Crisi d’azienda e ristrutturazione aziendale. Disagi ed opportunità per i lavoratori.

Redazione 08/03/02
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di Manuel M. Buccarella (mbuccarella@wildmail.com)[1]
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I continui cambiamenti che interessano il settore politico-economico, la rivoluzione della Net Economy, le pressioni delle lobbies e le attività delle organizzazioni sindacali comportano costanti e spesso repentine innovazioni all’interno delle strutture aziendali. Innovazioni che sono spesso causa ovvero conseguenza di situazioni di crisi aziendale. In questo articolo si passano in rassegna, anche e soprattutto alla luce del quadro legislativo e giurisprudenziale vigente ed applicabile, le soluzioni più ricorrenti di ristrutturazione aziendale, con conseguenti minacce ed opportunità per gli “abitanti” dell’azienda: i lavoratori.

1.La cessione d’azienda o di ramo autonomo della stessa

L’art. 2112 c.c. dispone, tra l’altro, che, nel caso di cessione dell’intera azienda, o di un suo ramo autonomo, i relativi rapporti di lavoro vengano trasferiti al datore di lavoro acquirente. Si tratta, di una norma di estrema garanzia per il lavoratore che, conseguentemente, non può essere licenziato per il semplice fatto che l’azienda cui è addetto è stata ceduta.
La norma in questione è stata oggetto di un’attenta interpretazione giurisprudenziale, che ha vigilato affinché questa norma garantista non si ritorcesse, di fatto, contro i lavoratori. Infatti, per esempio, l’imprenditore potrebbe cedere una parte della propria attività produttiva ad una piccola impresa ; configurando l’operazione come cessione del ramo d’azienda, tale imprenditore si potrebbe disfare di alcuni lavoratori che, venendo ceduti, perderebbero le garanzie contro i licenziamenti ingiustificati, eludendo così la normativa che garantisce solo ai lavoratori delle imprese medio – grandi la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi.
In particolare, la giurisprudenza si è occupata di un caso in cui il datore di lavoro acquirente, a pochi mesi dall’acquisto del ramo d’azienda, aveva cessato l’attività. In quel caso, il Pretore aveva ritenuto che la cessazione dell’attività ceduta è in sé configurabile come un rischio dell’attività di impresa e, come tale, legittima. Altro sarebbe, però, se la cessione fosse avvenuta a seguito di un comportamento doloso o di colpa grave, tenuto dal venditore nei confronti dei lavoratori: per esempio, chi ha venduto il ramo d’azienda era a conoscenza del fatto che l’acquirente non fosse un imprenditore serio. In una simile ipotesi, la successiva cessazione dell’attività ceduta non realizzerebbe il normale rischio d’impresa ; al contrario, si tratterebbe della realizzazione di un rischio ben calcolabile, che il venditore avrebbe potuto ipotizzare se fosse stato mediamente diligente.
Naturalmente, il lavoratore deve provare che la cessione sia avvenuta nonostante la consapevolezza, da parte del venditore, della scarsa affidabilità imprenditoriale fornita dall’acquirente. Qualora la prova venisse fornita, i lavoratori licenziati avrebbero diritto al risarcimento del danno da parte dell’imprenditore cedente.
La fusione di società configura una ipotesi di trasferimento d’azienda, disciplinata dall’art. 2112 del Codice civile, operante tutte le volte in cui alla gestione di un’impresa subentra un nuovo imprenditore. La norma disciplina le conseguenze del trasferimento d’azienda su ogni rapporto di lavoro. Innanzi tutto, il rapporto continua con il nuovo imprenditore che ha acquistato l’azienda e il lavoratore conserva tutti i diritti: ciò significa, per esempio, che il lavoratore manterrà l’anzianità maturata, con tutte le conseguenze in ordine a istituti a essa legati, quali gli scatti di anzianità, le ferie, il Tfr, ecc.
Inoltre, il venditore non è liberato dei debiti che, all’atto della cessione, aveva nei confronti dei lavoratori, i quali potranno quindi far valere i corrispondenti crediti nei suoi confronti, nel caso in cui l’acquirente non sia in grado di pagarli. Questa disposizione ha importanti conseguenze sulla liquidazione: il Tfr verrà corrisposto dall’acquirente alla fine del rapporto di lavoro; tuttavia, in caso di insolvenza, la parte maturata presso il venditore può essere rivendicata nei confronti di quest’ultimo.
La cessione d’azienda può comportare il problema di armonizzare tra loro diversi trattamenti economici e normativi, derivanti da accordi aziendali. Ciò può succedere quando più imprese si fondono tra loro e formano una nuova impresa (fusione), o ancora quando un’impresa ne assorbe un’altra (incorporazione), quindi quando lavoratori che prima lavoravano per diversi imprenditori, si trovano a dipendere da un unico datore di lavoro. Il penultimo comma dell’art. 2112 C.C. dispone che l’acquirente deve applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi anche aziendali vigenti alla data del trasferimento.
Conseguentemente, nei casi di fusione o incorporazione, ogni lavoratore manterrà i diritti derivantigli dagli specifici accordi aziendali applicabili al proprio precedente datore di lavoro, senza acquistare quelli più favorevoli derivanti dagli accordi aziendali vigenti per le altre società interessate alla fusione o incorporazione.
Naturalmente, è possibile che l’acquirente pattuisca con il sindacato nuovi accordi aziendali che sostituiscano i precedenti, armonizzando il trattamento economico e normativo dei dipendenti.

1.1 In caso di cessione d’azienda, la retribuzione del lavoratore non può essere (sempre) modificata in pejus
L’art. 2112 del codice civile prevede che, in caso di trasferimento dell’azienda (o di un suo ramo autonomo), il rapporto di lavoro prosegue con l’imprenditore che subentra, ed il lavoratore conserva tutti i diritti che aveva in precedenza. In sostanza il trasferimento non può determinare un peggioramento delle condizioni del lavoratore, al quale non può, ad esempio, essere diminuita la retribuzione o aumentato l’orario di lavoro.
Il principio non vale solo nel caso dei diritti disciplinati dalla legge o dal contratto, ma anche nel caso in cui il diritto del lavoratore trova il proprio fondamento nella volontà del datore di lavoro, tradottasi in un uso consolidato nel tempo.
Si parla, in casi simili, di una prassi aziendale, ovvero di un comportamento ripetuto nel tempo in modo costante, sino a divenire parte integrante del rapporto di lavoro. Una simile prassi rientra tra i cosiddetti “usi negoziali o di fatto”: in definitiva, è come se alle clausole previste dalla lettera di assunzione o dal contratto collettivo se ne aggiungesse un’altra, non scritta, ma che diventa comunque vincolante per le parti, e che come tale deve essere rispettata. Anche tale diritto, così come quelli messi per iscritto, non può dunque essere revocato per iniziativa di una sola delle parti, in modo unilaterale, ma deve essere rispettato sino a quando entrambi i soggetti interessati abbiano manifestato la loro intenzione di revocarlo o modificarlo.
Dunque, in mancanza di accordi stipulati al momento della cessione dell’azienda, con cui sia stato espressamente autorizzato dai lavoratori (o dai loro rappresentanti) il venir meno della prassi consolidata, questa deve continuare a trovare applicazione.
La questione è stata di recente affrontata dalla Cassazione (sentenza n.4724 del 12 maggio 1999). Nel caso esaminato dalla suprema Corte era accaduto che il trattamento economico dei lavoratori aveva subito, a seguito del trasferimento d’azienda, una diminuzione. Infatti, il datore di lavoro acquirente aveva raggiunto con i sindacati un accordo che, in vista del mantenimento dei livelli occupazionali, prevedeva una diminuzione delle spettanze retributive, peraltro subordinatamente alla adesione da parte di ogni singolo lavoratore. Secondo la tesi difensiva della società, l’accordo era coerente con quanto disposto dall’art. 47 c. 5 L. 428/90: tale norma prevede la inapplicabilità del già citato art. 2112, qualora il trasferimento riguardi aziende per le quali sia stato accertato lo stato di crisi, o per le quali sia stato dichiarato il fallimento o siano state ammesse ad altre procedure concorsuali, e sempre che la deroga alla norma codicistica sia prevista da un accordo – stipulato con le Rsa o con le rispettive associazioni di categoria – che consenta, anche solo parzialmente, il mantenimento della occupazione.
Un lavoratore aveva però adito il giudice del lavoro, contestando la decurtazione retributiva. In particolare, il lavoratore sosteneva che l’accordo non era applicabile nei suoi confronti sotto un duplice profilo: da un lato, perché egli non era iscritto ai sindacati che l’avevano stipulato; da un altro punto di vista, perché egli non aveva prestato all’accordo l’adesione prevista dall’accordo stesso per la sua efficacia. A questa argomentazione, la società ribatteva che, ai sensi dell’art. 1372 c. 2 c.c., l’accordo può produrre effetti nei confronti dei terzi nei casi previsti dalla legge, come nel caso di specie.
La Corte di cassazione ha accolto la tesi del lavoratore. Infatti, è stato rilevato che il citato art. 47 c. 5 consente deroghe alla disciplina dettata dall’art. 2112 c.c. in tema di trasferimento d’azienda; tuttavia, queste deroghe non possono essere introdotte unilateralmente dal datore di lavoro; al contrario, le stesse devono essere concordate. Nel caso di specie, l’accordo raggiunto con i sindacati era inapplicabile al lavoratore ricorrente sotto il già segnalato duplice profilo: perché tale lavoratore non era iscritto ai sindacati stipulanti, e perché egli non aveva aderito all’accordo medesimo. Pertanto, in una simile situazione, la decurtazione retributiva operata nei confronti di questo lavoratore dipendeva non tanto da un accordo, quanto piuttosto da una unilaterale decisione dell’imprenditore. Pertanto, nel caso di specie non era configurabile nessuna legge che estendesse ai terzi l’efficacia del contratto, con conseguente illegittimità del comportamento del datore di lavoro.

1.2 La cessione del singolo contratto di lavoro

L’ipotesi della cessione del singolo contratto di lavoro è diversamente regolata dalla legge, a seconda che tale cessione sia, o non sia, la conseguenza di un trasferimento d’azienda o di un ramo della stessa.
Infatti, qualora l’oggetto del trasferimento fosse l’azienda, o un suo ramo autonomo, la contestuale cessione dei relativi rapporti di lavoro sarebbe una conseguenza necessaria, automaticamente prevista dall’art. 2112 c.c.. Va peraltro precisato che la citata disposizione di legge offre, in realtà, una importante garanzia al lavoratore che, in caso contrario, potrebbe essere licenziato.
Tuttavia, per configurare l’ipotesi prevista dall’art. 2112 c.c., è necessario che vi sia il trasferimento dell’insieme di beni che, organizzati dall’imprenditore, costituiscono l’azienda. Al contrario, qualora non fossero ceduti beni strumentali, o comunque i beni ceduti non fossero tali da costituire una azienda, la cessione del rapporto di lavoro sfuggirebbe alla disciplina della norma sopra citata e, dunque, non costituirebbe più una conseguenza automatica e necessaria.
Questo caso è disciplinato dall’art. 1406 c.c., che regolamenta la cessione del contratto. Più precisamente, la norma dispone che uno dei due contraenti possa cedere ad un terzo il contratto, a condizione però che l’altro contraente sia consenziente. Ciò vuol dire che, in assenza di tale consenso, la cessione del contratto non si perfeziona e non ha alcuna efficacia.
Con particolare riferimento alla cessione del contratto di lavoro, la giurisprudenza ha interpretato l’art. 1406 c.c. affermando che il dissenso deve essere esplicito e tempestivo. In altre parole, il lavoratore ceduto potrebbe manifestare validamente il suo consenso qualora cominciasse a lavorare per il nuovo datore di lavoro senza protestare. Pertanto, nel caso di cessione del singolo contratto di lavoro, il lavoratore può certamente opporsi al trasferimento del proprio contratto di lavoro, a condizione però che manifesti il proprio dissenso in maniera esplicita, preferibilmente mediante raccomandata r.r., e con opportuna tempestività

1.3 Diritti delle organizzazioni sindacali in caso di cessione d’azienda

Nel caso di cessione di un’azienda che occupi più di 15 lavoratori, l’art. 47 L. 428/90 prescrive che il cedente ed il cessionario ne diano comunicazione, almeno 25 giorni prima, alle rappresentanze sindacali aziendali ed alle rispettive organizzazioni di categoria. In mancanza delle Rsa, l’informazione è dovuta alle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Più precisamente, l’informazione deve riguardare i motivi del trasferimento; le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori; le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.
I sindacati che hanno ricevuto la comunicazione possono, nei sette giorni successivi, richiedere un esame congiunto, che deve iniziare entro sette giorni dalla richiesta. La procedura di informazione – consultazione sindacale è comunque esaurita qualora, entro dieci giorni dall’inizio dell’esame congiunto, le parti non raggiungano alcun accordo.
L’accordo eventualmente raggiunto nell’ambito della descritta procedura può prevedere deroghe alle disposizioni dell’art. 2112 c.c.. In particolare, si può pattuire che i lavoratori dell’azienda ceduta non passino, in tutto o in parte, alle dipendenze del cessionario. A tal fine, è però necessario che il trasferimento riguardi aziende per le quali sia stato accertato lo stato di crisi, o per le quali sia intervenuta dichiarazione di fallimento (o di altra procedura concorsuale), e sempre che l’accordo preveda la salvaguardia anche parziale dell’occupazione.
L’art. 47 cit. prevede esplicitamente che il mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di esame congiunto costituisce condotta antisindacale.

2. Il comando (o distacco) aziendale

Il comando ed il distacco sono istituti propri del rapporto di pubblico impiego, nell’ambito del quale sono utilizzati per soddisfare esigenze di funzionalità degli enti pubblici e delle varie branche dell’amministrazione.
Non esiste invece, nell’ordinamento positivo, una specifica disciplina del comando o distacco nel rapporto di lavoro privato, a proposito del quale i due termini vengono impiegati indifferentemente per designare una vicenda modificativa del rapporto stesso, l’individuazione della quale è frutto della elaborazione operata dalla giurisprudenza allo scopo di delimitare l’ambito di applicazione del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui all’art. 1 della l. n. 1369 del 1960. Solo negli ultimi anni, l’art. 8, co. 3, della l. n. 236/1993 ha previsto, com’è noto, la possibilità che, al fine di evitare le riduzioni di personale, il comando o il distacco per una durata temporanea di uno o più lavoratori da una impresa all’altra siano regolati da accordi sindacali.
Come rilevato in dottrina, distacco lecito ed interposizione illecita sono le due facce di una stessa medaglia, essendo il primo diretto a tutelare il potere del datore di lavoro di disporre dell’organizzazione aziendale, mentre il divieto della seconda tende a garantire il dipendente distaccato.
Il comando o distacco “proprio”, che si realizza quando il lavoratore rende la sua prestazione a beneficio di un terzo indicatogli dal suo datore di lavoro, nell’impresa del quale terzo collabora e viene inserito, conservando il rapporto con il datore di lavoro medesimo, differisce dal comando “improprio” (caratterizzato “dalla mancanza di dissociazione tra titolarità del rapporto e titolarità del potere decisionale”), nel quale il dipendente di un’impresa fornitrice di servizi presti la sua opera in favore di un cliente dell’impresa stessa (Cass.3 dicembre 1986, n. 7161, in “Mass. giur. lav.” 1987, 344, con nota di SBROCCA).
E’ opportuno rilevare che la direttiva 96/71/CE del 16 dicembre 1996 relativa al “distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi”, alla quale gli ordinamenti degli Stati membri dovranno conformarsi entro il 16 dicembre 1999 e che mira a garantire ai lavoratori, che svolgono temporaneamente la propria attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello in cui lavorano abitualmente, condizioni di lavoro e di occupazione relative a determinate materie, tra le quali le “tariffe minime salariali”, la durata minima delle ferie e dei riposi e la durata massima dell’orario di lavoro, non inferiori a quelle in vigore in detto Stato, trova applicazione nei casi di comando o distacco sia “proprio” che “improprio”, nonché nei casi di lavoratori inviati all’estero da “imprese di lavoro temporaneo”.
L’esame si riferisce al “comando o distacco “proprio”, mediante il quale si realizzano i fenomeni di mobilità interaziendale resi sempre più pressanti dalla rapida evoluzione dei moduli organizzativi delle attività imprenditoriali in direzione di una maggiore flessibilità e dalla crescente intensificazione delle esigenze che richiedono forme di collaborazione tra le imprese, in special modo ma non solo, tra quelle che sono tra loro collegate o fanno parte di uno stesso gruppo.

2.1 Nozione e qualificazione giuridica

Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, “l’ipotesi del comando o distacco, nell’ambito dell’attuazione del rapporto di lavoro, costituisce espressione tipica dei poteri direttivi dell’imprenditore il cui effetto consiste nella semplice modifica delle modalità esecutive della prestazione di lavoro, che deve essere adempiuta non già a favore della controparte naturale ma bensì a favore del terzo presso il quale il lavoratore è stato distaccato” (Cass. 2 gennaio 1995, n. 5, in “Giur. it.” 1995, I, 1, 1466, con nota di BARBANTI).
La sottoposizione del lavoratore al potere direttivo dell’imprenditore, presso il quale e’ stato comandato, non può aver rilievo al fine di escludere la configurabilità del distacco, trattandosi di conseguenza necessaria dell’inserimento del lavoratore distaccato nella struttura aziendale dell’impresa di destinazione (Cass. 23 agosto 1996, n. 7762).
Nel senso che il distacco, ricondotto ai poteri conformativi del datore di lavoro o al potere del creditore di indicare il destinatario dell’adempimento ex art. 1188 c.c., non comporta modificazioni soggettive del rapporto di lavoro, che continua a svolgersi con il soggetto distaccante si è espressa Cass. 23 aprile 1992, n. 4851 (in “Riv. it. dir. lav.” 1993, II, 428 con nota di PIZZOFERRATO).

2.2 I requisiti “indefettibili” del distacco

La configurabilità’ del distacco (o comando) postula, quali “requisiti indefettibili”, l’interesse del datore di lavoro distaccante (al quale il rapporto di lavoro rimane riferibile) a che il proprio dipendente presti la sua opera a favore del terzo (distaccatario) e la temporaneità del distacco stesso (Cass. 15 giugno 1992, n. 7328, in “Dir. lav.” 1992, 7328, con nota di CANALI DE ROSSI).
Non costituiscono invece presupposti necessari del distacco la sussistenza di una situazione che lo renda “imprescindibile” né la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 2103 c.c. per lo spostamento del lavoratore da un’unità produttiva all’altra (Cass. 8 febbraio 1988, n. 1325, in “Not. giurispr. lav.” 1988, 648, confermativa della sentenza del giudice di merito che, in una controversia instaurata da un lavoratore dipendente da una società capogruppo estera e distaccato presso una consociata italiana per ottenere il pagamento di talune indennità, aveva accolto l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla società italiana).

2.2.1 L’interesse del datore di lavoro distaccante

Elemento caratterizzante del distacco è l’interesse del distaccante a che le prestazioni del lavoratore siano rese presso un soggetto diverso dal datore di lavoro (Cass. 26 maggio 1993, n. 5907, cit.).
Il distacco e’ configurabile quando sussistano l’interesse del datore di lavoro distaccante a che il lavoratore presti la propria opera presso il destinatario, nonché la persistenza, in capo al datore di lavoro distaccante, sia del potere di determinare la cessazione del distacco, sia del potere direttivo (eventualmente in parte delegato al destinatario), rimanendo del tutto estranea alla vicenda la volontà del lavoratore che esegue la prestazione altrove in osservanza del dovere di obbedienza disposto dall’art. 2104 cod. civ. (Cass. 2 maggio 1998, n. 5102).
Il distacco non viola il divieto di intermediazione quando “la destinazione dell’attività lavorativa nei confronti del terzo continui a realizzare l’interesse del datore di lavoro distaccante a disporre organizzativamente del comportamento del lavoratore” (Cass. 14 febbraio 1983, n. 1131; Cass. 26 febbraio 1982, n.1264, cit.).
Per stabilire se il rapporto di lavoro del dipendente distaccato sia effettivamente intercorso con il datore di lavoro distaccante, il giudice del merito deve accertare la esistenza, in concreto, di un interesse non solo iniziale ma anche “persistente” del distaccante stesso alla destinazione della prestazione lavorativa presso il distaccatario nel permanere di un vincolo di dipendenza non soltanto apparente (Cass. 6 luglio 1982, n. 4017, in “Not. giurispr. lav.” 1982, 405, ed in “Giust. civ.” 1983, I, 924; Cass. n.1131/1983 cit., per la quale deve sussistere, di norma, anche l’interesse del terzo beneficiario della prestazione del lavoratore distaccato).
Il distacco deve essere accompagnato da un interesse concreto e persistente del datore di lavoro distaccante ad impiegare il lavoratore presso il distaccatario “per il perseguimento delle proprie finalità” (Cass. 13 aprile 1987, n. 3684; in senso conforme Cass.17 giugno 1983, n. 4188, e Cass.23 aprile 1981, n. 2443, che fanno riferimento alle “finalità istituzionali” dell’ente distaccante; nonché Cass. 18 aprile 1983, n. 2655, in “Not. giurispr. lav.” 1983, 539, ed in “Riv. it. dir. lav.” 1984, II, 667, per la quale è necessario che il datore di lavoro distaccante, sia esso un organismo privato o una pubblica amministrazione, abbia interesse a porre in essere il distacco “in esecuzione dei propri compiti istituzionali”).
L’interesse del datore di lavoro a che il proprio dipendente presti la propria opera in favore di un terzo deve essere valutato dal giudice del merito in relazione non allo scopo sociale della società datrice di lavoro astrattamente considerato bensì al concreto espletamento dell’attività della stessa, potendo venire escluso solo in caso di evidente ed insanabile contrasto con le finalità’ proprie dell’oggetto sociale o con le ragioni che abbiano indotto la società ad assumere il dipendente (Cass. 13 giugno 1995, n. 6657, confermativa della decisione, con la quale il giudice di merito aveva ritenuto sussistente l’interesse di una società a distaccare presso un Fondo di assistenza aziendale un proprio dipendente, sul rilievo che la società stessa, contribuendo al finanziamento del Fondo e anticipandone ai propri dipendenti le prestazioni, aveva interesse al corretto finanziamento del Fondo stesso per il migliore impiego delle risorse erogate).
Il distacco è stato considerato illecito quando le modalità di assunzione e di svolgimento del rapporto denotino “la sostanziale estraneità del lavoratore alla struttura organica e funzionale dell’ente distaccante” (Cass. 18 aprile 1983, n. 2655, cit.), nonché nel caso dell’estraneità del datore di lavoro distaccante alla realizzazione della causa del contratto da lui apparentemente concluso con il lavoratore, della prestazione del quale abbia assicurato la disponibilità al terzo distaccatario (Cass. 7 agosto 1982, n. 4435, in “Foro it.” 1983, I, 399, con nota di PEZZANO, ed in “Dir. lav.” 1983, II, 106; Cass. 27 maggio 1981, n. 3488).
L’interesse può anche essere soltanto parziale, purché non sia del tutto secondario (Cass. 21 aprile 1983, n. 2772, in “Not. giurispr. lav.” 1983, 539).
L’interesse del datore di lavoro deve essere “diretto” e non può consistere in controprestazioni o vantaggi non omogenei al contenuto delle prestazioni. Le prestazioni eseguite presso il terzo devono quindi corrispondere, in quanto tali, alle esigenze produttive ed organizzative dell’azienda distaccante (Cass. 23 aprile 1992, n. 4851, cit., con riferimento al caso di specie di un dipendente di un ente gestore di formazione professionale temporaneamente assegnato presso una Amministrazione provinciale, riguardo al quale è stato ritenuto che l’interesse mediato del datore di lavoro a non privarsi definitivamente di un dipendente provvisoriamente in soprannumero ed il perseguimento delle stesse finalità da parte di più enti non fossero sufficienti ai fini della configurabilità di un distacco).
Ha ritenuto illegittimo il distacco che realizzi “solo in misura esigua” l’interesse della società distaccante, ancorché il lavoratore sia stato distaccato presso una società collegata, il Tribunale di Milano (sentenza 13 luglio 1996 in “Or. giur. lav.” 1996, 602).
Ha negato che l’interesse del distaccante possa essere costituito da qualsivoglia interesse fattuale e, in particolare, in un interesse rispondente alla volontà di gettare le basi di una futura attività e di crearsi una clientela il Trib. di Venezia (sentenza 20 novembre 1995 in “Inform. previd.” 1995, 1601).
La mancanza iniziale o sopravvenuta dell’interesse del datore di lavoro distaccante determina l’estinzione del rapporto di lavoro originario e l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con il terzo distaccatario (Cass. 1° febbraio 1988, n. 877; Cass. 13 aprile 1987, n. 3684, cit.; Cass. 12 novembre 1984, n. 5708; Cass. 7 novembre 1983, n. 6581; Cass. 5 novembre 1983, n. 6544, in “Rassegna Avvocatura dello Stato” 1984, I, 802; Cass. 13 maggio 1981, n. 3150, in “Not. giur. lav. 1982, 107; Cass. 23 aprile 1981, n. 2446).

2.2.2 La temporaneità

La temporaneità, intesa quale coincidenza fra la durata del distacco e la persistenza dell’interesse del datore di lavoro alla destinazione del lavoratore a prestare la propria opera in favore di un terzo, costituisce presupposto di legittimità del distacco stesso. La sussistenza del presupposto anzidetto non richiede che tale destinazione abbia una durata predeterminata sin dall’inizio, né che essa sia più o meno lunga o sia contestuale all’assunzione del lavoratore, ovvero persista per tutta la durata del rapporto, ma solo che la durata del distacco coincida con quella dell’interesse del datore di lavoro a che il proprio dipendente presti la sua opera in favore di un terzo (Cass. 13 giugno 1995, n. 6657, cit.).
La temporaneità va intesa non come brevità, bensì come “non definitività” (Cass. 2 maggio 1998, n. 5102, cit.; Cass. 12 novembre 1984, n. 5708, cit.) e costituisce un “corollario” della sussistenza dell’interesse del datore di lavoro all’esecuzione delle prestazioni in favore del terzo e del potere del datore medesimo di richiamare in azienda il dipendente (Cass. 23 aprile 1992, n. 4851, cit.). Nella sentenza n. 1499 del 20 febbraio 1985 (in “Mass. giur. lav. 1985, 151, ed in “Riv. giur. lav.” 1986, II, 75) le Sezioni Unite della S.C. avevano affermato che l’assegnazione in via definitiva fin dal momento dell’assunzione di un dipendente presso un’azienda altrui esclude la sussistenza di un distacco e configura una violazione del divieto di interposizione, senza necessità di ulteriori indagini sul carattere fraudolento o simulato della assunzione. Anche Cass. 14 febbraio 1983, n. 1131, cit., e Cass. 6 luglio 1982, n. 4017, cit., considerano il “carattere non definitivo – anche se non predeterminato nella sua effettiva durata – dell’applicazione presso il terzo del lavoratore ” distaccato un indice significativo della sussistenza di un distacco lecito. Nel senso che “la definitività dell’applicazione del lavoratore al servizio di un terzo è incompatibile con la persistenza dell’originario rapporto di lavoro” si è espressa anche Cass. 12 novembre 1979, n. 5868 (in “Foro it. 1980, I, 352, con nota di PEZZANO, in “Mass. giur. lav.” 1980, 190,in “Not. giurispr. lav.” 1980, 135, in “Giur. it.” 1980, I, 1, 1511, in “Or. giur. lav.” 1981, 184).
Il distacco può coincidere con l’intera durata del rapporto di lavoro, essendo, in particolare, compatibile con tale fenomeno la circostanza che l’inizio del distacco coincida con l’assunzione del lavoratore (Cass. 15 giugno 1992, n. 7328, cit.; Cass. 8 febbraio 1985, n. 1013, in “Mass. giur. lav.” 1985, 153; Cass. 20 gennaio 1984, n. 507). E’ tuttavia da escludere la sussistenza di un distacco lecito nel caso in cui l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore distaccato sia finalizzata alla esclusiva destinazione della prestazione a favore di terzi (Cass. 17 marzo 1998, n. 2880).
Nel senso di considerare irrilevante la contemporaneità dell’assunzione del lavoratore distaccato e dell’inizio del distacco si sono espresse anche Cass. 1° febbraio 1988, n. 877, cit., e Cass. 13 aprile 1987, n. 3684, cit..
Nel senso che la temporaneità del distacco non implica né una durata più o meno lunga del distacco o la brevità di esso né la predeterminazione della durata stessa, essendo da considerare sufficiente che il distacco duri per il tempo in cui persista l’interesse del distaccante v. anche Cass. 17 marzo 1998, n. 2880, cit.; Cass. 21 maggio 1998, n. 5102, cit.; Cass. 2 gennaio 1995, n. 5, cit.; Cass. 15 giugno 1992, n. 7328, cit.; Cass. 19 marzo 1991, n. 2893, in “Not. giurispr. lav.” 1991, 640; Cass. 8 febbraio 1988, n. 1325, in “Not. giurispr. lav.” 1988, 648; Cass. 13 aprile 1987, n. 3684, cit.; Cass. 1° febbraio 1988, n. 877, cit., confermativa della pronuncia, con la quale il giudice del merito aveva escluso che la notevole durata del distacco all’estero avesse determinato una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro conseguente alla risoluzione del rapporto di lavoro originario ed alla costituzione di un nuovo rapporto con il distaccatario; Cass. 20 gennaio 1987, n. 501, che, con riferimento al caso di specie di un lavoratore assunto direttamente dal distaccatario dopo un periodo di distacco, ha escluso la violazione del divieto di interposizione a motivo della lunga durata del distacco e della contestualità di esso con la prima assunzione, escludendo anche, in mancanza di un trasferimento di azienda, che vi fosse stata la prosecuzione del rapporto con il nuovo datore di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c.; Cass. 23 maggio 1984, n. 3159, in “Or. giur. lav.” 1985, 240; Cass. 7 novembre 1983, n. 6581; Cass. 5 novembre 1983, n. 6544, cit.; Cass. 17 giugno 1983, n.4188, cit.; Cass. 11 giugno 1983, n. 4036.
Quando la cessazione del distacco derivi dall’estinzione del rapporto di lavoro con il distaccante, la mancata revoca esplicita del distacco stesso non può aver rilievo al fine di escluderne la configurabilità (Cass. 23 agosto 1996, n. 7762, cit.).

2.2.3 Necessita’ o meno del consenso del lavoratore

Nella giurisprudenza della S.C. non si riscontra un orientamento univoco in merito alla possibilità di disporre il distacco senza il consenso del lavoratore. Cass. 7/11/00, n. 14458, pres. Amirante, (in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 968) tuttavia ritiene che il lavoratore non possa rifiutare legittimamente il distacco, quale conseguenza del dovere di obbedienza ex art. 2104 c.c.
Nella sentenza 26 maggio 1993, n. 5907, cit., la S.C. ha affermato che la necessità del consenso del lavoratore è una diretta conseguenza della natura del rapporto e dell’oggetto della prestazione che tanto più appare qualificata tanto meno sembra suscettibile, in assenza di un previo consenso del lavoratore, di una modificazione tanto profonda da implicare la sostituzione del destinatario della prestazione e la attribuzione ad esso dei poteri direttivi e disciplinari, senza che ciò incida sulla professionalità del prestatore d’opera. Dopo aver osservato che per le mansioni particolarmente qualificate, come quelle direttive, il datore di lavoro non ha interesse a disporre un distacco non gradito al lavoratore, la S.C. ha espresso l’avviso che nelle prestazioni di mera esecuzione la modificazione del destinatario delle prestazioni deve ritenersi irrilevante per il lavoratore, in assenza di motivazioni illecite (sindacali, razziali, politiche, ecc.) o di apprezzabili modificazioni di modalità di esecuzione (prolungata permanenza o trasferimento all’estero) o ancora di un regime regolamentare.
Si sono espresse nel senso che il rifiuto del lavoratore è legittimo se nella prestazione di lavoro vi è una qualificazione intuitus personae Cass. 23 maggio 1981, n. 1921 (in “Dir. lav.” 1982, II, 41, con nota di FONTANA, ed in “Not. giurispr. lav.” 1981, 347), nonché, ma solo incidentalmente, Cass. Sez. Un.15 febbraio 1979, n. 982 (in “Giust. civ.” 1979, I, 1477, con nota di VENTRELLA, in ” Foro it. 1979, I, 616, ed in “Foro amministrativo” 1979, I, 1, 1793). Ha ammesso, in linea generale, la sussistenza del potere del datore di lavoro di destinare il lavoratore a prestare la propria attività presso terzi anche senza bisogno di espressa pattuizione, ritenendo tuttavia che le modalità stesse di esecuzione della prestazione o un interesse giuridicamente apprezzabile del lavoratore sotto il profilo personale e fiduciario e dell’intuitus personae possono giustificare, in casi particolari, il rifiuto del lavoratore Cass. 4 settembre 1970, n. 1189 (in “Foro it.” 1970, I, 2463, ed in “Dir. lav.” 1971, 187).
L’orientamento, secondo il quale è necessario il consenso del lavoratore, dovendosi escludere un potere unilaterale di distacco presso altra azienda da parte del datore di lavoro è prevalentemente riscontrabile nella giurisprudenza meno recente (Cass. 6 giugno 1990, n. 5406, cit.; Cass. 22 gennaio 1987, n. 614, cit.; Cass. 12 novembre 1984, n. 5708, cit.; Cass. 23 maggio 1984, n. 3159, cit.; Cass. 5 gennaio 1984, n. 45; Cass. 16 luglio 1983, n. 4918; Cass. 4 aprile 1981, n. 1921, cit.; Cass. Sez. Un. n. 982/1979, cit.; Cass. 21 novembre 1978, n. 5427; Cass. 4 settembre 1970, n. 1189, cit.).
Ove l’apposizione di un termine alla durata del distacco all’estero non sia stato pattuito nell’esclusivo interesse del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di sopravvenienza di esigenze aziendali che non consentano la prosecuzione del distacco, può disporre il richiamo anticipato in Italia del lavoratore stesso senza dover continuare a corrispondergli il trattamento erogato in ragione del luogo di esecuzione della prestazione (Cass. 25 agosto 1987, n. 7016).
Nella giurisprudenza dei giudici di merito, il Pretore di Rieti, aderendo all’orientamento che ritiene necessario il consenso del lavoratore solo nel caso di mansioni “particolarmente qualificate”, ha ritenuto tali mansioni riferibili solo al “personale avente spiccato rilievo nell’ambito dell’azienda per autonomia decisionale, rappresentatività e responsabilità, che ricopra quindi i vertici della stessa e che ricomprenda, conseguentemente, un numero assai limitato di soggetti”, come ad es. il direttore generale, ed ha escluso che tali caratteristiche fossero riscontrabili nel caso di specie, concernente un funzionario di una Banca popolare con funzioni di direttore distaccato presso la società capogruppo, atteso che il personale con qualifica di “funzionario”, sebbene abbia una sua autonomia ed un suo prestigio nell’ambito aziendale, è pur sempre soggetto a limiti di autonomia e direttive dei superiori gerarchici ed esplica mansioni “qualificate” ma non definibili come “particolarmente qualificate” (sentenza 26 marzo 1997 in “Not. giur. lav.” 1997, 359).
Secondo il Pretore di Roma (sentenza del 22 ottobre 1993 in “Riv. crit. dir. lav.” 194, 913), la legittimità del distacco presuppone il consenso del lavoratore, potendosi altrimenti ritenere che l’allontanamento del lavoratore dal proprio posto di lavoro disposto dall’imprenditore sia interpretabile come atto compiuto in frode alla legge, onde aggirare la disciplina in materia di sanzioni disciplinari e di licenziamento per giustificato motivo obiettivo.
Il Pretore di Milano ha ritenuto ammissibile, con ordinanza, la tutela in via d’urgenza di un lavoratore licenziato per aver rifiutato un distacco comportante una modificazione apprezzabile della sede di lavoro, che lo rendeva assoggettabile ai limiti stabiliti per il trasferimento dall’art. 2103 c.c., e che appariva notevolmente pregiudizievole per fondamentali interessi di carattere personale e familiare del lavoratore stesso (Pret. Milano 30 maggio 1994, in “Dir. lav.” 1995, II, 111, con nota di DE FALCO).

2.2.4 Assunzione del lavoratore distaccato alle dirette dipendenze del terzo distaccatario

Nel caso in cui un lavoratore in posizione di comando o distacco presso un soggetto diverso dal proprio datore di lavoro venga direttamente assunto da tale soggetto si realizza la costituzione di un nuovo rapporto con estinzione di quello precedente e non già la prosecuzione dell’originario rapporto di lavoro, senza che rilevi la lunga durata del pregresso distacco (Cass. 12 aprile 1990, n. 3102; Cass. 20 gennaio 1987, n. 501, cit.; Cass. 25 ottobre 1983, n. 6296; Cass. 27 giugno 1980, n. 4042, per la quale non rileva la mancanza di un intervallo temporale tra i due rapporti; Cass. 22 marzo 1980, n. 1937; Cass. 21 novembre 1978, n. 5427, cit.).
La prestazione successiva della propria attività da parte dello stesso lavoratore presso società, tra le quali intercorre un collegamento implicante la proprietà delle azioni di una di esse da parte dell’altra e la gestione coordinata delle attività economiche, non dà luogo ad un unico rapporto di lavoro, ma a rapporti distinti, ove non sia configurabile un trasferimento di azienda tra le società stesse oppure un comando o distacco del dipendente di una società presso l’altra (Cass. 2 dicembre 1985, n. 6023; Cass. 7 agosto 1982, n. 4435, cit.). La configurabilità di una prosecuzione del rapporto di lavoro a norma dell’art. 2112 c.c. è stata esclusa in fattispecie, nelle quali i datori di lavoro distaccatario avevano assunto direttamente lavoratori in precedenza distaccati presso di loro da altri datori di lavoro, senza che fosse stata trasferita alcuna organizzazione aziendale (Cass. 5 novembre 1983, n. 6544, cit.; Cass.11 agosto 1981, n. 4903, in “Or. giur. lav.” 1982, 226; Cass.13 maggio 1981, n. 3150, cit.; Cass. 17 marzo 1981, n. 1572; Cass. 17 marzo 1981, n. 1560, in “Mass. giur. lav.” 1981, 335, con nota di MAGRINI, ibidem 1982, 73, ed in “Not. giurispr. lav.” 1981, 246; Cass. 27 giugno 1980, n. 4042, cit.; Cass. 4 aprile 1980, n. 2233; Cass. 17 marzo 1981, n. 1566, per la quale, tenuto conto della diversità dei datori di lavoro, la configurabilità di un unico rapporto di lavoro resta preclusa anche sotto il profilo di un licenziamento e di una riassunzione rivolti al fraudolento frazionamento dell’anzianità; Cass. 27 maggio 1981, n. 3490 (in “Mass. giur. lav.” 1981, 740, ed in “Riv. giur. lav.” 1981, II, 861), per la quale, così come per Cass. 25 ottobre 1983, n. 6296, cit., la continuità delle prestazioni lavorative prima alle dipendenze del distaccante e poi alle dirette dipendenze del distaccatario non è di per sé sufficiente a rendere applicabile l’art. 2112 c.c).
L’invio di propri dipendenti, fin dall’assunzione a tempo indeterminato, da parte di una cooperativa configura un comando o distacco lecito e non contravviene al divieto di interposizione posto dall’art. 1, l. n. 1369/60, se in capo al distaccante esiste e persiste un interesse di natura anche non economica, ma solidaristica (fattispecie relativa al distacco di tre dipendenti a favore del patronato ACLI da parte di una cooperativa promossa dalla sezione provinciale delle ACLI) (Cass. 17/1/00, n. 594, pres. Santojanni, est. Guglielmucci, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 407, con nota di Carinci, Sulla distinzione tra distacco lecito e interposizione: ha rilievo la natura dell’interesse del distaccante?)

3. Il demansionamento

L’ipotesi del demansionamento, ossia dell’attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle per lo svolgimento delle quali è stato assunto o che venivano dal medesimo eseguite da tempo, ricorrente nella pratica anche in condizioni di crisi o ristrutturazione aziendale, è in linea di massima vietata dalla legge. Il demansionamento, infatti, viene considerato dalla giurisprudenza dominante come lesione della dignità del lavoratore, tutelata dall’art. 41 Cost. e dall’art. 2087 Cod. Civ. Ne consegue il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa, anche se non via sia la prova di conseguenze patrimoniali negative (Cass. Civile, Sezione Lavoro n. 14443 del 6 novembre 2000, Pres. Trezza, Rel. Mammone). Nel caso venuto all’esame della Superma Corte, D.V., dipendente della Manetti & Roberts con qualifica di quadro, è stato per due volte licenziato e in entrambi i casi ha ottenuto dal Pretore di Firenze l’annullamento del licenziamento, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. L’azienda, dopo averlo richiamato in servizio, lo ha lasciato privo di mansioni in condizioni di emarginazione dall’attività lavorativa. Pertanto D.V. si è rivolto nuovamente al Pretore chiedendogli, tra l’altro, la condanna dell’azienda al risarcimento del danno professionale per la privazione dell’attività lavorativa subita dopo essere stato richiamato in servizio. Il Pretore ha ritenuto che l’azienda abbia violato l’art. 41 Cost. Rep., che impone all’iniziativa economica privata di non recare danno alla dignità umana, nonché l’art. 2087 cod. civ. che prescrive al datore di lavoro di rispettare la personalità morale dei dipendenti; conseguentemente ha condannato l’azienda al risarcimento del danno determinandolo, in via equitativa, in misura di lire 37 milioni.Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Firenze, che ha peraltro escluso il diritto del lavoratore ad un ulteriore risarcimento per mancato avanzamento di carriera, in quanto ha ritenuto che sul punto il lavoratore non abbia fornito la prova.
La Suprema Corte ha rigettato i ricorsi proposti da entrambe le parti contro la sentenza di secondo grado, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente motivato la sua decisione. Con riferimento al danno professionale la Corte ha osservato che esso può ravvisarsi sia nella lesione della dignità del lavoratore sia nella perdita di possibilità di avanzamento e che in questo caso i giudici di merito, pur escludendo che sia stata data la prova del pregiudizio di carriera, hanno esattamente ravvisato, nella lesione della personalità del lavoratore, un pregiudizio da risarcirsi in via equitativa. Il demansionamento professionale – ha osservato la Corte – dà luogo ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Infatti, il demansionamento non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., (che afferma il diritto del lavoratore di svolgere l’attività che gli compete) ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con indubbia dimensione patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa. L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere materiale – ha affermato la Corte – consente di ritenere che la mortificazione della professionalità del lavoratore possa dar luogo a risarcimento anche se non venga fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale. Alle stesse conclusioni è pervenuto Tribunale Civile di Roma, Sezione Lavoro I grado, 18 aprile 2000, Est. Buonassisi, nel caso di dequalificazione professionale dell’annunciatore televisivo, la quale può configurarsi in caso di assegnazione a mansioni di assistente alla regia. Giurisprudenza ancor più recente, in senso conforme alle pronunce riportate sopra, è rappresentata da Cassazione Sezione Lavoro n. 14189 del 14 novembre 2001 (Pres. Prestipino, Rel. Putaturo Donati Viscido) e da Corte di Appello di Roma, 18 settembre 2000 (Pres. Bronzini, Rel. Pecora), che ha affermato che il dirigente del servizio legale di una banca subisce un’illegittima dequalificazione, se viene destinato con le stesse mansioni ad una filiale per la minore importanza del nuovo incarico.

3.1. Deroghe al divieto di dequalificazione professionale

Il lavoratore puo’ essere destinato a mansioni inferiori per evitare il licenziamento se dimostra di essere disponibile a un patto di demansionamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 16106 del 21 dicembre 2001, pres. Ianniruberto, rel. Prestipino). Vincenzo a., dipendente della s.p.a. Guida Monaci con qualifica di quadro e con mansioni di responsabile amministrativo, è stato licenziato per soppressione del suo posto di lavoro. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al pretore di roma sostenendo, tra l’altro, che l’azienda avrebbe potuto evitare il licenziamento assegnandogli mansioni inferiori a quelle proprie della sua qualifica. sia il pretore che il tribunale di roma hanno ritenuto legittimo il licenziamento, affermando, tra l’altro, che in base all’art. 2103 cod. civ., che tutela la professionalità del lavoratore, all’azienda non era consentito assegnare a vincenzo a. mansioni inferiori a quelle spettantigli per la sua qualifica. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che l’esigenza di tutela del diritto al lavoro prevale su quella del mantenimento della professionalità acquisita. La suprema corte (sezione lavoro n. 16106 del 21 dicembre 2001, pres. ianniruberto, rel. Prestipino) ha rigettato il ricorso, affermando che, al fine di evitare un licenziamento, si può derogare al divieto, posto dall’art. 2103 cod. civ., di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, solo quando fra il dipendente e il datore di lavoro intervenga un patto di demansionamento. Per poter far valere tale possibilità il dipendente deve dimostrare di avere manifestato al datore di lavoro, la disponibilità all’esercizio di mansioni inferiori, in una determinata posizione lavorativa e di non aver potuto raggiungere un accordo in tal senso per ostacoli ingiustificatamente frapposti dall’azienda con comportamento non improntato a buona fede. la corte ha rilevato che, nel caso in esame, il lavoratore non aveva indicato quale posizione avrebbe potuto essergli assegnata, né era emerso che fosse stata avviata una trattativa in materia, pertanto ha ritenuto che il Tribunale di Roma abbia applicato correttamente la legge.

[1] Il presente articolo non impegna l’istituto di credito di appartenenza. Opinioni espresse ed eventuali errori nella redazione sono da attribuire esclusivamente all’autore.

Redazione

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