inteso quale segnale della maggiore ampiezza dei poteri confromativi attrribuiti al secondo giudice “in ogni caso” rispetto ai limitati profili di deroga consentiti al primo dall’art. 284 c.p.p. .
Sotto altro aspetto, è dibattuta l’applicabilità alla fattispecie dell’Art. 656 co. 10 c.p.p. degli artt. 51 bis e 51 ter della L. 354/75, i quali, come è noto, attribuiscono al Magistrato di Sorveglianza il potere di emettere dei provvedimenti cautelari rispettivamente di estensione della misura alternativa in corso in rapporto alla sopravvenienza di altro titolo esecutivo ovvero di sospensione della stessa in rapporto a condotte del condannato tali da comportare la revoca della misura.
Nell’applicazione giurisprudenziale si registra una marcata tendenza ad applicare il dispiostov dell’art. 51 ter O.P. mentre viene generalmente negata la possibilità, nella fattispecie in esame, di adottare il decreto di prosecuzione provvisoria della misura in corso.
Mentre per coloro che accolgono la tesi che lo stato detentivo dell’art. 656 c.p.p. sia una misura alternativa propria la soluzione nasce ex se, nel senso di ritenere applicabile alla fattispecie l’intero ordinamento penitenziario e dunque entrambe le norme richiamate; per chi ritiene che si tratti di detenzione ordinaria la soluzione, indubbiamente più angusta ma doverosa per il rispetto del principio del favor rei, è quella di limitare l’ambito applicativo del potere sospensivo del Magistrato di Sorveglianza all’ ipotesi contenuta nell’art. 47 ter ultimo comma della L. 354/75, il solo richiamato espressamente dall’art. 656 co. 10 c.p.p. : e dunque la possibilità di ripristinare lo stato detentivo in carcere nel caso di denuncia del soggetto ai sensi dell’art. 385 c.p. , beninteso secondo una valutazione non più automatica ma discrezionale qualora concorrano i presupposti indicati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 173 / 97 .
Non pare neppure condivisibile la tesi di quanti adottano un’interpretazione estensiva dei poteri attribuiti attraverso il richiamo all’art. 47 ter O.P. al Magistrato di Sorveglianza ammettendo l’applicabilità dell’art. 51 ter della legge citata, poiché tale indirizzo ermeneutico si risolve in una non consentita interpretazione contra reum .
Il concetto di interversione del titolo esecutivo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna osta altresì all’accoglimento della tesi- pure prospettata – secondo cui, in rapporto alla violazione delle prescrizioni commesse dal soggetto in regime di custodia domestica dovrebbe far seguito non l’adozione di provvedimento ai sensi dell’art. 51 ter dell’ordinamento penitenziario, bensì la richiesta di aggravamento della misura coercitiva al giudice dell’esecuzione.
Neppure pare percorribile la strada di sostenere la sussistenza di un potere generale di revoca da parte del Magistrato di Sorveglianza, tanto per il principio della tassatività dei casi di revoca, specificamente elencati dal legislatore anche in materia penitenziaria, quanto perché anche coloro che ritengono sussistente detto potere generale ne limitano la ricorrenza in rapporto ad atti non impugnabili a contenuto discrezionale in dipendenza della sopravvenuta carenza dei presupposti di legge, fattispecie che all’evidenza non ricorre nell’ipotesi dell’art. 656 co. 10 c.p.p. .
Ancora sotto il profilo penitenziario, si discute se sia consentito, nella situazione detentiva in esame, applicare il disposto dell’art. 47 comma 4 della L. 354/ 75, che consente al magistrato di sorveglianza, in pendenza di istanza di affidamento in prova al servizio sociale proposta “dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena” di sospenderne l’esecuzione e ordinare la liberazione del condannato, qualora ricorrano i presupposti indicati dalla norma citata. Sul punto parte della dottrina è di contrario avviso, sul rilievo che la norma dell’art. 656 co. 10 c.p.p. non richiama espressamente l’art. 47 O.P..[9]
Tuttavia, se è condivisa la tesi che la situazione detentiva dell’art. 656 citato costituisce modalità di esecuzione della detenzione definitiva la soluzione deve essere invece in senso positivo, non essendovi ostacoli di sorta alla libera espansione delle norme dell’ordinamento penitenziario che regolano l’espiazione della pena definitiva anche allo stato detentivo in esame.
In ordine all’affine questione sull’applicabilità alla fattispecie di quanto dispone l’art. 47 ter comma 1 quater della L. 354/75 riformata pare a chi scrive questione più teorica che pratica, poiché sotto tale profilo la situazione concreta del soggetto è sostanzialmente identica nelle due ipotesi (cioè stato detentivo del 656 co. 10 c.p.p. e detenzione domiciliare provvisoriamente applicata ai sensi dell’art. 47 ter comma 1 quater L. 354/75), per cui non si ravvisa un concreto interesse del soggetto a formulare al Magistrato di Sorveglianza un’istanza ai sensi della norma da ultimo citata .
Con riferimento al problema dell’applicabilità del disposto dell’art. 684 comma 2 c.p.p., relativo al differimento dell’esecuzione della pena e alla liberazione del condannato in rapporto alla ricorrenza dei presupposti ivi indicati, non sembra vi siano controindicazioni ad ammetterne l’operatività se non per quanti ritengono che la situazione detentiva dell’art. 656 conservi natura di arresti domiciliari prorogati: a tale fattispecie non può essere connessa l’applicazione delle tassative ipotesi dell’art. 684 c.p.p. che prevede l’eccezionale deroga al principio di certezza dell’esecuzione della pena soltanto in rapporto “all’esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata”.
La novella della legge n. 4 del 20 gennaio 2001 ha ricondotto a compatibilità costituzionale il procedimento disciplinato dall’art 656 comma 10 c.p.p. : ratificando la prassi giurisprudenziale “garantista” creatasi contra legem, la nuova formulazione della norma citata stabilisce, eliminando l’inciso presente nella versione originaria -“senza formalità” – che la decisione in ordine all’eventuale applicazione al condannato delle misure alternative previste al comma 5 dello stesso articolo venga assunta dal tribunale in seguito a procedimento di sorveglianza, celebrato con il rito previsto dall’art. 678 c.p.p .
Tale doverosa correzione dell’originaria lettera della norma, nell’espungere dall’ordinamento un rito atipico, privo di contraddittorio e incompatibile con i più elementari principi di civiltà giuridica, ristabilisce il principio del pieno contraddittorio anche in relazione al procedimento ai sensi dell’art. 656 c.p.p.[10] .
Ulteriore innovazione è costituita dall’ampliamento del novero delle misure alternative concedibili nella citata sede: non più la sola detenzione domiciliare nelle sue varie articolazioni, ma la serie articolata di misure alternative indicate al comma 5 della norma in commento.
E’ prevedibile che tale nuova disposizione aggravi la celebrazione delle udienze avanti al Tribunale di Sorveglianza, chiamato a decidere in un’unica udienza, su una serie di istanze verosimilmente numerosa formulate da soggetti interessati a scommettere sulla massimo ventaglio di possibilità disponibili per evitare l’espiazione della pena in carcere .
Sotto l’indicato profilo, è quantomeno dubbia l’efficacia deflattiva delle innovazioni apportate agli artt. 91 e 94 del DPR n. 309/90, che sanzionano d’inammissibilità le istanze di sospensione dell’esecuzione della pena o di affidamento in casi particolari ivi previsti, se carenti della documentazione prescritta, poiché il raccordo con la disposizione processuale dell’art. 656 comma 6 c.p..p. che consente all’interessato di integrare con il deposito in cancelleria la documentazione prescritta fino a cinque giorni prima dell’udienza .
Estremamente problematico pare poi comprendere l’esatto significato della locuzione “all’eventuale applicazione di una delle misure alternative di cui al comma 5” introdotta dalla legge n. 4/01.
Potrebbe infatti ritenersi che il Tribunale di Sorveglianza sia chiamato a pronunciarsi, nei casi previsti dall’art. 656 co. 10 c.p.p. in relazione alla concedibilità di tutte e di ciascuna delle misure alternative nominatim indicate nella citata norma (vale a dire : affidamento in prova al S.S., semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova in casi particolari ovvero sospensione della pena ai sensi dell’art. 90 DPR n. 309/909).
Tale interpretazione pare tuttavia fuorviante laddove la ratrio della disposizione è quella di chiarire ciç che in dottrina e soprattutto nella prassi giurisprudenziale era problema estremamente dibattuto, e cioè che nell’alveo della speciale procedura di cui all’art. 656 co.10 è ora possibile incardinare le istanze volte all’otten8imento degli indicati benefici.
Fabio Fiorentin
Note:
[1] Cfr. MAZZAMUTO N., in Commenti, Gazzetta giuridica Giuffré Italia Oggi n. 25/98, p.5 .
[2] Cfr. PRESUTTI A., “Le misura alternative alla detenzione. Le nuove figure. I presupposti, le preclusioni e le revoche”, relazione per l’incontro di studio organizzato dal CSM in Frascati il 16-17 . 11.98.
[3] Cfr. MAZZAMUTO N., op. cit., pag. 5 .
[4] Vedasi in proposito Cass. I, 30 gennaio 1995, De Vincenzo.
[5] Cfr. ex plurimis , Cass.,III, 13 gennaio 1996, Tomagra).
[6] Cfr. MAZZAMUTO N., op cit. alla nota 1.
[7] Cfr. CANEPA M.-MERLO S., Manuale di Diritto penitenziario, Giuffré, 1996, p. 296.
[8] Cfr. DEL NEVO A., Considerazioni critiche sulla riforma delle misure alternative alla detenzione, in Documenti giustizia, 1998, n.7, p. 1252 .
[9] Cfr. DEL NEVO A., op. cit., p.1254 .
[10] Per la verità, in questo caso, i giudici di merito si sono dimostrati… più realisti del re, poiché la Corte costituzionale, investita sul punto con alcune ordinanze di rimessione, ha sostenuto la compatibilità costituzionale della procedura de plano originariamente prevista dall’art. 656 co. 10 c.p.p., ritenendola una procedura a contraddittorio differito o eventuale e dunque consentita soltanto in ipotesi di effettiva concessione della misura alternativa, dovendosi in caso contrario celebrare udienza con la procedura in contraddittorio tanto qualora il tribunale non ritenga di concedere la misura quanto nel caso il condannato non “accetti” la detenzione domiciliare applicatagli: cfr. Corte Cost., sent. 27 ottobre 1999, n. 422. In giurisprudenza, cfr. Cass. ,I, 15 aprile 1999, n. 3005, citata nella sentenza della Corte.
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