Università degli Studi di Salerno
Facoltà di Giurisprudenza
Relatore: Ch.mo Prof Luigi Kalb
Candidata: Francesca Fittipaldi
Anno Accademico 1999 – 2000
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Capitolo III
IL MINORE NELLA FASE ESECUTIVA:
MODIFICHE ED INTEGRAZIONI ALLA NORMATIVA ORDINARIA PER UNA DISCIPLINA CALIBRATA SULLA SPECIFICITÀ DEL CONDANNATO.
3.1 Gli epiloghi del procedimento penale minorile.
È emerso chiaramente, nel corso della trattazione fin qui svolta circa la posizione del minore nel processo penale, che la condizione di minore età dell’imputato comporta ed impone corpose particolarità di trattamento sia nel rito, sia nei possibili esiti.
Quanto alle possibili definizioni del processo e, dunque, al sistema sanzionatorio ed alle sue alternative l’imputato minorenne può godere:
– di formule di proscioglimento particolari, aggiuntive rispetto a quelle
in punto di imputabilità, quali:
. l’irrilevanza del fatto (art. 27 d.P.R. n. 448/1988);
. l’estinzione del reato per esito positivo della prova (artt. 28 e 29 d.P.R. n. 448/1988);
. la concessione del perdono giudiziale (art. 169 cp);
– di una più estesa applicabilità delle sanzioni sostitutive (art. 30 d.P.R. n. 448/1988).
Tra le formule definitorie del processo penale minorile meritano, dunque, osservazioni particolari:
– la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto è una delle novità più radicali del rito minorile (1) tanto più discussa perché oggetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale per eccesso di delega – sentenza n. 250/1991 Corte Cost. – superata, in breve tempo, dalla reintroduzione della misura indulgenziale con legge n. 123/1992. La declaratoria di improcedibilità
per irrilevanza del fatto, allo scopo di privilegiare le esigenze educative del minore, è emessa allorché il fatto ascritto – privo di significato criminoso e di concreto allarme sociale – sia tenue o il comportamento sia occasionale e, in entrambi i casi, l’ulteriore corso del procedimento penale possa pregiudicare le esigenze educative dell’imputato minorenne. L’art. 27 d.P.R. n. 448/1988, qualora ricorrano le suddette condizioni, che non presentano difficoltà interpretative (2), persegue una finalità deflattiva con uno strumento che privilegia la rinuncia della potestà punitiva di fronte a fatti sostanzialmente inoffensivi.
La irrilevanza del fatto è, dunque, dichiarata quando manca un’apprezzabile lesione del bene giuridico penalmente protetto e cioè quando quella lesione è quantitativamente inferiore al livello minimo meritevole di concreta sanzione. Il fatto qualitativamente corrisponde alla previsione normativa di reato, sicché per esso deve essere comunque formalmente promossa l’azione penale, essendo questa obbligatoria (art. 112 Cost.). L’esercizio dell’azione impedisce l’archiviazione e il processo deve essere definito con sentenza nel merito del fatto-reato.
L’irrilevanza del fatto non può, per contro, essere dichiarata se non quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne. Il processo è sempre fonte di sofferenza e rappresenta un pregiudizio per il minore; pertanto, sembra voler dire la norma (3), quando prevalgano esigenze di tutela dello sviluppo educativo rispetto al formale accertamento della responsabilità, già emersa dagli atti, attraverso l’udienza preliminare o il giudizio dibattimentale, il procedimento si deve arrestare. Diversamente, avendo a disposizione una misura di immediata fuoriuscita dal processo, il suo ulteriore corso rappresenterebbe un inutile pregiudizio.
Per chi attribuisce, invece, al processo penale valenze educative la soluzione è un’altra: l’irrilevanza del fatto non potrà essere pronunciata tutte le volte che il processo presenti una sua utilità attraverso occasioni di maturazione e responsabilizzazione (4).
Si è anche sostenuto – da una parte della dottrina (Pepino) – che tale pregiudizio deve essere valutato in astratto e non in concreto, il che rende possibile l’emanazione della sentenza prevista dall’art.27 anche quando il processo sia effettuato dopo che l’imputato ha compiuto la maggiore età, vale a dire quando in concreto sono venute meno le esigenze educative.
Considerata la funzione dell’istituto, l’irrilevanza può essere pronunciata non solo in sede di udienza preliminare – il gup, organo collegiale, adotta la formula dichiara non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, art. 32, comma 1, d.P.R. n. 448/1988 – e dibattimentale, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato – nel rito ordinario o in quelli speciali, la irrilevanza del fatto è affermata dal Tribunale per i minorenni che usa la formula dichiara di non doversi procedere – ma, ancora prima, durante le indagini preliminari – il gip, organo monocratico, pronuncia la stessa formula adottata dal gup, art. 27 d.P.R. n. 448/1988 e art. 26 disp. att. min. – su richiesta del magistrato del pubblico ministero.
– Sospensione del processo e messa alla prova (c.d. probation processuale) è un’altra forma di definizione anticipata del procedimento penale minorile disciplinata dall’art. 28 d.P.R. n. 448/1988 per dare una risposta diversificata al reato commesso dal minore e commisurata alla sua cangiante personalità. Il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo allorquando ritenga di dover valutare la personalità del minorenne (art. 3 lett.e) legge n. 81/1987, cd legge delega al cpp) (5).
Presupposto indispensabile, per la concessione della messa in prova, è il progetto di intervento, elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. La messa alla prova, attuata sulla base del suddetto progetto di intervento sul minore, comporta la periodica valutazione della sua personalità, quale si evolverà nel tempo, anche per effetto delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.
Il periodo di sospensione varia da un massimo di un anno, per i delitti puniti con la pena della reclusione inferiore a dodici anni, ad un massimo di tre anni per i delitti puniti con pena superiore. Nel periodo predetto è sospesa la prescrizione.
La messa alla prova, trovando la sua origine nella probation processuale, diffusamente applicata, con esiti positivi, in molti ordinamenti stranieri, rientra tra i provvedimenti giudiziari che, pur soprassedendo alla detenzione, contengono regole di condotta modificabili e revocabili e con possibilità di nuovo giudizio in caso di inosservanza. Questa misura di probation possiede, dunque, dei contenuti indefettibili di impegno specifico per il minore che possono divenire oggetto di prescrizione, anche dettagliata, per la riparazione delle conseguenze del reato e per la conciliazione con la persona offesa. È evidente, in altri termini, un contenuto affittivo in relazione al quale deve essere ritenuta, virtualmente e preventivamente, la responsabilità penale del minore (6).
Dopo il decorso del periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza l’estinzione del reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritenga che la prova abbia dato esito positivo (art. 29 d.P.R. n. 448/1988). Qualora, invece, la messa alla prova non abbia dato esito positivo si provvede a norma dell’art. 32 d.P.R. n. 448/1988 – svolgimento dell’udienza preliminare – o art. 33 d.P.R. n. 448/1988 – udienza dibattimentale – in quanto la messa alla prova è fondata su un sinallagma (o su un patto) per cui lo Stato rinuncia alla sua pretesa punitiva, sospendendo la prosecuzione del processo, chiedendo in cambio al minore, non solo che si astenga dal compiere reati, bensì un impegno in positivo consistente nell’adesione ad un progetto, secondo un itinerario di crescita e cambiamento, nel rispetto di attività precise e nella collaborazione con gli operatori dei servizi (7).
– Il perdono giudiziale, altro istituto tipico ed esclusivo del diritto minorile – previsto dall’art. 169 cp – perseguendo la finalità di reinserimento sociale del minore, in considerazione del suo preminente interesse ad uscire dal circuito penale, impone al giudice di ricorrervi, in presenza dei presupposti applicativi, rappresentati dalla possibilità di formulare un giudizio di prognosi favorevole sul recupero, tenendo conto dell’osservazione diretta e delle risultanze delle relazioni di servizio sociale. A conferire all’istituto effettività e ruolo di primo piano nella politica giudiziaria minorile è stato l’art. 19 R.d.l. n. 1404/1934 che ha individuato come pena di riferimento quella applicabile in concreto anziché quella edittale. L’opera novellistica è stata completata mediante periodiche rivalutazioni dei limiti della pena pecuniaria fissata, da ultimo, dall’art. 112 della legge 689/1981. Il giudice, quindi, concede il perdono quando ritiene che si possa infliggere una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria – anche se congiunta – non superiore a tre milioni di lire.
L’accesso al perdono giudiziale è limitato a chi non abbia riportato una o più precedenti condanne a pena detentiva per delitto, anche se seguite da riabilitazione – art.164, comma 2, n.1 cp, richiamato dall’art.169, comma 3, cp – e non può essere concesso più di una volta – art. 169, ult. co., cp – salvo i casi di reiterazione introdotti dalla giurisprudenza costituzionale. La Corte costituzionale ha, infatti, mitigato il rigore della concessione del perdono giudiziale con due dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 169 cp. La Corte ha, dunque, introdotto la possibilità di estendere il perdono ad altri reati che si legano col vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio (sentenza n. 108/1973) e di concedere un nuovo perdono in caso di reato commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono e di pena che, cumulata con quella precedente, non superi i limiti per l’applicabilità del beneficio (sentenza n.154/1976). In definitiva, la reiterazione del perdono può avvenire più volte perché si tratta in realtà di un solo beneficio, anche se concesso con sentenze che solo per accidente sono separate e successive (8).
L’applicazione del perdono è, infine, subordinata alla presunzione che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati – art. 169, comma 1, ult. parte, cp – che consisterà, dunque, in una ragionevole previsione formulata alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cp.
Il perdono giudiziale è irrevocabile e non è assoggettabile a condizioni o prove, e qui sta la sua differenza strutturale da istituti di probation per altri versi consimili, in quanto estingue il reato incondizionatamente e istantaneamente, ossia dal momento del passaggio in giudicato della sentenza con la quale se ne fa applicazione.
La sentenza di non doversi procedere per concessione del perdono giudiziale è iscritta nello speciale casellario giudiziale per i minorenni – art. 14 d.P.R. 448/1988 – ed è eliminata al compimento del ventunesimo anno di età della persona alla quale si riferisce – art. 15, comma 2, d.P.R. n. 448/1988 – ciò perché essa è effettuata al solo fine di evitare reiterazioni nella concessione del beneficio e di essa non possono, in nessun caso, essere rilasciate certificazioni se non alla persona cui si riferiscono ed alla autorità giudiziaria (art. 14, ult. co., d.P.R. n. 448/1988).
– Anche in tema di misure sostitutive si evince un segno, non trascurabile, di una tendenza dell’ordinamento ad un adeguamento dell’imperativo penale alla particolare situazione del minore; il d.P.R. n. 448/1988, ha infatti, completamente rivisitato la materia delle sanzioni sostitutive – quanto meno quelle della libertà controllata e della semidetenzione – affermandone, nell’art. 30, comma 1, la generale applicabilità ai minorenni con il solo limite della pena da infliggere in concreto che non deve essere superiore ai due anni (9).
Per quanto riguarda il potere discrezionale del giudice nella sostituzione della pena detentiva, l’autorità giudiziaria minorile non è più vincolata ai margini ristretti indicati dall’art. 58 della legge 689/1981 – che rinviava all’art. 133 cp – ma può tener conto della personalità e delle esigenze di studio e di lavoro del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali (art. 30, comma 1, d.P.R. n. 448/1988). Il giudice, dunque, procedendo alla sostituzione, realizza, anche per questa via, l’adattamento del processo al minore e non viceversa.
Le sanzioni sostitutive possono essere irrogate con la sentenza di condanna del giudice dell’udienza preliminare (art. 32, comma 2, d.P.R. n. 448/1988), del dibattimento (art. 30 d.P.R. n. 448/1988) – nel corso del rito ordinario e di quelli speciali – e nel giudizio di appello.
Successivamente alla sentenza di condanna alla sanzione sostitutiva il magistrato del pubblico ministero trasmette l’estratto della sentenza al magistrato di sorveglianza per i minorenni che provvede in ordine all’esecuzione della sanzione. Il magistrato di sorveglianza competente è quello del luogo di abituale dimora del condannato (art.30, comma 2, d.P.R. n. 448/1988).
Le misure sostitutive – previste dalla legge n. 689/1981 – che vanno applicate tenendo conto della personalità e delle esigenze educative o di vita del minore, sono due:
. la semidetenzione che comporta un obbligo di permanenza in istituto penale – identico a quello previsto per gli adulti – di dieci ore (art. 55 legge n. 689/1981); per le attività esterne, invece, potrà essere previsto per il minorenne l’impiego della rete di servizi polifunzionali diurni indicati all’art. 12 delle disp. att. min.;
. la libertà controllata, prevista dall’art. 56 della legge n. 689/1981, che consente, anch’essa, l’applicazione di una disciplina differenziata rispetto agli adulti ai sensi degli artt. 24 disp. att. min. e 75, comma 2, della legge n. 689/1981: viene cioè eseguita con le modalità della misura penitenziaria dell’affidamento in prova e le funzioni di polizia sono svolte dall’ufficio di servizio sociale per i minorenni.
Le sanzioni sostitutive, come d’altra parte le misure cautelari, quelle alternative, le pene detentive e le misure di sicurezza, si eseguono anche nei confronti di coloro che abbiano, nel frattempo, compiuto i diciotto anni e fino al ventunesimo anno di età. I minori, infine, possono essere ammessi alle misure sostitutive alla pena detentiva anche nel caso in cui siano stati condannati più volte per lo stesso reato. La Corte Cost., infatti, con la sentenza n. 16/1998, ha stabilito, che per i minorenni non valgono gli artt. 59 e 60 della legge n. 689/1981, in cui si fissano le condizioni e le esclusioni soggettive riguardo alla sostituzione delle pene detentive e, in ogni caso, si dovrà far riferimento al caso concreto di ciascuno e alle relative necessità di rieducazione. Conseguentemente si è dichiarata l’illegittimità dell’art. 59 della legge n. 689/1981 nella parte in cui non esclude che le condizioni soggettive in esso previste per l’applicazione delle sanzioni sostitutive si estendano agli imputati minorenni in quanto contrastante con gli artt. 31, 27 e 3 della Costituzione poiché preclude ogni valutazione del caso concreto, tanto da impedire la realizzazione della specifica funzione rieducativa perseguita dalle sanzioni sostitutive.
Cadono, in questo modo, i limiti oggettivi e soggettivi stabiliti dagli artt. 59 e 60, della legge n. 689/1981, che operano, quindi, solo per gli adulti.
La grande ricchezza di opportunità processuali, emersa da questa breve trattazione sulle possibili formule terminative che il giudice minorile può adottare, rappresenta una rilevante novità nel sistema penale minorile che si evolve nel tempo per fornirsi di strumenti (10) – processuali e sostanziali – da utilizzare al meglio per rispondere alle multiformi situazioni proposte da ciascun imputato minorenne. Sarà affidata, poi, alla capacità effettiva di tutti gli operatori l’applicazione dei giusti criteri di orientamento nella scelta in concreto delle formule terminative (11).
3.2 Nell’attuazione dei provvedimenti a contenuto sanzionatorio
penale, l’obiettivo del differenziato procedimento esecutivo.
Anche nel procedimento penale a carico del minore, quando la sentenza è passata in giudicato – cioè divenuta definitiva essendo state esaurite le impugnazioni o essendovi stata acquiescenza – si apre la fase esecutiva cioè di espiazione della pena inflitta.
Poiché le caratteristiche salienti del regime correlativo sono comuni anche al procedimento riservato agli adulti, prima di esaminare nel concreto la disciplina, è doverosa una brevissima disamina del fenomeno esecutivo penale.
L’esecuzione penale deve essere intesa come il complesso delle attività che costituiscono ed integrano quella fase del processo all’interno della quale si realizzano le condizioni formali che consentono al comando di tipo sanzionatorio penale, contenuto nel provvedimento terminativo del processo sul fatto, la responsabilità e la pena, di divenire operativo e di continuare ad esserlo nei suoi limiti ed estremi originari; nonché si assumono e si eseguono i provvedimenti che, a seguito dell’applicazione delle misure alternative o del controllo sull’esistenza e persistenza della pericolosità sociale importano la modificazione della pena e delle misure di sicurezza irrogate dal predetto comando. Le modificazioni in questione conseguono all’emissione da parte di un giudice specializzato – vale a dire la magistratura di sorveglianza, composta dal magistrato di sorveglianza e dal tribunale di sorveglianza – di provvedimenti adottati all’esito di un procedimento avente ad oggetto l’adeguamento della pena o della misura di sicurezza ai risultati del trattamento o del controllo sull’esistenza o il permanere della pericolosità.
È pertanto possibile distinguere all’interno del procedimento esecutivo una fase, tipicamente amministrativa, nel corso della quale si opera per l’attuazione del comando contenuto in un titolo esecutivo ed una fase, di giurisdizione esecutiva, che opera, invece, in funzione di controllo, verifica e garanzia delle attività procedimentali esecutive e del raggiungimento dei fini dell’esecuzione stessa. La giurisdizione esecutiva,data la complessità dei suoi contenuti, è poi suddivisa, quanto alle specifiche competenze, tra due giudici diversi: il giudice dell’esecuzione, cui è affidato il compito di operare in sede di controllo e verifica dei presupposti e delle condizioni di legittimità delle attività di attuazione del comando; la magistratura di sorveglianza cui è affidato essenzialmente il compito di operare in sede di controllo e verifica del permanere della rispondenza tra contenuto sanzionatorio del comando e il fine rieducativo assegnato allo stesso. Entrambi questi giudici operano con forme comuni e tra loro coordinate, descritte rispettivamente all’art. 666 cpp per il giudice dell’esecuzione e all’art. 678 cpp per la magistratura di sorveglianza e denominate, altrettanto rispettivamente, procedimento di esecuzione e procedimento di sorveglianza.
Tuttavia, la scelta di politica minorile – volta ad adeguare e specializzare ogni fase del procedimento penale minorile (compresa, dunque, quella esecutiva) – emerge chiaramente dall’art. 3 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, che richiama il nuovo processo penale come criterio guida per il legislatore delegato a disciplinare il processo a carico degli imputati minorenni, individuando, nello stesso, la cornice – ampia, ma univocamente caratterizzata – nella quale introdurre le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione, in parte specificate nella elencazione – sicuramente non esaustiva – delle direttive previste nella seconda parte della stessa norma. Per quanto concerne la fase esecutiva i criteri specificamente dettati dal legislatore delegante ineriscono: il dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore sotto l’aspetto psichico, sociale ed ambientale – lett.e) – l’attribuzione al magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni e al tribunale per i minorenni di tutti i poteri della magistratura di sorveglianza – lett.n) – l’istituzione, presso ogni tribunale per i minorenni, di uno speciale casellario per l’iscrizione dei provvedimenti penali adottati nei confronti dei minorenni – lett.o) – sempre in ossequio al fine di realizzare un sistema differenziato anche in materia di esecuzione penale minorile.
Le direttive prescritte dall’art. 3 della legge-delega n. 81/1987 sono tradotte normativamente dall’art. 1 d.P.R. n. 448/1988 – coordinato anche con l’art. 1 disp. att. min. – che stabilisce, al comma 1, la regola della sussidiarietà nell’applicazione delle norme del codice di procedura penale, sia pure con il particolare richiamo alla loro compatibilità con la personalità e le esigenze educative del minorenne.
Anche nel corso della fase esecutiva del procedimento penale minorile è, dunque, necessario ricorrere – in via sussidiaria, relativamente a ciò che non risulta dalla specifica disciplina adottata per i minorenni – alle previsioni del codice di rito penale e alle disposizioni concernenti la sua attuazione nonché, proprio per la specificità della fase processuale cui si fa riferimento, alla legge 26 luglio 1975 n. 354 (ord. penit.) – e alla legge di modifica del 10 ottobre 1986 n. 663 (c.d. legge Gozzini) – che contiene la normativa fondamentale in punto di esecuzione della pena e delle misure di sicurezza e che, all’art. 79, estende espressamente, in via provvisoria, la sua applicazione ai minori sottoposti a misure penali fino all’emanazione di un’apposita legge, di cui si è ancora in attesa! È necessario sottolineare che, il rinvio al complesso normativo risultante dalla legge 354/1975, deve, tuttavia, imprescindibilmente coniugarsi con lo ius superveniens in materia minorile determinato anche dalle numerose pronunce di incostituzionalità (12) dovute alla inadeguatezza delle norme censurate rispetto allo specifico del penitenziario minorile.
È evidente, dunque, che, nonostante la scelta legislativa, le fonti normative richiamate non consentono di individuare un regime esecutivo minorile unitario che, viceversa, risulta parallelo a quello riservato per gli adulti sebbene con alcuni ampliamenti e specialità.
Considerando, ora, nello specifico, i vari momenti caratterizzanti il procedimento esecutivo occorre subito rilevare che, l’art. 648 cpp, individuando nell’irrevocabilità la caratteristica del titolo esecutivo penale, scolpisce il passaggio dal processo di cognizione al procedimento esecutivo che si attiva, dunque, a seguito della formazione di un giudicato, ad iniziativa del magistrato del pubblico ministero cui, l’art. 655 cpp, attribuisce il potere-dovere di svolgere ex officio una funzione amministrativa per porre in attuazione il titolo esecutivo penale. L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali nei confronti del condannato minorenne non può che spettare, dunque, al procuratore della Repubblica per i minorenni, ossia a quell’ufficio autonomo istituito presso l’omologo tribunale (artt. 2 e 70, comma 1, ord. giud.) al quale sono attribuiti tutti i poteri che le leggi conferiscono all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale ordinario (art. 4, comma 3, R.d.l. n. 1404/1934, artt. 73, comma 1, e 78, comma 1, ord. giud.).
La competenza esecutiva del magistrato del pubblico ministero è una competenza di carattere funzionale che ha come riferimento per la sua individuazione, altra competenza funzionale e cioè quella del giudice dell’esecuzione, ai sensi degli artt. 655 e 665 cpp. L’art. 665, comma 1, cpp indica, infatti, il giudice che ha deliberato il provvedimento quale giudice competente a conoscere dell’esecuzione dello stesso. Il magistrato del pubblico ministero minorile sarà, dunque, individuato sulla base di un giudizio prognostico che, tuttavia, si aggancia direttamente alla precedente fase del giudizio – la fase cognitiva – nella quale lo stesso giudice dell’esecuzione – quale giudice della cognizione – ha operato.
Tra il ruolo del magistrato del pubblico ministero ordinario e quello minorile non vi sono, apparentemente, differenze. Nell’ambito dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali penali, infatti, il magistrato del pubblico ministero minorile, al pari di quello ordinario, gestisce i momenti dell’esecuzione delle pene detentive (art. 656 cpp) (13); del computo della
custodia cutelare e delle pene espiate senza titolo (art.657 cpp); della riduzione dei condoni applicati da vari giudici all’insaputa l’uno dell’altro (art. 657, comma 2, ult. inciso, cpp); del provvedimento di cumulo delle pene (art. 663 cpp); della revoca o della eliminazione dei benefici che possono derivare dalla posizione processuale del condannato. Se si procede oltre nell’esame del libro X del codice di procedura penale si constata, però, che spetta al magistrato del pubblico ministero anche l’esecuzione delle misure di sicurezza (art. 658 cpp) rispetto alle quali il magistrato di sorveglianza ha poteri di ufficio (art. 679 cpp); mentre, esaminando il d.P.R. n. 448/1988, si rileva che, in materia minorile, l’esecuzione delle misure di sicurezza (14) è, invece, di competenza del magistrato di sorveglianza per i minorenni (art. 40 d.P.R. n. 448/1988), cui spetta anche l’esecuzione delle sanzioni sostitutive (art. 30, comma 2, d.P.R. n. 448/1988) (15). Cosicché risulta evidente che, nella materia delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurezza, il magistrato del pubblico ministero minorile svolge il suo normale ruolo di parte richiedente ed impugnante essendo affidata al giudice, cioè al terzo, l’esecuzione di provvedimenti – e, dunque, quelle operazioni – che incidono direttamente sulla libertà personale.
Emerge, da ciò, la differenziazione, necessaria e doverosa, tra regime adottato per l’adulto e regime adottato per il minore. La scelta del legislatore di adoperare due pesi e due misure – nell’ambito dei procedimenti di esecuzione delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurezza – è stata dettata dalla diversità del soggetto nei cui confronti si opera: il minore è a personalità in evoluzione; l’adulto è a personalità definita, cosicché, se il momento rilevante per il secondo può ben essere quello della pronuncia del provvedimento, il momento rilevante per il primo non può essere che quello dell’effettiva esecuzione, se non addirittura di ogni singolo giorno dell’esecuzione.
La giurisdizionalizzazione anche dell’esecuzione delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurezza, nei confronti dei minori, risponde, in ultima analisi, alla consapevolezza che a tutela del diritto del minore a camminare secondo i normali ritmi di crescita dei suoi coetanei ed a costruire i gradini della sua personalità in modo corretto, occorre un giudice che non si fermi al fatto nel suo momento temporale e che invece lo valuti con una visione proiettata verso il futuro di quel singolo minore, e di conseguenza un giudice che moduli le misure penali e parapenali non solo secondo l’età e le esigenze del minore, ma soprattutto in modo mirato alla corretta formazione della personalità del minore soggetto al suo esame.
Se è vero, dunque, che anche il magistrato del pubblico ministero minorile opera ex officio, svolgendo una funzione tendenzialmente amministrativa, per curare l’esecuzione dei provvedimenti (art. 655 cpp), i suoi atti non sono impugnabili, ma sottoponibili, viceversa, a controlli giurisdizionali che impongono l’intervento di un giudice – il giudice dell’esecuzione – cui è demandato il compito di gestire il controllo sul titolo esecutivo ossia di effettuare la verifica dei presupposti e delle condizioni di legittimità delle attività di attuazione del comando. Qualora il titolo sia eseguibile nei confronti del condannato minorenne, il controllo su di esso spetta al Tribunale per i minorenni (16) che opera, in base al combinato disposto delle norme già richiamate (art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988 e art. 665, comma 1, cpp), in veste di giudice dell’esecuzione. Nelle ipotesi, previste dai commi 2 e 3 dell’art. 665 cpp, di provvedimento emesso in grado di appello che abbia riformato la pronuncia di primo grado – operando quella che la giurisprudenza ha definito rielaborazione sostanziale della sentenza appellata (quindi al di là della mera riforma qoad poenam o in punto di misure di sicurezza o di disposizioni civili) – oppure, a seguito di ricorso per cassazione, nel caso in cui il mezzo di impugnazione non sia stato dichiarato inammissibile o rigettato perché proposto contro provvedimento inappellabile o, ancora, qualora non si sia proposto ricorso per saltum (a norma dell’art.569 cpp), giudice dell’esecuzione competente è, invece, la sezione di corte d’appello per i minorenni (17). Infine, ai sensi del comma 4 dell’art. 665 cpp, se l’esecuzione concerne più provvedimenti adottati da diversi giudici, ugualmente specializzati, la competenza è attribuita all’organo che ha emesso quello divenuto irrevocabile per ultimo.
È importante rilevare che, un ulteriore criterio per individuare il giudice dell’esecuzione competente emerge indirettamente dal d.P.R. n. 448/1988 e, in particolare, dall’art. 32, comma 2, che consente al giudice dell’udienza preliminare di pronunciare – a seguito del giudizio abbreviato o dell’emissione di uno dei provvedimenti conclusivi dell’udienza stessa (18) – sentenza di condanna suscettibile, quindi, di acquisire forza esecutiva a seguito della sopraggiunta irrevocabilità. La diversa composizione del tribunale per i minorenni, in questa specifica fase del giudizio (19), con la prevalenza della componente laica – un magistrato e due giudici onorari (art. 50-bis, comma 2, ord. giud.) – si manifesta, dunque, anche nella fase, successiva, dell’esecuzione ed in particolar modo nell’intervento giurisdizionale assolto dal giudice dell’esecuzione.
Il procedimento di esecuzione, descritto nelle sue linee essenziali nell’art. 666 cpp, è messo in moto dalla richiesta del magistrato del pubblico ministero, dell’interessato o del difensore. Nella prima ipotesi è chiaro che, nel caso specifico di condannato minorenne, interverrà il magistrato del pubblico ministero minorile.
Il giudice dell’esecuzione decide con il procedimento di esecuzione su ogni questione che sorga nel corso dell’esecuzione medesima e che non consenta il proseguimento della detta esecuzione: quando sia dubbia l’identità fisica dell’arrestato (art.667 cpp), quando una persona sia stata condannata per
errore (art. 668 cpp), quando ci sia stata violazione del ne bis in idem (artt. 669 e 649 cpp), nell’ipotesi di revoca dei benefici concessi (art. 674 cpp) ecc.
È importante sottolineare che il giudice dell’esecuzione ha rilevanti margini di iniziativa in ordine alla risoluzione delle controversie che possono sorgere nel corso dell’esecuzione, nel senso che può svolgere tutte le indagini che ritiene necessarie e che sono di importanza notevole ove si tenga presente che può anche apportare sostanziali modifiche alle pene inflitte dal giudice di cognizione attraverso il meccanismo ad esempio del concorso formale dei reati e della continuazione che può essere, appunto, riconosciuto anche in sede esecutiva (art. 671 cpp).
Senza poter affermare che il legislatore si è orientato verso il processo bifasico di tipo anglosassone, che prevede da un lato la sola affermazione della responsabilità dell’imputato da parte del giudice della cognizione e dall’altro che la pena sia irrogata in un momento successivo con specifico riferimento alla sua personalità e pericolosità, certamente il giudice dell’esecuzione ha poteri di intervento incisivi in materia.
Comunque l’adeguamento della sanzione inflitta alla tendenziale finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato – a maggior ragione se minorenne – costituisce il contenuto dell’intervento della magistratura di sorveglianza che, mediante molteplici strumenti offerti dall’ordinamento penitenziario, può incidere proficuamente e profondamente nell’esecuzione della sanzione punitiva irrogata dal giudice di cognizione effettuando quell’intervento giurisdizionale volto al controllo sul trattamento penitenziario ovvero della verifica del permanere della rispondenza tra contenuto sanzionatorio del comando ed il fine rieducativo assegnatogli.
Anche la magistratura di sorveglianza, nel rispetto del principio di specializzazione degli organi preposti al funzionamento della giustizia minorile, presenta una struttura differenziata: essa è costituita dal magistrato di sorveglianza per i minorenni e dal tribunale per i minorenni (art. 2 lett.f) e art. 3, comma 2, d.P.R. n. 448/1988). Il tribunale per i minorenni, nell’esercizio delle funzioni del tribunale di sorveglianza, giudica nella sua composizione naturale, con la sola novità della partecipazione, quale componente togato, del giudice che assolve alle funzioni di magistrato di sorveglianza; quest’ultimo, infatti, ai sensi dell’art. 51 ord. giud., risulta essere il giudice addetto al tribunale per i minorenni. È chiaro, dunque, a questo punto, anche il motivo della previsione contenuta nell’art.79, comma 3, ord. penit. che esclude, con riferimento al magistrato di sorveglianza per i minorenni, il rispetto della prescrizione contenuta nell’art. 68, comma 4, ord. penit. – la quale preclude ai magistrati che esercitano funzioni di sorveglianza di essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie – consentendo, quindi, il verificarsi di probabili sovrapposizioni di funzioni.
Le funzioni del tribunale per i minorenni e del magistrato di sorveglianza presso il suddetto tribunale, così individuati, sono esercitate, ai sensi dell’art. 79, comma 2, ord. penit., nei confronti degli infradiciottenni e dei maggiorenni che commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto. L’art. 3, comma 2, del d.P.R. n. 448/1988, integrando la normativa penitenziaria, ha introdotto un limite temporale alla competenza del tribunale di sorveglianza minorile, disponendo che essa venga meno allorché il condannato o l’internato raggiunge il venticinquesimo anno di età (20).
I limiti operativi all’esercizio delle funzioni di sorveglianza vanno agganciati, inevitabilmente, a quanto previsto dall’art. 24 disp. att. min. dal quale emerge che le modalità esecutive previste per i minorenni si osservano anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione, o prima del suo inizio, abbiano compiuto il diciottesimo ma non il ventunesimo anno di età. Tale lettura combinata delle norme in esame evidenzia il mancato coordinamento di due esigenze: l’una, individuabile nell’opportunità di non stravolgere le competenze nel controllo di tipo giurisdizionale, determina la persistenza degli organi specializzati fino al compimento del venticinquesimo anno di età del condannato; l’altra, consistente nel modificare il trattamento in sede esecutiva al raggiungimento di un certo grado di maturità del condannato, comporta il suo inserimento in strutture di espiazione ordinaria al compimento del ventunesimo anno di età. Sebbene appaia legittima la realizzazione di
entrambe le esigenze, sottese alle previsioni normative, è altrettanto innegabile che sarebbe preferibile una reductio ad unum del sistema evitando di scindere il controllo di tipo giurisdizionale dal corrispondente trattamento in sede esecutiva.
Il quadro tracciato consente di affermare che vi è, dunque, coincidenza tra l’organo che giudica il minore in relazione al fatto-reato ascrittogli e quello chiamato, successivamente, a ricalibrare la sanzione in relazione all’evoluzione della personalità del condannato. Una simile coincidenza, da ritenersi, in via generale, inopportuna, perché suscettibile di far assumere, anche in ambito penitenziario, un valore preponderante ai dati inerenti al reato commesso, deve essere, nel caso specifico, inquadrata diversamente, tenuto conto della particolare composizione del tribunale per i minorenni, nonché delle caratteristiche della giustizia minorile, sempre attenta, quale che sia la sede del giudizio, alle esigenze rieducative del minore (21).
3.3 Frammenti del trattamento minorile in una normativa “da adulti”.
La legge 26 luglio 1975, n. 354, intitolata “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e la legge di modifica del 10 ottobre 1986, n. 663, (c.d. legge Gozzini), regolando ex novo tutto l’ordinamento penitenziario, hanno introdotto nuove misure alternative alla detenzione per i soggetti meritevoli che non presentino elementi di pericolosità sociale. Si è cercato con tale normativa di eleggere a canone fondamentale di ogni organizzazione detentiva l’art. 27, comma 3, Cost. -“Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”– abbandonando ogni ottica meramente retribuzionistica.
Gli istituti previsti dalla legge n. 354/1975 vengono applicati – come del resto tutta la normativa contenuta in tale legge – come detto più volte – anche nei confronti dei minori, fino a che non sarà promulgata una legge specifica.
Applicando sic et simpliciter – sia pur provvisoriamente – ai minori il regime penitenziario previsto per gli adulti, il legislatore non ha tenuto conto che i minorenni hanno bisogno di un trattamento rieducativo del tutto peculiare alle loro esigenze di corretto sviluppo psicologico, al fine di un completo reinserimento sociale. Pertanto, la Corte Costituzionale si è adoperata per adattare (22), “nel rispetto dei principi cardine di tutela penale del minore” il sistema previsto per gli adulti “alle prospettive di recupero del soggetto (minorenne) deviante” (23).
Da più parti, oggi, si auspica, infatti, una rivoluzione per la giustizia minorile che abbia al suo interno un ordinamento penitenziario ad hoc per i minori. L’obiettivo è quello di rispettare la specificità dei minori a rischio, approfondendo tutte le misure alternative alla detenzione, anche oltre quelle tradizionali.
Nell’attesa della riforma sono però riscontrabili, nel panorama di una legislazione esecutiva concepita per gli adulti, alcune espresse previsioni normative destinate ai minori. Le diversità riguardanti la esecuzione di misure alternative o la concessione di benefici sono piuttosto circoscritte (24), ma, ciononostante, sono il chiaro segno di una affiorante “cultura minorile” che si profila sempre più marcatamente anche nel settore giuridico.
L’età del condannato acquista particolare rilevanza, ad esempio, in merito alla concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare.
La detenzione domiciliare è una misura alternativa del tutto nuova introdotta nell’ordinamento penitenziario dalla legge n. 663/1986 (art. 47-ter) e successivamente modificata dalla legge n.165/1998. Essa consiste nella possibilità per il condannato alla pena della reclusione non superiore ai quattro anni – o che deve scontare una residua pena di uguale durata – o alla pena dell’arresto, di espiare la pena stessa presso la propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora o in luogo pubblico di cura e di assistenza.
Si tratta, quindi, di una misura di applicazione generale relativa sia alle pene brevi sia alla residua parte delle medie e lunghe detenzioni.
La detenzione domiciliare – che viene applicata, nella fase dell’esecuzione penale, dal tribunale di sorveglianza – ai sensi dell’art.47-ter, comma 1, lett. e), ord. penit., può essere concessa, tra l’altro, a persona minore degli anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
A seguito dell’introduzione del comma 1-bis, poi, è attualmente possibile che tale misura alternativa possa essere applicata – qualora la pena detentiva da espiare, anche se residua, non superi i due anni – al di fuori delle condizioni di status indicate nel comma 1; e, quindi, anche se si tratti di un giovane adulto, infraventicinquenne, per il quale si giustifichi l’intervento dell’organo di sorveglianza specializzato sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati e non si tratti di condannato per reati contemplati nell’art. 4-bis ord. penit.(reati di criminalità organizzata).
Per quanto concerne l’istituto della liberazione condizionale (25) – discostandosi da quanto prescritto dall’art. 176 cp per i maggiorenni – l’art. 21 R.d.l. n. 1404/1934, relativo ai condannati che commisero il reato quando erano minori degli anni diciotto, prevede che possa essere ordinata in qualunque momento dell’esecuzione svincolandola sia da ogni condizione relativa alla durata della pena detentiva inflitta al minorenne o ad una quantità di pena già scontata, sia dall’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato. Anche da un punto di vista sanzionatorio emergono gli effetti specifici della liberazione condizionale in ambito minorile; il tribunale per i
minorenni, infatti, competente nelle vesti di tribunale di sorveglianza, può stabilire che, in luogo della libertà vigilata, sia applicato al liberato condizionalmente il collocamento in comunità pubblica o autorizzata, se si
tratta, ancora, di minore degli anni ventuno, o l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro se già maggiore di tale età (art. 21, comma 2, R.d.l. n.1404/1934). Il tempo trascorso dal minore in una delle strutture abilitate, per effetto dell’applicazione di una delle misure adottabili, è computato nella durata della pena (art. 21, comma 3, R.d.l. n. 1404/1934).
La legge n. 354/1975 ha subito nel corso di un decennio denso di esperienze di avvenimenti di rilievo, varie modifiche. L’entrata in vigore della già citata legge n. 663/1986 (c.d. legge Gozzini) ha dato vita ad una profonda modifica dell’ordinamento penitenziario apportando, tra l’altro, variazioni rilevanti alla possibilità di usufruire di permessi-premio (26) non più legata esclusivamente ad eventi familiari di particolare gravità. È data, ora, la possibilità ai condannati con sentenza irrevocabile, che manifestano senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, di tenere vivi contatti con il mondo esterno mediante ritorni, seppure di breve durata, nel contesto sociale da cui erano stati allontanati.
Relativamente ai condannati minorenni, l’art. 30-ter, comma 2, ord. penit. adotta una soluzione differenziata rispetto a quanto previsto per i maggiorenni; fermo restando, infatti, l’accertamento relativo alla regolare condotta – che presuppone, durante la detenzione, la manifestazione costante del senso di responsabilità e di correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali – il magistrato di sorveglianza può concedere permessi premio ai condannati minorenni per una durata che non sia superiore, ogni volta, a venti giorni (in luogo del limite di quindici giorni stabilito per i condannati maggiorenni), per una durata complessiva, in ciascun anno di espiazione, non eccedente i sessanta giorni (rispetto ai quarantacinque negli altri casi) (27).
Successivamente alla legge di riforma penitenziaria veniva approvato, il 29 aprile 1976, con decreto del Presidente della Repubblica n.431, il relativo regolamento d’esecuzione. Esso contiene, una serie di disposizioni che disciplinano in maniera concreta ed efficace quelle materie per le quali la legge enuncia le linee essenziali ed i criteri direttivi.
In materia minorile rilevano gli artt. 46, comma 7, e 59, comma 3, reg. esec. che offrono ulteriori elementi di differenziazione rispetto alla disciplina prescritta per i maggiorenni (28). Il comma 7 dell’art. 46, in tema di lavoro all’esterno, consente che l’accompagnamento dei minori ai luoghi di lavoro – qualora sia ritenuto necessario per motivi di sicurezza – sia effettuato da personale civile dell’amministrazione penitenziaria, piuttosto che dalla polizia penitenziaria. Il 3 comma dell’art. 59, invece, si limita a prevedere, in ordine alla comunicazione dell’ingresso in istituto, che, nel caso di minore la relativa spesa è a carico dell’amministrazione e non già dell’interessato.
Considerando, infine, le risposte normative di volta in volta adottate per arginare il fenomeno della mafia e della criminalità organizzata emergono, anche in quest’ambito, alcune deroghe alla disciplina comune dettate dalla specificità del destinatario quando si tratta di condannato minorenne. Premesso che trova applicazione anche per i condannati minorenni il divieto di concessione dei benefici, così come prescritto dall’art. 4-bis, ord. penit. (delitti tipici della criminalità organizzata), per espressa scelta normativa non operano, invece, altre particolari restrizioni.
In sostanza, in base all’art. 4, comma 4, d.l. 13 maggio 1991 n. 152 conv. l. 12 luglio 1991 n. 203, non si applicano nei confronti dei condannati per reati commessi durante la minore età talune disposizioni che sono sostituite da previsioni più favorevoli:
– nei casi in cui il permesso premio è concedibile non basta a negarlo il constatare la “pericolosità sociale” del soggetto (così l’art. 30-ter come riformulato per i condannati per fatti commessi da maggiorenne): occorre che sussista la “particolare pericolosità” (così come prevedeva la originaria formulazione, da considerare immutata per i minorenni) (29);
– la concessione del permesso premio non è subordinata, come per i maggiorenni, alla preventiva espiazione di almeno metà della pena (30), ma resta affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza per favorire la finalità rieducativa della sanzione tramite il progressivo reinserimento del minore nella società;
– il condannato minorenne può essere ammesso in ogni tempo al lavoro all’esterno (art. 21, ord. penit.), senza che sia necessaria la previa espiazione di un terzo della pena;
– la semilibertà è concessa dopo l’espiazione solo di metà della pena (art. 50 ord. penit.), non operando l’aumento a due terzi previsto per gli altri condannati;
– la liberazione condizionale, infine, può essere concessa, senza preclusioni, in ogni tempo atteso che i limiti costituiti dalla condanna per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. non operano, qualora si tratti di condannati per reati commessi nella minore età.
Se si tratta, poi, di persone ammesse al programma di protezione speciale, necessario per il grave ed attuale pericolo cui sono esposte per effetto della collaborazione processuale prestata, l’assegnazione al lavoro esterno, la concessione dei permessi premio e delle misure alternative dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare e della semilibertà possono essere disposte anche in deroga alle previsioni generali, comprese quelle relative ai limiti di pena (art. 13-ter d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. in l. 15 marzo 1991 n. 82, così come inserito dall’art. 13, comma 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992 n. 356) (31).
È, infine, recentissimo l’orientamento del legislatore volto ad adottare provvedimenti di carattere umanitario prevedendo che, all’atto delle dimissioni
dall’istituto di pena, il procuratore della Repubblica o il magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni si attivi affinché il questore rilasci un permesso speciale di soggiorno allo straniero che abbia terminato l’espiazione della pena detentiva, inflitta per reati commessi durante la minore età, sempre che abbia dato prova concreta di partecipazione ad un programma di assistenza ed integrazione sociale (art. 16, comma 6, l. 6 marzo 1998 n. 40 ed art. 18, comma 6, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286).
3.4 Il procedimento per l’applicazione e l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Senza intervenire sugli aspetti sostanziali delle misure di sicurezza il d.P.R. n. 448/1988 regola il procedimento per la loro applicazione in forza del principio di minima offensività del processo ed in vista dell’obiettivo di adattamento del momento esecutivo a forme appropriate di restrizione della libertà.
Nel disciplinare tale procedimento il legislatore si è, inoltre, uniformato alla direttiva n.96 della legge delega – che impone la necessità di un giudizio di effettiva pericolosità ove questa debba essere accertata per l’applicazione, l’esecuzione o la revoca delle misure di sicurezza – nonché alla necessità di adeguare il procedimento alle esigenze educative e di protezione della personalità del minorenne.
In virtù della sentenza della Corte costituzionale n. 324/1998 che ha dichiarato illegittima l’applicazione ai minori della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico e, in attuazione dell’art. 36 d.P.R. n. 448/1988, risultano applicabili ai minorenni le due misure di sicurezza del riformatorio giudiziario e della libertà vigilata. In particolare la misura del riformatorio giudiziario è applicata esclusivamente per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a nove anni ed è eseguita nelle forme del collocamento in comunità disciplinato dall’art. 22 d.P.R. n. 448/1988 che prevede l’affidamento del minore ad una comunità pubblica o autorizzata che collabora con i servizi. La novità di attribuire, anche in questa materia, agli enti locali il ruolo nuovo ed inedito di concorrere nel controllo sociale della criminalità minorile, anche di quella considerata più dura e difficilmente recuperabile, si inserisce nella stessa logica, degli interventi programmati, che ha ispirato il d.P.R. n. 616/1977. Anche qui, in sostanza, ai servizi non è attribuito né un ruolo di controllo di tipo poliziesco né un ruolo di sostegno di tipo predicatorio, ma quello ben più impegnativo di procacciare risorse e favorire programmazioni e interventi degli enti locali diretti a realizzare il diritto del minorenne all’educazione. Saranno le concrete occasioni di una diversa qualità della vita che enti locali e servizi saranno in grado di procurare ai giovani a segnare, anche in questo settore, il successo o il fallimento del nuovo codice processuale minorile (32).
Negli altri casi si applica la misura della libertà vigilata eseguibile mediante l’imposizione delle specifiche prescrizioni previste dall’art. 20 d.P.R. n. 448/1988 – impartite dal giudice ed inerenti l’attività di studio, lavoro o altre utili per l’educazione del minore – ovvero mediante l’istituto della permanenza in casa, disciplinato dall’art. 21 d.P.R. n. 448/1988, mediante la quale si prescrive al minore di rimanere presso l’abitazione familiare o altro luogo di privata dimora.
La misura di sicurezza può essere disposta in via provvisoria ex art. 37, comma 2, d.P.R. n. 448/1988, per cui il giudice con la sentenza con cui dichiara il non luogo a procedere per difetto di imputabilità ai sensi degli artt. 97 e 98 cp (33) può applicare, in sede di udienza preliminare – anche con giudizio abbreviato – su richiesta del magistrato del pubblico ministero, in via provvisoria, la misura di sicurezza.
Siffatta applicazione è subordinata all’esistenza delle condizioni previste dall’art. 224 cp – e, cioè, alla gravità del fatto ed alle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto – nonché all’accertamento che per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato sussista il concreto pericolo che l’imputato stesso commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata.
Tale applicazione provvisoria delle misure di sicurezza ha dei limiti cronologici di efficacia: il giudice deve disporre, infatti, entro trenta giorni la trasmissione degli atti al tribunale per i minorenni affinché inizi il procedimento speciale sulla pericolosità delineato dall’art. 38 d.P.R. n. 448/1988. Se i trenta giorni decorrono senza che abbia avuto inizio il predetto procedimento la misura di sicurezza, applicata provvisoriamente, cessa di avere efficacia. Il giudice per l’udienza preliminare può, però, anche respingere la richiesta avanzata dal magistrato del pubblico ministero di applicazione in via provvisoria di una misura di sicurezza. In entrambi i casi – accoglimento o rigetto – si apre il procedimento dinanzi al tribunale.
Il procedimento regolato dall’art. 38 d.P.R. n. 448/1988 è un procedimento autonomo il cui scopo è, dunque, quello di accertare l’effettiva pericolosità del minore che, a tal fine, usufruisce delle garanzie processuali previste per il procedimento di sorveglianza dall’art. 678 cpp, che è espressamente richiamato e che a sua volta richiama l’art. 666 cpp, relativo al procedimento di esecuzione.
Il presidente del collegio fissa l’udienza in camera di consiglio che viene notificata al minore ed agli esercenti la potestà. Dell’udienza deve essere dato
avviso al magistrato del pubblico ministero, al difensore ed ai servizi.
Dovendo il tribunale procedere al complesso giudizio sulla pericolosità, vanno sentite tutte le parti in contraddittorio. Dal combinato disposto degli artt. 678 e 666 cpp si evince che il giudice può chiedere documenti, informazioni, assumere prove e avvalersi, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento: così, per l’esplicito richiamo degli articoli, anche il tribunale per i minorenni che, comunque, adeguerà le disposizioni, secondo il principio generale, alla personalità del minore ed alle sue esigenze educative. Verranno pertanto sentiti obbligatoriamente il minore, gli esercenti la potestà, i servizi.
Nel corso del procedimento il tribunale può modificare o revocare la misura applicata a norma dell’art. 37, comma 1, d.P.R. n. 448/1988, o applicarla in via provvisoria. Tale modificazione può consistere sia nel mantenere la misura applicata in via provvisoria, ma con modalità diverse, sia nella modifica della misura stessa.
È evidente che tale disciplina è espressione dei principi propri del diritto processuale minorile che deve tener conto della personalità del minore in continua evoluzione, soprattutto se sollecitata da stimoli e processi educativi quali sono quelli che possono essere contenuti nelle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza può essere altresì essere applicata, senza provvedimenti provvisori, in sede dibattimentale e sempre nel rispetto delle regole di rito per l’accertamento della specifica pericolosità richiesta dall’art. 37, comma 2, d.P.R. n. 448/1988.
Il procedimento previsto dall’art. 39 d.P.R. n. 448/1988 non è, come quello analizzato in precedenza un procedimento autonomo, ma si innesta nell’udienza dibattimentale. Va osservato che quanto previsto dall’art. 39 d.P.R. n. 448/1988 consente che la misura di sicurezza si applichi sia con la sentenza di proscioglimento che con quella di condanna.
In ambedue i casi di applicazione definitiva della misura di sicurezza questa può diventare occasione di interventi diretti al recupero ad al reinserimento.
Anche qui, la presenza degli esercenti la potestà, oltre a garantire il diritto all’autodifesa, e quella dei servizi, a garantire con i primi il diritto all’assistenza, servono, soprattutto in caso di prescrizioni, a far sì che le misure di sicurezza siano adeguate e di possibile realizzazione (34).
Nei confronti della sentenza di non luogo a procedere o della sentenza di condanna applicativa di una misura di sicurezza è possibile proporre impugnazione ex art.579 cpp oppure ex art. 680, comma 2, cpp allorquando l’impugnazione riguardi soltanto le disposizioni relative alle misure di sicurezza.
Organo competente per l’esecuzione delle misure di sicurezza, applicate nei confronti dei minori, è il magistrato di sorveglianza per i minori del luogo dove la misura deve essere eseguita.
Sarà, quindi, territorialmente competente il magistrato di sorveglianza del luogo ove si trova l’abitazione familiare del minore o altra privata dimora ove lo stesso soggiorna, nel caso in cui viene disposta la libertà vigilata; sarà invece, competente il magistrato di sorveglianza del luogo ove si trova la comunità se il minore è sottoposto alla misura del riformatorio giudiziario.
La ragione di tale individuazione di competenza territoriale è chiarita dal comma 2, prima parte, dell’ art. 40 d.P.R. n. 448/1988 in quanto individua nel magistrato di sorveglianza per i minori l’organo competente ad impartire le disposizioni concernenti le modalità di esecuzione della misura sulla quale vigila costantemente, anche mediante frequenti contatti, senza alcuna formalità, con il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori, l’eventuale affidatario ed i servizi minorili.
Proprio questi compiti attribuiti al magistrato di sorveglianza evidenziano che questi deve essere, per seguire con continuità il minore, il giudice del luogo di residenza del minore stesso.
Il magistrato di sorveglianza, in caso di libertà vigilata, imporrà al minore le prescrizioni di studio o di lavoro utili alla sua risocializzazione.
Può anche stabilire le attività alle quali il minore deve dedicarsi durante il tempo libero e imporre degli orari o degli obblighi o ogni altra prescrizione che ritenga utile a far cessare la pericolosità sociale del minore.
Se la misura di sicurezza sarà quella del riformatorio giudiziario collocherà il minore in comunità (35) e potrà prescrivere allo stesso di svolgere attività di studio o di lavoro, anche fuori della comunità, proprio per agevolare il suo reinserimento nella società. Il magistrato di sorveglianza ha, poi, un ruolo di comunicazione diretta col minore e le figure parentali e professionali che hanno la responsabilità educativa del giovane per valutare i progressi nella risocializzazione evitando che l’attività di vigilanza si riduca ad un mero controllo burocratico.
Se viene accertata la cessazione della pericolosità del minore, e di conseguenza la misura viene revocata, il magistrato di sorveglianza ne dà comunicazione al procuratore della repubblica presso il tribunale per i minorenni perché valuti l’opportunità di richiedere o meno provvedimenti di natura civile (art. 40 d.P.R. n. 448/1988).
I provvedimenti emessi dal magistrato di sorveglianza possono essere impugnati dal destinatario, dall’esercente la potestà dei genitori, dal difensore e dal magistrato del pubblico ministero davanti al tribunale per i minorenni, ma l’appello non ha effetto sospensivo, salvo che il tribunale non disponga altrimenti (art. 41 d.P.R. n. 448/1988).
3.5 Gli altri istituti significativi del regime differenziato: la riabilitazione speciale e le disposizioni sul casellario giudiziale.
Nel corso dell’intero iter che caratterizza il procedimento penale minorile emerge la scelta sostanziale del legislatore che mira a mettere al riparo il minorenne, protagonista della vicenda penale, da ogni possibile effetto dannoso diverso dalla sofferenza insita nel processo stesso, in quanto non sia altrimenti evitabile, e nella giusta sanzione, quale reazione estrema dell’ordinamento.
Su questa stessa scia l’istituto della riabilitazione speciale trova un proprio significato e la sua valenza di ulteriore strumento tendente ad attuare la specializzazione e differenziazione del regime minorile per realizzare la reductio ad unum del sistema.
È lo stesso legislatore, all’art. 24 R.d.l. n. 1404/1934, a definire speciale la riabilitazione concessa per fatti commessi dai minori degli anni 18, sia che abbiano dato luogo a condanna che a proscioglimento (36).
Le modifiche intervenute successivamente al predetto decreto (37), nonché le successive disposizioni sul diritto penale minorile non hanno alterato sostanzialmente questa specifica causa estintiva della pena, che secondo il principio di favor tradizionalmente applicato in questo settore, fa cessare non solo le pene accessorie ma anche tutti gli altri effetti preveduti da leggi e regolamenti penali, civili e amministrativi, salvo le limitazioni stabilite per la concessione della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale.
Le condizioni richieste sono il compimento di un’età compresa tra il diciottesimo e il venticinquesimo anno, la non sottoposizione attuale ad esecuzione di pena o a misura di sicurezza e l’essere completamente emendato e degno di essere ammesso a tutte le attività della vita sociale.
La riabilitazione speciale, a differenza di quella comune ammessa per i maggiorenni (art. 179 cp), non esige la protrazione della buona condotta per un certo numero di anni né pretende l’adempimento delle obbligazioni civili.
Quanto all’età, il comma 4 dell’art. 24 R.d.l. n. 1404/1034 – prevedendo che, il tribunale, qualora appaia insufficiente la prova dell’emenda, può rinviare l’indagine a un tempo successivo, ma non oltre il compimento del venticinquesimo anno del minore – fa ritenere che sia la domanda che la decisione debbano aver luogo nell’intervallo di età compreso tra i diciotto ed i venticinque anni.
La buona condotta, non definita nell’art. 179 cp, è invece qui maggiormente precisata quanto ai luoghi dove l’emenda può trovare espressione: famiglia, scuola, officina, pubblici o privati istituti, organizzazioni sportive e la prova relativa è integralmente ufficiosa, ai sensi del comma 2 dell’art. 24 R.d.l. n. 1404/1934.
La decisione è assunta, dunque, sulla scorta delle informazioni di polizia e del servizio sociale circa la condotta del minore in famiglia, nella scuola, e nell’ambiente di lavoro.
Il beneficio, che sostanzialmente elimina ogni possibile limitazione del soggetto nei suoi rapporti privati e pubblici, è accordato con sentenza in camera di consiglio – sentiti il magistrato del pubblico ministero, l’esercente la potestà sul minore e l’autorità provinciale di pubblica sicurezza – dal tribunale per i minorenni del luogo di dimora abituale del minore, nelle vesti di tribunale di sorveglianza.
La sentenza di riabilitazione, annotata sulla sentenza cui si riferisce, è iscritta nel casellario giudiziale e trasmessa all’autorità di pubblica sicurezza del comune di nascita e di abituale dimora del minore (art. 24 R.d.l. n. 1404/1934).
Dichiarata la riabilitazione, nel certificato penale non si fa menzione dei precedenti penali del minore, anche se richiesto da una pubblica amministrazione, salvo che per l’autorità giudiziaria in relazione ad un nuovo procedimento penale.
La riabilitazione speciale è revocata di diritto (artt. 24 R.d.l. n. 1404/1034 e 180 cp) se la persona riabilitata riporti – entro cinque anni – condanna, per delitto non colposo, alla pena della reclusione per un periodo non inferiore a tre anni.
Dalla profonda riflessione sulle conseguenze pregiudizievoli del cosiddetto etichettamento, ovvero della forza condizionante dell’opinione negativa dell’ambiente circostante sulla disistima di cui si ricopre il giovane che abbia commesso un reato scaturiscono una serie di disposizioni che attuano il principio della minima offensività e destigmatizzazione del processo (38).
La difesa del minorenne dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità costituisce regola imperativa fin dal cosiddetto primo contatto individuato nell’esecuzione dell’arresto, del fermo e dell’accompagnamento (art. 20 disp. att. min.).
In applicazione, poi, della direttiva contenuta nell’art. 3, lett.c) della legge-delega, il divieto di pubblicazione di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne coinvolto nel procedimento è stato consacrato nell’art. 13 disp. att. min.
Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano le norme istitutive di un casellario giudiziale per i minorenni distinto da quello ordinario.
In virtù della differenziata disciplina del casellario giudiziale minorile, la normativa ordinaria – contenuta nel titolo IV del libro X del cpp – subisce una rilevante deroga.
Ai sensi dell’art. 14 d.P.R. n. 448/1988, presso ciascun tribunale per i minorenni è istituito l’ufficio del casellario giudiziale che raccoglie e conserva l’estratto dei provvedimenti indicati nell’art. 686 cpp riguardanti i minorenni nati nel distretto; qualora si tratti di minorenni nati all’estero o dei quali non sia conosciuto il luogo di nascita nel territorio dello Stato, si provvede alla loro iscrizione nell’ufficio del casellario presso il tribunale per i minorenni di Roma.
L’art. 686 cpp prescrive che siano iscritte nel casellario:
– le sentenze irrevocabili di condanna, comprese, ai sensi dell’art. 73 legge n.689/1981, le sentenze di applicazione di sanzioni istitutive;
– i provvedimenti giudiziari di esecuzione irrevocabili riguardanti le pene
e le misure di sicurezza: la menzione che la pena non fu del tutto scontata per liberazione condizionale ed i provvedimenti di concessione e revoca della riabilitazione;
– i provvedimenti del tribunale di sorveglianza di concessione o revoca delle misure alternative (art. 74 legge n.689/1981);
– le sentenze irrevocabili di proscioglimento;
– le sentenze irrevocabili di non luogo a procedere per difetto di imputabilità;
– le sentenze irrevocabili che hanno disposto una misura di sicurezza;
– le sentenze irrevocabili di proscioglimento per concessione del perdono
giudiziale;
Non è prevista l’iscrizione delle sentenze di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 d.P.R. n. 448/1988) né quelle che dichiarano l’estinzione del reato per esito positivo della prova (art. 29 d.P.R. n. 448/1988).
La regola generale, contenuta nell’art. 15 d.P.R. n. 448/1988, sancisce la cancellazione di tutte le iscrizioni al compimento del diciottesimo anno di età.
Due deroghe a tale regola sono previste dalle iscrizioni relative:
– alla condanna a pena detentiva, anche se sospesa, che devono essere trasmesse all’ufficio del casellario di cui all’art. 685 cpp al raggiungimento del diciottesimo anno di età;
– alla concessione del perdono giudiziale che sono cancellate al compimento del ventunesimo anno di età (art. 15 d.P.R. n. 448/1988).
Le certificazioni del casellario giudiziale possono essere rilasciate soltanto all’autorità giudiziaria e alla persona cui si riferiscono (art. 14 d.P.R. n. 448/1988).
La scelta di istituire un ufficio distinto, in modo da dar vita ad una completa separazione rispetto al casellario giudiziale per gli altri condannati, non ha, però, prodotto gli effetti programmati, atteso che non sono state ancora emanate le norme di esecuzione necessarie, con la conseguenza che agli adempimenti provvedono ancora i comuni uffici del casellario (39); da ciò sorge la necessità di demandare gli adempimenti necessari agli uffici del casellario ordinario fino a quando non entreranno in funzione quelli del casellario minorile (art. 19 disp. att. min.).
La ragione della normativa transitoria diventa, dunque, anche quella di trattenere presso il casellario ordinario soltanto le iscrizioni relative a provvedimenti che devono essere comunque in esso riversati ed eliminare le altre, o direttamente, o per trasmissione al casellario minorile (40).
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(1) Bisogna, però, considerare il d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 che introduce regole del tutto nuove ed originali sul dibattimento che si svolgerà dinanzi al giudice di pace per i reati di sua competenza. Tra i più rilevanti profili di novità senz’altro l’istituto dell’improcedibilità per particolare tenuità del fatto occupa un posto di primo piano in quanto inserisce nel procedimento dinanzi al giudice di pace una formula di proscioglimento particolare fin’ora nota solo al processo minorile.
L’art. 34 del decreto prevede la pronuncia di improcedibilità quando “rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”.
Trattasi di un istituto modellato su quello preesistente nel processo minorile in virtù del quale il processo può arrestarsi quando il fatto, pur rispondendo in pieno ai parametri generali della norma incriminatrice, sia in concreto poco offensivo dell’oggettività giuridica protetta dalla legge. La ragione della sua introduzione risiede essenzialmente nell’interesse alla rieducazione dell’imputato, il quale – se condannato per un fatto di irrisoria importanza – vivrebbe la pena come un esagerato sopruso perpetrato dallo Stato nei suoi confronti, con la conseguenza che la sanzione determinerebbe la sua disaffezione ai principi ordinamentali e, dunque, l’effetto esattamente contrario a quello, prettamente rieducativo, da essa perseguito.
L’istituto non va, però, confuso con quelli previsti dagli artt. 62 n.4 c. p. (speciale tenuità del delitto offensivo del patrimonio), 323-bis c.p. (particolare tenuità dei delitti contro la pubblica amministrazione) e 648, comma 2, c.p. (ricettazione di particolare tenuità), in quanto il concetto di tenuità, in essi, rileva come circostanza attenuante e non come causa di improcedibilità, con la ben diversa conseguenza che l’effetto della lievità dell’offesa nei richiamati casi comporta per il reo solo una riduzione della sanzione ma non l’arresto del processo, arresto che matura solo dinanzi al giudice di pace.
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Per completare, i criteri in presenza dei quali – purché tutti presenti cumulativamente – può darsi corso alla pronuncia di improcedibilità sono:
– il danno o il pericolo che è derivato dall’azione rispetto all’interesse tutelato è esiguo;
– la condotta è stata occasionale;
– il grado della colpevolezza è stato lieve;
– la prosecuzione del dibattimento reca danno alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell’imputato.
Viene posto, dunque, in primo piano il modo di essere della persona processata che influenza non solo la valutazione del fatto da parte del giudice – come avviene nel diritto penale tradizionale, laddove le condizioni dell’agente possono comportare una diversa graduazione della pena da persona a persona – ma addirittura il se della prosecuzione del processo.
In virtù dell’art. 34, quindi, osserva F. BALDI, non è improbabile che “mentre un disoccupato, senza famiglia ed in buona salute, sia giudicato nel merito – e magari condannato – altra persona, invece, pur avendo commesso lo stesso reato, per il fatto di avere problemi di salute, figli a carico e difficoltà lavorative, veda arrestarsi il processo”, l’autore considera, dunque, evidente che “la singolarità della norma non escluda del tutto il pericolo che in essa si annidino profili di incostituzionalità per disparità di trattamento”, Il manuale del giudice di pace penale, Giuffrè, 2000, pp. 306-308.
(2) I presupposti della sentenza sono:
– la tenuità del fatto che fa riferimento, com’è ovvio, a comportamenti di scarsa gravità, il che non significa che debba ravvisarsi soltanto in relazione a reati per cui sia prevista una pena lieve. La pena edittale è soltanto uno dei parametri a cui ci si deve riferire per valutare la tenuità in esame ma ad esso vanno aggiunti la finalità del fatto, i suoi effetti, la natura, nonché la capacità a delinquere. Ne segue che la tenuità del fatto può essere ritenuta sussistente anche in relazione a reati per cui sia prevista una grave pena edittale (PEPINO): si pensi ad una estorsione per ottenere un gettone telefonico;
– l’occasionalità del comportamento sta ad indicare che la condotta oggetto del procedimento è da parte del soggetto agente eccezionale; è tale quando non risulta essersi ripetuta nel tempo uguale a se stessa.
(3) In questo senso M. BOUCHARD, voce Processo penale minorile, in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, p. 154.
(4) Cfr. F. PALOMBA, secondo cui “ciò che preclude la pronuncia di irrilevanza non è la mancanza di pregiudizio, ma l’utilità del processo”, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1991, p. 386.
Ma, l’evoluzione legislativa in materia – ampiamente trattata nel par. 4.1, v. infra, pp. 119-120 – dovrebbe confutare tale tesi.
(5) Da parte di alcuni furono sollevati dubbi di incostituzionalità dell’istituto per eccesso di delega; laddove quest’ultima si limitava a prevedere la sospensione del processo, per un tempo determinato, finalizzata ad una valutazione compiuta della personalità del minore. Nel disegno della legge delega era tuttavia chiaro che la sospensione del processo aveva quale scopo ultimo, comunque, l’apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno disposti dallo stesso giudice.
(6) In tal senso M. BOUCHARD, secondo il quale: “l’imposizione di obblighi di condotta correlati all’attuazione di un provvedimento di messa alla prova, induce a consigliare che il giudice lo autorizzi solo quando la responsabilità penale sia pienamente accertata anche attraverso la completa ammissione degli addebiti, per evitare che l’istituto assuma una natura abnorme per non essere correlato ad un fatto reato irrevocabilmente accertato né ad una condotta irregolare”, voce Processo, cit., p. 152.
(7) Così E. FASSONE, voce Probation e affidamento in prova, in Enc. Dir., vol. XXXV, Giuffrè, 1986, p. 784.
(8) In tal senso cfr. I. BAVIERA, il quale osserva che “la seconda pronuncia non concede un secondo beneficio, ma riassume il fatto giudicato nel beneficio – e nello stesso beneficio – già concesso”, Diritto minorile, vol. II, Milano, 1976, p. 90.
(9) Sottolinea A. C. MORO, che “si può ricorrere alle pene sostitutive tutte le volte in cui la pena edittale minima sia di quattro anni perché, utilizzando le attenuanti generiche e la diminuente della minore età che possono essere dichiarate prevalenti su eventuali aggravanti, si arriva ad una pena in concreto inferiore a due anni”, Manuale di diritto minorile, Bologna, 2000, p. 393.
(10) È importante sottolineare che, sebbene a seguito di un processo evolutivo lungo ed ancora incompleto, il legislatore minorile sta attuando il progetto di una legislazione minorile differenziata, nella consapevolezza che la differenza tra adulto e minore, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, deve emergere innanzitutto da una diversità qualitativa della risposta penale al reato.
(11) Secondo F. PALOMBA, “i criteri di orientamento nelle strategie processuali, discendono dall’esame sia delle finalità attribuite al processo penale minorile, sia della specifica natura e potenzialità insita in ogni istituto, in ciascuno strumento, in ognuna delle formule terminative”, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1991, p. 523
(12) Per una disamina più completa degli interventi della Corte costituzionale a favore di un trattamento penitenziario minorile, vedi retro, par. 1.4.
(13) La legge 27 maggio 1998, n.165 (cd. Riforma Simeone) utilizzando la legislazione
penale e penitenziaria, ed in particolare, delle misure alternative alla detenzione come mezzi per conseguire evidenti finalità decarcerizzanti, ha, tra l’altro, dettato ex novo la disciplina dell’ordine di esecuzione. Riformulando l’art. 656 cpp si è regolamentata, in modo più favorevole al condannato, la materia della esecuzione delle pene detentive. In particolare, secondo il nuovo dettato dell’art. 656, è previsto che il magistrato del pubblico ministero, quando emette un ordine di esecuzione di una pena detentiva non superiore a tre anni, deve contestualmente emettere un decreto di sospensione dell’esecuzione che deve essere consegnato al condannato unitamente all’ordine di carcerazione. Il condannato ha trenta giorni per poter avanzare istanza tendente ad ottenere la concessione di misure alternative alla detenzione. Alla scadenza del termine, se non viene presentata detta istanza, il decreto è revocato e la pena viene posta in esecuzione. La riforma mira ad evitare che entrino nel circuito del carcere condannati che possono beneficiare di misure alternative alla detenzione in attesa della decisione sulla loro concessione; la ratio della norma, a maggior ragione, trova una sua ragion d’essere quando il condannato è un minore.
(14) La competenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza spetta al magistrato di sorveglianza del luogo dove la misura deve essere eseguita. Sul procedimento per l’applicazione ai minori delle misure di sicurezza, più approfonditamente, vedi infra, par. 3.4.
(15) Il magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo di abituale dimora del condannato – al quale il magistrato del pubblico ministero trasmette l’estratto della sentenza – impartisce le disposizioni concernenti le modalità di esecuzione della sanzione, sulla quale vigila costantemente anche mediante frequenti contatti, senza alcuna formalità, con il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori, l’eventuale affidatario ed i servizi minorili.
(16) Ciascun tribunale per i minorenni, nelle vesti di giudice dell’esecuzione, opera su tutto il territorio della corte di appello, ove è costituito, e rappresenta un organo giurisdizionale ordinario autonomo (art. 1 ord. giud.) di tipo specializzato, sia per la materia sottoposta alla sua cognizione – delimitata intuitu personae (art. 3, comma 1, d.P.R. n. 448/1988) – sia per la composizione che valorizza la collegialità mista ( artt. 2 e 3 disp. att. min.). Per una valutazione più approfondita sulla composizione e sulla specializzazione del tribunale per i minorenni, vedi retro, par. 2.3.
(17) La sezione di corte d’appello per i minorenni conferma la connotazione di specializzazione nella sua specifica composizione, vedi, per riferimenti più approfonditi, retro, par. 2.2, p. 49.
(18) Circa le formule definitorie del procedimento penale minorile adottabili dal gup, vedi retro, par. 2.2, nota (14), pp. 46-47.
(19) Per il dettagliato percorso storico che ha determinato la composizione del gup e la sua differenziazione dal gip, vedi retro, par. 2.2, p. 44 ss.
(20) A favore della competenza esclusiva della sezione (oggi tribunale) di sorveglianza, nell’ipotesi in
cui siano contemporaneamente in esecuzione pene relative a reati commessi, in parte prima, e, in parte dopo il compimento del diciottesimo anno di età, cfr. Cass., 28-3-1980, CP, 1981, 2113, m. 1860; Id., 24-10-1979, ibidem, 652, m. 681.
(21) In tal senso F. DELLA CASA secondo cui tale “coincidenza può essere addirittura vista favorevolmente, perché consente ad un medesimo organo, che agisce sulla base di una logica costantemente uniforme, di seguire l’intera vicenda riguardante il soggetto infradiciottenne, e di valutarne al meglio il tipo di interventi che è opportuno, progressivamente, adottare”, voce Magistratura di sorveglianza, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, p. 493.
(22) La Consulta nel ’92 aveva sottolineato che l’applicabilità della legge n. 354/1975 ai minori “è ai limiti dell’incostituzionalità”. Per un approfondimento delle specifiche pronunce della Corte, in ordine alle disposizioni della legge di ord. penit., v. retro, par. 1.4.
(23) Sent. Corte Cost. n. 46/1978.
(24) In tal senso cfr. L. KALB, L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in P. CORSO (a cura di), Manuale dell’esecuzione penitenziaria, Bologna, 2000, p. 400.
(25) Così, L. KALB, L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in op. cit., p. 401.
(26) A tal proposito, la Corte Cost. con sentenza n. 403/1997, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, nella parte in cui si riferisce ai minorenni. Non vale, cioè, per i minori, il divieto di concessione dei permessi premio nei due anni che fanno seguito ad una condanna per reati dolosi commessi durante l’espiazione della pena. Per un approfondimento della citata pronuncia costituzionale, vedi retro, par. 1.4, pp. 30-31.
(27) In tal senso cfr. L. KALB, L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in op. cit., p. 402.
(28) Così, L. KALB, Iibidem, p. 403.
(29) Il legislatore del 1991, con l’eliminazione della qualifica “particolare” ha inteso richiamare ad un uso evidentemente più restrittivo, che in caso di dubbio sacrifichi le aspettative di recupero sociale del detenuto, in favore del bene della tutela della collettività. Tale modifica, tuttavia, in virtù di quanto disposto dall’art. 4, comma 4, del citato d.l. non opera per i condannati minorenni ai quali, dunque, si applica il regime previgente. In tal senso cfr., S. DI NUOVO – G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile, Giuffré, 1999, p. 496.
(30) La Corte costituzionale, infatti, con la sent. n. 450/1998 ha dichiarato l’illegittimità dell’art.30-ter, comma 4, lett. c), della legge n. 354/1975 (ord. penit.) per violazione degli artt. 3 e 31, comma 2, Cost. nella parte in cui si riferisce ai minorenni. Per un approfondimento della citata pronuncia costituzionale, vedi retro, par. 1.4, pp. 31-32.
(31) In tal senso, L. KALB, L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in op. cit., pp. 403-404.
(32) In tal senso cfr. P. GIANNINO, Il processo penale minorile, Padova, 1994, p. 279.
(33) Cfr. P. GIANNINO, secondo cui “anche se il legislatore ha fatto riferimento al minore infraquattordicenne, richiamando l’art. 97 cp, tuttavia si tratta di una previsione assolutamente eccezionale essendo praticamente impossibile trovare una così grave pericolosità in un ragazzo tanto giovane”, in op. cit., p. 276.
(34) In tal senso cfr. P. GIANNINO, in op. cit., p. 278.
(35) La comunità deve rispondere a particolari requisiti trattati, più approfonditamente, retro, par. 2.4, pp. 64-65.
(36) Si tratterà in genere, in questa ipotesi, dell’applicazione del perdono giudiziale – su cui vedi retro, par. 3.1, p. 74-76 – ma, vi è stato incluso il proscioglimento per amnistia da reato colposo.
(37) Secondo A. C. MORO “l’istituto della riabilitazione speciale previsto dalla legge istitutiva del tribunale per i minorenni (art. 24 R.d.l. n. 1404/1934) non è stato abrogato né espressamente né tacitamente dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, non sussistendo incompatibilità tra le nuove disposizioni, che secondo il legislatore delegante dovevano essere limitate alla disciplina del processo minorile secondo i principi generali del nuovo processo penale, e la norma di natura sostanziale che prevede la riabilitazione speciale per minori”, in Manuale di diritto minorile, Bologna, 2000, p.400.
(38) In tal senso F. PALOMBA, in Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, 1991, p. 161.
(39) Così L. KALB, L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in P. CORSO (a cura di), Manuale dell’esecuzione penitenziaria, Bologna, 2000, p. 405.
(40) In tal senso F. PALOMBA, op. cit., p. 165.
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