La patologia della motivazione nella giurisdizione amministrativa

Redazione 19/03/03
di Maria Vittoria Lumetti (avvocato dello stato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze)

I
PATOLOGIA DELLA MOTIVAZIONE E RIGIDITA’ FORMALE

Il presente intervento è volto ad cercare un punto di equilibrio e di contatto tra l’esigenza di garantire un provvedimento legittimo e giusto al cittadino e l’esigenza, altrettanto sentita, di valorizzare i principi di conservazione degli atti, di celerità e di efficienza della P.A.
Affrontare la tematica della motivazione e della sua patologia significa innanzitutto fare riferimento alla legge 7 agosto 241 del 1990, recante Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Gli articoli 2 e 3 introducono, infatti, novità rilevantissime nei riguardi della motivazione e della sua patologia: sanciscono l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo con un provvedimento espresso entro un determinato termine e l’obbligo generale di motivazione del provvedimento, ossia due obblighi che in precedenza erano ricavati in via interpretativa.
Ai medesimi principi si ispira l’art. 3 della legge regionale siciliana 30 aprile 1991, n. 10.
Il ruolo della motivazione risulta modificato dall’accentuazione dello stretto legame tra procedimento e provvedimento, laddove si rende necessario fornire un’adeguata rappresentazione dell’iter logico giuridico attraverso cui l’Amministrazione si è determinata ad adottare un provvedimento ([1]). La completezza dell’impianto motivatorio, dunque, coincide con la ricostruzione dell’intero iter logico giuridico che porta alla decisione.
La motivazione offre, attraverso il suo esame in sede giustiziale e giurisdizionale, l’opportunità del controllo dell’esercizio del potere discrezionale, esercitato sotto il profilo della logicità, razionalità e congruità.
Tradizionalmente, l’esigenza della motivazione nasce come strettamente legata al sindacato di legittimità dell’atto, con finalità rilevanti anche ai fini della trasparenza democratica ([2]).
La motivazione degli atti amministrativi costituisce un valido ed insostituibile strumento di verifica del rispetto dei limiti della discrezionalità posta in essere dall’Amministrazione, proprio allo scopo di attuare il precetto costituzionale di cui all’art. 113 nonché di mettere al corrente i destinatari dell’atto delle ragioni che impongono la restrizione delle rispettive sfere giuridiche o che ne impediscono l’ampliamento.
Ulteriore finalità è quella, anch’essa rilevantissima, di consentire il sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo e degli organi deputati al controllo ([3]).
Motivazione, dunque, come applicazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa, di efficienza, di economicità, nonché come garante della certezza della decisione finale ([4]).
Il rispetto di tali principi non si pone, tuttavia, in contrasto con la ricostruzione effettuata dalla recente giurisprudenza, orientata nel senso di non pretendere una visione meramente formale dell’obbligo di motivazione, coerentemente con i principi di trasparenza e lealtà desumibili dall’art. 97 della Costituzione ([5]).
E’ possibile, dunque, giungere ad un bilanciamento tra l’art. 113 e 97 della Costituzione?
Nelle recenti pronunce del Consiglio di Stato l’onere della motivazione non si considera soddisfatto dall’osservanza di uno standard fisso e immutabile, precostituito in rigide regole.
E’ il provvedimento stesso che, in un certo qual modo, determina lo schema motivazionale, variandolo necessariamente in ragione degli effetti, ampliativi o restrittivi, che é destinato a produrre nella sfera giuridica dei destinatari, anche in base all’intensità dell’interferenza degli interessi privati con l’interesse pubblico perseguito ([6]).
Non solo: è stato ritenuto legittimo un provvedimento nel quale le ragioni sottese alle scelte delle P.A., anche se non formalmente e compiutamente esplicitate nel provvedimento, possono essere agevolmente colte dalla lettura degli atti afferenti alle varie fasi in cui si articola il procedimento ([7]).
L’orientamento più recente sembra dunque finalizzato a considerare valido un provvedimento anche laddove manchi un richiamo formale ([8]).
Ecco, forse, in questo caso, nel concetto di variabilità della motivazione, possiamo intravedere il presente ed il futuro della motivazione.
Appare corretto il corollario al principio della trasparenza dell’iter motivazionale, così come prescritto e regolamentato dalla legge 241 del 2002: se l’Amministrazione ha l’obbligo di evidenziare gli atti afferenti alle fasi in cui si articola il provvedimento, è giocoforza che tale emersione risulti idonea a supportare l’eventuale mancata esplicitazione della motivazione stessa nel provvedimento conclusivo.
Il ragionamento si snoda a partire proprio dalla funzione della motivazione, che è quella di consentire la possibilità di valutare ed eventualmente contestare la ragionevolezza delle scelte dell’Amministrazione ([9]).
Senza dimenticare, peraltro, il congegno legale di cui all’art. 3 comma 3 l. 7 agosto 1990 n. 241 il quale, prevedendo la facoltà per l’Amministrazione di utilizzare la motivazione ob relationem, offre linfa vitale a tale schema ([10]).
In questi casi, dunque, la giurisprudenza riconosce la sussistenza della piena garanzia di tutela delle ragioni che l’ordinamento assicura ad ogni amministrato.
D’altronde, è anche la struttura stessa della motivazione che obbedisce ad una soluzione siffatta, consistendo essa nella enunciazione dei motivi, e quindi degli interessi coinvolti nel procedimento, e dei presupposti, ossia dei fatti permissivi o costitutivi il cui verificarsi permette l’adozione dell’atto. Alla enunciazione dei motivi la dottrina degli anni trenta diede il nome di giustificazione ([11]) e già molto tempo prima della l. 241 del 1990 si riteneva che nella motivazione convergessero elementi strutturalmente e funzionalmente diversi.
E’evidente che la motivazione, così come congegnata, intesa come collegamento imprescindibile tra decisione e istruttoria, presenta riflessi rilevanti sulla patologia della determinazione conclusiva: il provvedimento rileva la sua illegittimità allorquando la discrasia tra procedimento e provvedimento emerga inequivocabilmente e non possa essere chiarito ed interpretato sulla base delle indicazioni contenute nella parte motiva.
Si è addivenuti, dunque, ad una nozione allargata di motivazione, in cui l’obbligo della motivazione si accompagna alla indicazione del contenuto della stessa.
Si configura altrettanto corretto ravvisare un principio generale del processo amministrativo nella possibilità che il destinatario dell’atto, qualora riceva la comunicazione di un provvedimento senza l’indicazione dei motivi in base ai quali esso è stato adottato, ben possa, non solo ricorrere adducendo il solo vizio di difetto di motivazione, bensì specificare le proprie doglianze con motivi aggiunti qualora ne acquisisca successivamente la conoscenza ([12]).
E’ importante, dunque, che in un giudizio di parti, ove l’interesse legittimo non assurge a mero presupposto di legittimazione dei poteri processuali, le risultanze processuali non costituiscano unica fonte dei motivi aggiunti([13]).
Naturalmente, ciò viene posto a garanzia dell’interessato, che potrebbe incorrere nella decadenza per mancato rispetto del termine decorrente dalla conoscenza degli estremi del provvedimento e degli elementi essenziali da cui sia possibile dedurre il contenuto e la lesività: ciò non toglie che sia possibile ottenere dal giudice una pronuncia anche sul contenuto della motivazione stessa, prescindendo dall’annullamento dell’atto tout court per carenza o difetto di motivazione ([14]).
Anche in questo caso, dunque, ben venga, l’applicazione del principio di conservazione degli atti unito a quello del raggiungimento dello scopo e dell’efficienza della pubblica amministrazione, anche al fine di eliminare le ragioni reali della lite e le formalistiche pronunce che dichiarano la cessata materia del contendere ([15]).
Esemplificativa è l’esperienza francese: la legge 11 luglio 1979 n. 587 sulle decisioni amministrative (Loi relative à la motivation des actes administratifs et à l’amélioration des relation entre l’Administration et le public), all’art.1 individua solo sei tipi di decisioni che devono essere necessariamente motivate.
L’art. 3 stabilisce, inoltre, che dalla motivazione devono emergere con chiarezza le considerazioni di fatto e di diritto poste alla base della decisione amministrativa ([16]).
La giurisprudenza ha completato il quadro, non ammettendo la motivazione per relationem laddove il provvedimento cui si fa richiamo non sia allegato.

II

PATOLOGIA DELLA MOTIVAZIONE E INTEGRAZIONE SUCCESSIVA

Una delle ipotesi in cui il principio di conservazione degli atti, libero da condizionamenti meramente formali, potrebbe finalmente trovare applicazione, riguarda la possibilità di integrazione successiva della motivazione del provvedimento impugnato, qualora la motivazione sia carente, insufficiente e illogica, attraverso le argomentazioni e le produzioni difensive poste in essere dalla P.A. in sede di giudizio.
Al riguardo in dottrina non vi è orientamento unanime e la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato è oscillante.
Tuttavia, é proprio la presenza, nel nostro sistema giuridico, del principio di conservazione degli atti ed, in particolare, del criterio del raggiungimento dello scopo, che permette una notevole apertura in tal senso.
In base a tali principi, l’annullamento dell’atto formalmente viziato diventa l’estrema ratio, da utilizzarsi legittimamente solo laddove non esista la possibilità di ricostruire altrimenti l’iter logico giuridico seguito dall’amministrazione.
L’efficacia di tale soluzione si ravvisa nel fatto che verrebbe evitato il defatigante rinnovo dell’attività procedimentale che, peraltro, non si pone come soluzione soddisfacente per le ragioni sostanziali del privato ricorrente ([17]).
Soprattutto oggi le esigenze di celerità e di efficienza si pongono come presupposti imprescindibili volti ad abbattere le barriere formali che impediscono l’accertamento giudiziale della realtà.
E’ imprescindibile che il divieto per l’amministrazione di integrare nel corso del giudizio la motivazione del provvedimento impugnato, imponendo al giudice di emettere pronunce meramente formali di annullamento per difetto di motivazione, non preclude all’amministrazione di reiterare lo stesso provvedimento annullato in sede giurisdizionale con una nuova motivazione ([18]).
La motivazione successiva, così come è stata definita da autorevole dottrina ([19]), è quasi sempre stata tendenzialmente negata dalla giurisprudenza tradizionale ([20]), anche se non mancano pronunce nel senso della sua ammissibilità.
Si è tanto insistito per fornire una nuova visione volta ad offrire una modifica sostanziale dell’oggetto del processo, inteso non più giudizio sull’atto impugnato bensì come pretesa sostanziale fatta valere da parte ricorrente nel processo e, quindi, giudizio sul rapporto, che appare difficile non accettare come conseguenza, tra i vari aspetti, proprio quello di consentire l’integrazione della motivazione dopo la proposizione del giudizio([21]).
E’ infatti, venuto meno il presupposto sistematico dell’immutabilità del provvedimento impugnato così come rappresentato nell’atto che lo racchiude.
Senza parlare, poi, della già accennata visione efficientista dell’attività amministrativa, che si riflette nell’esigenza di evitare inutili sprechi dell’attività processuale nonché del successivo esercizio meramente confermativo dell’attività amministrativa.
D’altronde, se esaminiamo i vizi della motivazione, risulta ictu oculi come questi siano di natura formale ([22]).
La giurisprudenza ha in passato mostrato delle aperture in proposito soprattutto nei casi di procedimento riservato ex art. 24 l. 241 del 1990 (diritto d’accesso), consentendo all’Amministrazione di intervenire validamente anche in corso del giudizio ad integrare la motivazione del provvedimento impugnato, con conseguente eventuale cessazione della materia del contendere in ordine al dedotto vizio di difetto di motivazione ([23]).
Ulteriore apertura è stata attuata in merito alla cosiddetta motivazione plurima, che si configura qualora l’atto amministrativo si fondi su una pluralità di ragioni di per sé autonome: il provvedimento è considerato legittimo anche nel caso in cui sia esplicitata una sola di queste ragioni, idonea a sostenere l’atto intero ([24] ).
Non si tratta, peraltro, di novità recente, considerato che già da tempo parte della dottrina si era spinta verso una svalutazione della rilevanza dei vizi formali quali autonome cause di annullamento dell’atto e più in generale verso una ricostruzione in termini sostanzialistici del processo amministrativo e del suo oggetto ([25]).
Valorizzazione, dunque, della dimensione sostanzialistica dell’interesse a ricorrere, al fine di emettere pronunce destinate ad incidere sull’assetto sostanziale degli interessi e quindi capaci di condizionare il futuro operato della PA, senza limitarsi ad una mera demolizione dell’atto amministrativo contestato ([26]).
Il superamento di una visione meramente demolitoria, così come da più parti in dottrina si auspica, non può non avere come corollario la legittima possibilità di identificare l’oggetto reale del giudizio nella pretesa sostanziale del ricorrente.
In tal modo la motivazione non risulta più essere unica ed insostituibile nell’indagine del giudice, ma il principale elemento d’integrazione dell’atto, per evitare che ad una maggiore tutela processuale del privato corrisponda una minore tutela sostanziale: si attua quella che già da tempo era stata definita la dequotazione giudiziale della motivazione ([27]).

III

UTILIZZO DELLA MOTIVAZIONE SUCCESSIVA IN SEDE RISARCITORIA E DI SILENZIO RIFIUTO.

E’ interessante notare come l’istituto della motivazione successiva possa trovare utile ed inequivocabile applicazione in ordine alla risarcibilità dell’interesse legittimo e nell’ipotesi di silenzio rifiuto.
Proprio nella fase risarcitoria, l’integrazione della motivazione nel giudizio è necessaria al fine di fornire una spiegazione al diniego e dimostrare la insussistenza del danno risarcibile.
In tal modo, anche a non voler accogliere la tesi conservativa dell’atto, risulta comunque necessaria la formulazione da parte della P.A. di un giudizio ipotetico di verifica prognostico, proprio per permettere la verifica risarcitoria, senza addivenire alla configurazione di un nuovo atto amministrativo con idonea motivazione ([28]).
Ulteriore problema: se interviene nel corso del giudizio un nuovo provvedimento, supportato da congrua motivazione, volto a negare la pretesa avanzata da parte ricorrente, cosa accade?
Il ricorso verrà dichiarato improcedibile a causa del venir meno dell’interesse, salva l’esperibilità di un nuovo giudizio avverso il provvedimento di recente adozione.
Le medesime argomentazioni possono valere anche nell’ipotesi del silenzio rifiuto: la P.A avrebbe la possibilità di fornire spiegazioni del diniego del provvedimento o della mancata valutazione dell’istanza del privato ([29]).

AUTOTUTELA CAUTELARE DELL’ AMMINISTRAZIONE E MOTIVAZIONE DEL PROVVEDIMENTO.

Anche in questa materia le argomentazioni a favore di uno sganciamento progressivo da un concetto di motivazione formale sembra trovare validi argomentazioni giurisprudenziali.
L’art. 97 della Costituzione è fondamentale per quanto riguarda l’autotutela decisoria in quanto è proprio da questa norma che essa trae il fondamento e la legittimazione.
L’art. 97 sancisce il principio di legalità, di tipicità, nominatività dei provvedimenti amministrativi, anche se discrezionali, nonché la necessità che la gestione della funzione amministrativa sia improntata sulla buona fede e correttezza al fine di garantire il buon andamento delle funzioni pubbliche.
Dunque, sembrerebbe, a prima vista, che la motivazione dei provvedimenti di autotutela sia indispensabile.
Tuttavia, a fronte di un orientamento giurisprudenziale, peraltro maggioritario, che ritiene imprescindibile la necessità che vi sia sempre una puntuale e precisa motivazione ([30]), se ne è formato un altro che, invece, considera superflua che la motivazione debba specificamente e dettagliatamente esporre tutte le ragioni di interesse pubblico posta a fondamento del provvedimento, in coincidenza con comportamenti gravi del privato ( come il caso dell’esborso di emolumenti dello Stato non dovuti): in tal caso l’interesse al ritiro dell’atto è considerato in re ipsa ([31]).
Una recente sentenza del Consiglio di Stato riconosce la superfluità della motivazione in ordine all’interesse pubblico concreto ed attuale ad emettere la rimozione di un provvedimento avente ad oggetto il perdurante esborso di danaro ([32]).
D’altronde la medesima ratio viene perseguita relativamente alla motivazione di quei provvedimenti di carattere generale assimilabili a quelli normativi, come ad esempio la circolare: in questi casi la motivazione non è richiesta con le medesime caratteristiche di approfondimento che si richiedono, invece, per gli atti incidenti direttamente su singole situazioni soggettive ([33]).

V

CARENZA DI MOTIVAZIONE E MOTIVAZIONE ESPRESSA A MEZZO DI COEFFICIENTI NUMERICI

La rigidità formale sembra trovare un temperamento anche nell’ipotesi che la motivazione venga espressa a mezzo di coefficienti numerici.
Una parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato, infatti, é orientata nel senso di ritenere esaustivo, in materia di concorsi pubblici ed esami, il giudizio espresso con l’attribuzione di un punteggio numerico: questo non necessiterebbe di altra motivazione, trattandosi di una forma, sintetica ma eloquente, che esterna in pieno la valutazione compiuta dalla Commissione d’esame ([34]).
Il principio non può neppure ritenersi superato dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 della legge 241/1990, che prescrive l’obbligo di motivazione di ogni provvedimento amministrativo, ivi compreso quello attinente allo svolgimento di pubblici concorsi: il giudizio espresso con punteggio numerico non necessita di ulteriore motivazione, trattandosi di valutazione tecnica e non di natura provvedimentale ([35]).
E’ stato, infatti, ritenuto che l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 3 deve ritenersi adeguatamente soddisfatto con l’attribuzione di un punteggio numerico ad una prova di concorso per esami o di abilitazione all’esercizio professionale, senza ed indipendentemente da qualsiasi altra esplicitazione della valutazione discrezionale compiuta dalla commissione ([36]).
L’art. 3 collega la valutazione circa la sufficienza della motivazione alle risultanze istruttorie.
L’obbligo, dunque, sussiste per l’attività amministrativa di tipo più propriamente provvedimentale, e non per l’attività di giudizio conseguente ad una valutazione come quella relativa all’attribuzione di un punteggio sulla preparazione culturale o tecnica del candidato.
A maggior ragione quando trattasi non di un’attività comparativa, bensì di esami di idoneità professionali ([37]).
D’altronde, anche se è stato riconosciuto, in via più generale, che l’obbligo di motivazione possa dirsi assolto anche quando l’amministrazione provveda ad indicare le ragioni su cui l’atto si fonda, utilizzando un modulo prestampato oppure mediante l’apposizione di un segno su una delle caselle che indicano una tra più ragioni possibili ([38]).
Lo sforzo della giurisprudenza di far coesistere esigenze di effettività della tutela individuale con le necessità pratiche di speditezza ed economicità dell’azione amministrativa, in un quadro ove occorre costantemente bilanciare l’immanenza di interessi generali e la concorrente espansibilità dei costi determinati dalla tutela individuale, emerge con riguardo al problema della motivazione in materia di concorsi d esami.
Il Consiglio di Stato ha infatti più volte affermato che la valutazione tecnica compiuta dalle commissioni d’esame è sufficientemente esternata con l’attribuzione di un punteggio alfanumerico, trattandosi di una attività priva di valenza provvedimentale, senza che sia necessario apporre segni grafici o glosse di commento a margine dell’elaborato di ogni candidato.
La valutazione del contenuto delle prove scritte di un pubblico concorso e l’attribuzione del relativo punteggio costituisce apprezzamento tecnico discrezionale riservato alla commissione esaminatrice, insindacabile da parte del giudice della legittimità ([39]).
L’attribuzione di un punteggio, anche se non accompagnato da motivazioni analitiche, sarebbe, dunque, sufficiente allo scopo.
Non è ravvisabile un vizio, sempre secondo questa giurisprudenza, sotto il profilo del difetto di motivazione, neppure nella circostanza che sugli elaborati non siano stati apposti segni di correzione. La funzione di tali segni è di tipo eminentemente didattico.
In un concorso o in un esame di abilitazione, infatti, la commissione ha la funzione di esprimere un giudizio, non quella di aiutare il candidato ad apprendere come emendarsi per il futuro.
Ciò non toglie, comunque, che sia opportuno valutare l’adeguatezza della motivazione di un atto amministrativo caso per caso ([40]).

VI

OBBLIGO DI MOTIVAZIONE, PROVVEDIMENTO IMPLICITO E COMPORTAMENTO
CONCLUDENTE

La forma, pur costituendo uno degli elementi essenziali dell’atto, insieme al soggetto e all’oggetto, talvolta può essere implicita, come nell’ipotesi dell’atto presupposto.
E’ legittimo, pertanto, dopo l’emanazione della legge 241 del 1990, dubitare della sua incompatibilità con le previsioni legislative di cui agli artt. 2 e 3, le quali sanciscono l’obbligo di concludere il procedimento con atto espresso e obbligatoriamente motivato.
Indubbiamente, tali fenomeni sono da ascrivere nel novero delle manifestazioni anomale della volonta’ amministrativa: è vero che la P.A. esteriorizza la sua volontà mediante provvedimenti amministrativi, ma può capitare che tale volontà si manifesti altrimenti attraverso dichiarazioni implicite o tacite ([41]), comportamenti concludenti, da considerarsi meri atti esecutivi di una volontà che rimane interna ma sufficiente a far comprendere l’intenzione dell’agente ( come il caso del silenzio rigetto), nonché le vie di fatto, atti reali di esecuzione di un provvedimento (comportamento esecutivo con successiva adozione dell’atto, tipico esempio ne è l’occupazione sine titulo) ([42]).
Orbene, per quanto attiene ai riflessi dell’obbligo di motivazione del provvedimento implicito, si è discusso e si discute circa la sua compatibilità con l’obbligo generale di motivazione.
Nel caso dell’atto implicito, risultando questo desunto da altro atto amministrativo, occorre esaminare la parte motivazionale di quest’ultimo per accertare l’eventuale sussistenza di una giustificazione dell’atto dedotto in via indiretta.
Infatti l’art. 2, comma 1, che impone all’Amministrazione di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento espresso, si rivolge alle ipotesi in cui il procedimento stesso consegua ad una istanza o debba essere iniziato d’ufficio.
Se si attribuisce all’atto implicito il significato di una manifestazione espressa di volontà che si snoda in via implicita ed indiretta, si potrebbe tranquillamente ammettere che un atto implicito possa chiudere il procedimento, senza nessun contrasto con la disposizione normativa.
E’ opportuno, infatti, distinguere il provvedimento tacito, come tale sinonimo di atteggiamento inerte, dall’atto implicito.
Nell’ipotesi di comportamento concludente, invece, può trovare applicazione la prassi della motivazione per relationem, in modo da desumere la motivazione dell’atto implicito da un altro atto del procedimento finalizzato a concludersi con il comportamento concludente.
Alla luce di tali considerazioni resta, comunque, fermo l’orientamento dottrinale attento a valorizzare il principio di conservazione e volto a ritenere che la violazione degli obblighi in tema di motivazione produrrebbe solo una irregolarità sanabile: è aperta la strada ad una ricostruzione postuma della motivazione, ogniqualvolta sia possibile, e anche in giudizio.
Le norme della legge 241del 1990 non sembrano, pertanto, aver inciso in merito all’atto implicito e al comportamento concludente.
Anche nell’esperienza di altri ordinamenti si avverte l’esigenza di addivenire ad una razionalizzazione dell’azione amministrativa in termini di economicità ed efficienza, oltre che di trasparenza.
Nel sistema francese, relativamente alla disciplina dei provvedimenti impliciti la legge 11 luglio 1979 n. 587 sulle decisioni amministrative ( Loi relative à la motivation des actes administratifs et à l’amélioration des relation entre l’Administration et le public), prevede, all’art. 5 che, dopo quattro mesi (ora ridotti a due) di inerzia dell’Amministrazione, si formi il silenzio rigetto.
Il Consiglio di Stato francese, con una interessante sentenza del 1985, ha stabilito che l’interessato possa rivolgersi all’Amministrazione interessata per sapere il motivo del rigetto insito nel provvedimento implicito. Se non giunge alcuna risposta entro due mesi, la prima decisione si considera illegittima, proprio in considerazione del rifiuto di fornire adeguata motivazione del provvedimento di cui si chiedeva conto ([43]).
La stessa logica permea l’impianto motivatorio dei ricorsi amministrativi: il Consiglio di Stato ha stabilito che, qualora il primo provvedimento negativo risulti motivato, il provvedimento di secondo grado adottato dal Ministero, se confermativo, non abbisogni di motivazione ([44]).
I suddetti esempi che si è voluto evidenziare potrebbero dare un’idea di come ormai siano maturi i tempi per adottare una nozione allargata di motivazione che, disancorata da rigidi formalismi, offra una visione che non sia meramente demolitoria dell’atto impugnato, bensì concentrata sulle ragioni reali del contenzioso.

Note:
*Relazione tenuta presso la SALA DEL TEMPIO DI ADRIANO – ROMA, il 14 novembre 2002 in occasione del Convegno su “La motivazione del provvedimento ammistrativo:presente e futuro”
([1] ) Caringella, Corso di diritto amministrativo, p.1380. Sulla nozione di motivazione cfr. la recente sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV n. 2281 del 29 aprile 2002, in www.giust.it/cds1/cds4_2002-2281.htm. T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. II, 15.3.2001, n. 416, in Foro Amm. 2001, 1372.
([2]) Per un excursus e anche per un parallelo con la motivazione degli atti costituzionali, L. Ventura, voce Motivazione degli atti costituzionali, in Digesto delle Discipline pubblicistiche, Utet 1995, p.31 e 32.
([3]) Cfr. al riguardo Carnevale P., La motivazione del provvedimento amministrativo e la sua rilevanza per il sindacato giurisdizionale, in Fun. pubbl., 1990, fasc. 3, p. 17 e, dello stesso autore, Rilevanza della motivazione nel sindacato del provvedimento amministrativo, in Trib. Amm. Reg., 1991, II, 347.
([4]) Fraioli F, La motivazione del provvedimento amministrativo: un obbligo che garantisce la certezza della decisione, in Nuova Rass., 1993, 1084
([5] ) CdS sez. IV n. 2281 del 29 aprile 2002, in www.giust.it/cds1/cds4_2002-2281.htm
([6] ) CdS sez. IV n. 2281 del 29 aprile 2002, in www.giust.it/cds1/cds4_2002-2281.htmH
([7] ) CdS. sez. IV, 9 ottobre 2000, n. 5346 in Foro Amm., 2000, p. 3054; CdS 22 dicembre 1998, n. 1866, in Foro Amm. 1998, p. 3072; CdS 26 gennaio 1998, n. 66 in Foro Amm., 1998, p. 32. T.A.R. Marche, 17.10.2001, n. 1148, in Foro Amm., 2001; T.A.R. Piemonte, sez. II, 16.11.2001, n. 2123, in Foro Amm., 2001; T.A.R. Lazio, 4.7.2001, n. 6119, in Comuni d’Italia, 2001, 1280; C.d S, Sez. IV, 22.02.2002, n. 938, in Foro Amm., 2001, p. 309; Cfr. inoltre, a proposito della motivazione ob relationem, T.A.R. Trent. A. Adige Bolzano, 4.10.2000, n. 290, in Riv. Personale Ente locale, 2001, p. 374.
([8]) Esemplificativa anche C. Conti, sez. contr., 30.03.1998, n. 24, in Riv. Corte Conti, 1998, fasc. 2, 10: “allorchè un provvedimento amministrativo si discosti in alcune parti dall’obbligatorio parere del Consiglio di Stato, la motivazione della predetta difformità, ancorchè non sufficientemente esplicitata nelle premesse dell’atto, ben può essere ricavata dalla documentazione relativa al procedimento, e richiamata nel provvedimento finale”.
([9]) CdS sez. IV, 26.01.1998, n.66, in Foro Amm. 1998, p. 32.
([10]) Esplicito al riguardo CdS sez. IV, 1998, n.1866 in Foro Amm. 1998, p. 3072. La motivazione di un provvedimento amministrativo può anche ricavarsi per relationem dagli atti istruttori (pareri, proposte, rapporti tecnici) richiamati nel preambolo del provvedimento stesso, T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 27.5.1999, n. 705, in Trib. Ammm. Reg., 1999, I, 2948, oppure può essere legittimamente desunta da atti collegati al procedimento, Cons. Stato, sez. IV, 6.4.1999, n. 534, in Foro amm., 1999, 648.
L’art. 3 della l. 241 del 1990 prevede, comunque, due obblighi in capo alla P.A.: quello del richiamo espresso dell’atto che contiene la motivazione e quello , eventuale, che impone la messa a disposizione dell’atto richiamato, azionabile ad istanza di parte. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 16.3.1999, n. 287, in Cons. Stato, 1999, I, 370: “…la verifica della logicità estrinseca dell’esercizio del potere amministrativo si incentra sulla motivazione del provvedimento, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza del ragionamento espresso, ma occorrendo che venga evidenziato un nesso di conseguenzialità e proporzione delle varie conclusioni con gli atti effettivamente acquisiti al procedimento e con le premesse fattuali emergenti da ciascuno di essi…”.
([11]) E’ la nota distinzione tra motivazione in senso ampio e in senso stretto elaborata da Giannini e ripresa poi dalla dottrina successiva, laddove la motivazione in senso stretto ricomprende solo i motivi e la motivazione in senso ampio anche i presupposti. Cfr. al riguardo V. Mazzarelli, voce Motivazione dell’atto amministrativo, p.1 ss in Enc. Giur.
([12])T.A.R. Veneto, Sez. I, 14.7.2000, n. 1342, in Comuni d’Italia, 2000, 1768.
([13]) CdS ad. plen., 28.10.1980, n. 38, in Cons. St., 1980, I, 1275.
([14]) T.A.R. Emilia Romagna Bologna, 13.12.1999, n. 636, in Comuni d’Italia, 2000, 750: la sentenza offre un interessante esempio di come l’imposizione alla P.A. dell’obbligo di comunicare integralmente la motivazione del provvedimento non sia da intendersi in senso meramente formale.
([15]) Sul punto v. Barbieri E. M., Cessazione della materia del contendere e interesse sostanziale a ricorrere, in Il processo amministrativo, in Il processo amministrativo, Scritti in onore di Miele, Milano 1979, 31.
([16]) La motivation écrite doit “comporter l’énoncé des considération de droit et de fait qui constituent le fondement de la decision”. Cfr. Chapus R., Droit Administratif General, I, 15^ ed., 2001, Domat Montchretien, p. 1129
([17]) Caringella, Corso di diritto amministrativo, Giuffré, 1430.
([18]) Giovanni Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1993, p.516.
([19]) Giannini M.S., voce Motivazione dell’atto amministrativo in Enc. dir., vol XXVII, Milano, 1977, 258 ss. L’autore precisa che l’obbligo di motivazione “fu il primo dei problemi che aprì la giurisprudenza, dandogli risposta, agli inizi, perentoriamente positiva. Anche nella dottrina, sempre, agli inizi vi furono atteggiamenti conformi: la ragione di politica del diritto…prevalse sull’analisi della normazione positiva, e anche sul buon senso…”, voce Motivazione…cit, 262.
Interessante come anche in campo penale siano intervenute pronunce favorevoli al voto numerico. V. Cass. pen., sez. VI, 3.11.1998, n. 12793, in Cass. pen., 1999, 3399, laddove si statuisce che, non integra il reato di cui all’art. 323 c.p., il cattivo uso dei poteri di valutazione dei candidati in un pubblico concorso da parte dei componenti della commissione, qualora il giudizio si estrinsechi attraverso la semplice espressione di un voto. La Corte ha così escluso che il giudizio così espresso possa integrare gli estremi della violazione dell’art. 3 l. 241 del 1990, stabilendo che il voto stesso costituisca motivazione del provvedimento.
([20]) Cfr., fra le altre, T.A.R. ( Ord.) Lombardia Milano, 29.12.1999, n. 110, in Foro It., 2000, III, 92 nonché T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 11.2.1999, n. 143, in Trib. Amm. reg., 1999, I, 1565. Si è sostenuto, anche, che le giustificazioni nonché i chiarimenti contenuti nelle memorie difensive non sarebbero idonee ad integrare la motivazione di un provvedimento amministrativo, dovendo la motivazione precedere e non seguire cronologicamente la parte dispositiva dell’atto cons. Stato, sez. VI, 13.1.1999, n. 10, in Cons. Stato 1999, I, 92.
([21]) In tal senso Caringella, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 1427; Virga G, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1993, p. 520.
([22]) R. Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, p. 404. Favorevole alla motivazione successiva è anche Caianiello V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, p.411.
([23]) Cons. Giust. Amm. 20 aprile 1993, n. 149, in Dir. Proc. Amm., 1994, p.577, Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 1990, n.776, in Cons. St, 1990, I, 1235, Cons. Stato, Sez. IV, 20 maggio 1992, n. 546, in Cons. St., 1992, I, p. 716. Cfr. anche De Paolis, La trasparenza, il diritto di accesso e il diritto alla riservatezza nell’attività della Pubblica Amministrazione, in La motivazione del provvedimento amministrativo, Cedam 2002, p. 72, nonché Mameli B., Atto introduttivo e attività istruttoria, in Il nuovo processo amministrativo, Giuffré 2001, 3 ss..
([24]) Giurisprudenza pacifica. Cfr. al riguardo Caringella F., Corso di diritto amministrativo, Giuffrè, e la giurisprudenza ivi citata. T.A.R. Salerno, 19.4.2000, n. 275, in I TAR, 2000, I, 3384.
([25]) Sul punto Caianiello V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1998, p. 411; Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, I e II, Milano, 1962; per la tesi opposta Sandulli A.M., Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli, 1984, p. 1369; Virga P., La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1982, p.160 ss. Per una disamina della problematica Zito A., L’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in Dir. Proc. Amm., 1994, p. 577 ss.
([26]) Cfr. al riguardo D’Alessandro S., Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo e interesse sostanziale a ricorrere, in Foro amm., 1988, p. 3724.
([27]) Giannini M.S., Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., Milano, XXVII,260.
([28]) Caringella F, Corso di diritto amministrativo, 1431 e 1432.
([29]) Caringella F., Corso di diritto amministrativo, 1432.
([30]) Da ultimo Cons. St., sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 242, in www.giust.it/cds1/cds 4_2002-242htm. In dottrina Berni Canani S., Autotutela cautelare della P.A. e motivazione del provvedimento, in www.giust.it/cds1/cds 4_2002-242htm. Cfr, anche il commento alla medesima sentenza di Vitiello V., A proposito della discrezionalità dell’Amministrazione, in www.giust.it/cds1/cds 4_2002-242htm.
([31]) Cfr. sul punto Mascello V., La motivazione degli atti di autotutela, in La motivazione del provvedimento amministrativo, Cedam 2002 nonché la giurisprudenza ivi citata.
([32]) Cons. Stato, sez. V, 9.2.2001, n. 581, in Foro Amm., 2001, n. 2.
([33]) Cons. Giust. Amm. Sic., Sez. Giurisd., 23.12.1999, n.676, in Cons. Stato, 1999, I, 2196.
([33]) Cons. Stato, sez. V, 3.11.1989, n. 732, in Cons. Stato, 1989, I, 1378: “… nelle valutazioni concorsuali non si richiede motivazione nell’attribuzione dei voti, esternandosi compiutamente il giudizio della commissione nella graduazione del punteggio assegnato”.
([34]) Cons. Stato, sez. V, 3.11.1989, n. 732, in Cons. Stato, 1989, I, 1378: “… nelle valutazioni concorsuali non si richiede motivazione nell’attribuzione dei voti, esternandosi compiutamente il giudizio della commissione nella graduazione del punteggio assegnato”. Cons. Stato, sez.V, 19.7.1989, n. 431, in Cons. Stato, 1989, I, 927: “…la commissione giudicatrice di un concorso non è tenuta a fornire motivazione alcuna nell’attribuzione del punteggio in forma aritmetica ad una determinata prova di esame, in quanto il giudizio della commissione si esterna ex se nella graduazione del punteggio assegnato”.
([35]) T.A.R. Toscana, sez. II, 4.3.1999, 236, in Ragiusan, 2000, p.362.
([36]) Cons. st., sez. IV, 13.10.1993, n. 727; Cons. di stato sez. VI, 27.5.1996, n. 747
([37]) Cons. St. sez. IV, 727 / 1993 cit.
([38]) Cons. Stato, sez. IV, 16.9.1999, n. 1476, in Foro Amm., 1999, 1712.
([39]) Cons. Stato, sez. V, 19.7.1989, n. 431, in Cons. Stato, 1989, I, 927.
([40]) Cons. St., Sez. V, 6.12.1999, n. 2065, in Foro Amm., 1999, 2494
([41]) La stessa legge 241 del 1990 ne prevede talune ipotesi: all’art. 20 generalizza il silenzio assenso ed introduce l’istituto di denunzia di inizio attività, mentre l’art. 25, comma 4, così come riformulato dall’art. 15 legge 340 del 2000, conferisce all’inerzia della P.A. il significato di un diniego di accoglimento dell’istanza o ricorso in tema di accesso ai documenti amministrativi. La legge, dunque, in tal modo reagisce alla violazione dell’obbligo di provvedere e all’eventuale illegittimità dei comportamenti omissivi ed inerzie della P.A.
E’ opportuno ricordare che il T.U. sull’edilizia, pubblicato nella G.U. del 22 ottobre 2001, ha introdotto, agli artt. 20 e 21, il cosiddetto permesso di costruzione, istituto che sostituisce la concessione edilizia.
Il permesso di costruzione costituisce una forma di silenzio rifiuto, ma le Regioni potranno prevedere la forma del silenzio assenso, considerato che gli artt. 20 e 21 hanno natura regolamentare.
Interessante è la recente sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, 6 dicembre 2001, n. 5272, in Urbanistica e appalti, 2002, 331 ss, con nota di Albé A, Denuncia di inizio di attività e tutela dei terzi, ivi, 333 ss. L’oggetto riguarda la realizzazione, sulla base di denuncia di inizio di attività di antenne radio per servizi di telefonia cellulare.
Sulla tematica della denuncia di attività v. Boscolo, I diritti soggettivi ad accertamento amministrativo, Padova 2001, nonché Perfetti L.R., La denuncia di inizio attività in alternativa alla concessione e all’autorizzazione, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, 479 ss. e Falcone P., Gli interventi assoggettabili a denuncia d’inizio attività, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, 482 ss.
([42]) Su un piano sensibilmente diverso rispetto ai suddetti istituti si pone il fenomeno del silenzio inerzia della p.a.,che si prospetta nei casi in cui essa ometta di pronunciarsi quando sia obbligata a farlo. La rilevanza giuridica del silenzio è assai diversa: il silenzio è infatti un mero fatto, svincolato dalla volontà della P.A., che soddisfa un interesse legittimo anche in mancanza di un provvedimento. Sull’art. 2 L. n. 205 del 2000 ed il ricorso contro il silenzio rifiuto, con particolare riferimento alla configurazione del ricorso al silenzio come nuova ipotesi di giurisdizione di merito cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, 23 marzo 2001, n. 2372, in Urbanistica e appalti, 2001,1123, nonché Giovagnoli R., L’oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio rifiuto della P.A., in Urbanistica e appalti, 2001, 1123 ss. Cfr. anche Tarantino L., Silenzio e ragionevolezza, in Urbanistica e appalti, 2001, 1237, con nota Cons. Stato, sez. IV, ord. 10 luglio 2001, 3803, ivi pubblicata.
([43]) Chapus R., Droit Administratif General, I, 15^ ed., 2001, Domat Montchretien. Sul silenzio e sul decreto n. 2001-492 del 6 giugno 2001 v. Veronelli M., La nuova disciplina del silenzio in Francia, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, 554 ss. Sulla motivazione del provvedimento nel diritto spagnolo e sulla legge n. 30 del 1992 v. Terrados Molledo S., La motivazione dell’atto amministrativo in Spagna, in La motivazione del provvedimento amministrativo, Cedam 2002, p. 141 ss.
([44]) Conseil d’Etat 30 novembre 1994, Guyot, p. 517, Conseil d’Etat 14 ottobre 1996, Figuel, p. 683. Cfr, sul punto Chapus R., Droit Administratif General, I, 15^ ed., 2001, Domat Montchretien, p. 1130.

Redazione

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