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Le servitù sorgono al fine di soddisfare esigenze non transitorie e il diritto tende a durare a tempo indeterminato, anche oltre la durata della proprietà dei costituendi. E’, infatti, imprescindibile il corollario che il peso e i limiti che ne scaturiscono restano a gravare sulla proprietà del fondo, anche dopo l’alienazione di esso in favore di soggetti estranei all’atto costitutivo della servitù.
L’estinzione della servitù è disciplinata specificamente in sede propria, agli artt. 1072 e 1073 del codice civile, che prevedono rispettivamente la confusione dei proprietari e la prescrizione nella sua accezione di “non uso, in sintonia con l’atteggiamento di tutti i diritti reali limitati.
La sede della materia contiene alcune anomalie; non disciplina l’abbandono del fondo, non prevede la rinuncia al diritto da parte del proprietario del fondo dominante e non considera esplicitamente il mutuo dissenso ex art. 1372 cc..
Le conseguenze di tali lacune danno luogo a esiti interpretativi analoghi, ossia si ammette che il perimento comporti l’estinzione immediata del diritto e si argomenta la medesima conclusione per la rinuncia ricorrendo al combinato disposto degli artt. 1350, n. 5 e 2643, n. 5.
Poiché il diritto di servitù può sorgere in forza di un titolo, nella maggior parte dei casi si tratta di servitù volontaria, nulla vieta, anzi è auspicabile, che sia previsto tra i patti negoziali[1], accanto all’indicazione degli obblighi e diritti e alla descrizione[2] del fondo servente e di quello dominante, un termine finale; ne consegue l’estinzione immediata allo scadere del termine.
Nell’ipotesi in cui il titolo non riporti alcuna pattuizione in merito, sorge un inconveniente. Con il trascorrere del tempo, può accadere che venga meno l’utilità in vista della quale il diritto era stato costituito e a tale inconveniente il legislatore non pone adeguato rimedio nella disciplina sull’estinzione dettata ad hoc dagli artt.1072 e ss. cc..
Tralasciando le specifiche problematiche inerenti le altre modalità di estinzione delle servitù, sembra opportuno soffermarsi sulla ammissibilità dell’ipotesi di rinuncia della servitù, non esplicitamente prevista ma pacificamente ammessa da dottrina e giurisprudenza in base al combinato disposto degli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 cc..
Aspetti legislativi
Il risultato di numerose analisi dottrinali hanno portato a considerare la rinuncia come abdicazione di un diritto previsto a favore dell’utilità, comodità o amenità del fondo dominante e del corrispondente soggetto proprietario. In tal caso è possibile che si verifichino due ipotesi giuridiche, ossia che muti il proprietario del fondo e che si trovi nella condizione di poter beneficiare del vantaggio prediale, oppure può accadere che muti la situazione tra i fondi o le utilità e le necessità. Questo mutamento comporta il verificarsi di una rinuncia a favore del soggetto giuridicamente contrapposto al proprietario titolare della servitù attiva.
Condividendo l’opinione della dottrina e giurisprudenza maggioritaria, che ritiene pacifica l’ammissibilità dell’ipotesi di contratto estintivo bilaterale oneroso[3], pare più interessante considerare la fattispecie bilaterale[4] gratuita a favore del fondo servente. A tal proposito, poiché non si può certo negare all’autonomia privata la possibilità di raggiungere l’effetto dell’estinzione attraverso un contratto, ci si chiede in virtù o a causa di quale titolo, le conseguenze favorevoli vengano prodotte in capo al soggetto proprietario del fondo servente.
Per rispondere a questo interrogativo, sembra opportuno considerare gli studi svolti dalla dottrina in merito all’istituto della rinuncia a diritti reali[5] , analizzato sotto l’ottica di una possibile assimilazione alla figura della liberalità ex art. 809 c. c., che, è stato testualmente detto[6], “ha molto della donazione, eppure non è donazione; figura che non è donazione, eppure ha molto della donazione”.
Aspetti tributari
Il settore delle liberalità diverse dall’art.769 cc. è alquanto problematico; si è concretizzato come tale nella realtà giuridica solo recentemente e costituisce un nodo cruciale sotto l’aspetto strettamente interpretativo e sotto l’aspetto fiscale.
L’atto di rinuncia della servitù, e quindi dei diritti previsti a favore del proprietario del fondo dominante, potrebbe rientrare nell’ambito dell’art. 809 c.c. unicamente con una paziente analisi delle diverse fattispecie liberali, poiché non è dato sapere, salvo esplicita dichiarazione, se la rinuncia abbia origini pseudo-donative, né se il soggetto “beneficiato” sia in una situazione creditoria. Sarà un’analisi da svolgere caso per caso e, nell’ipotesi in cui si potesse far rientrare la rinuncia nella liberalità, si potranno applicare all’atto di rinuncia le norme richiamate dall’art. 809 c.c. e si potrà applicare la normativa dettata dalla L.18/10/2001 n. 383. Tale legge all’art.13 secondo comma comprende tra le liberalità soggette a tassazione ordinaria, nella misura in cui siano effettuate tra soggetti non legati da vincoli di parentela, anche le rinunce pure e semplici. In tal caso il legislatore sembra voler restringere[7] il campo applicativo alle rinunce abdicative a differenze del Dlgs 1990/346.
Forma e formalità
Valutati gli aspetti tributari, sembra opportuno considerare l’istituto della rinuncia mescolando il punto di vista avente radici interpretative e il punto di vista fondato direttamente su basi legislative.
In primo luogo, per poter validamente rinunciare ad un diritto si deve poter disporre del medesimo: in tema di capacità vale la regola generale fissata dall’art. 2 cc. sempre in combinazione con la capacità naturale, requisito del soggetto pena l’annullabilità dell’atto.
Nonostante una tesi apparentemente contraria, sembra ammissibile una rinuncia anche a mezzo di rappresentante, in quanto non sussistono ragioni ostative in alcuna disposizione di legge, sempre a condizione che non sussistano conflitti d’interesse.
Superato, nelle prime righe del presente studio, l’ostacolo della ammissibilità della rinuncia della servitù, nasce il problema della forma della rinuncia.
Si ritiene che la forma sia strettamente collegata all’oggetto della rinuncia medesima, attesa la lettera del n. 5 dell’art. 1350 c.c.; da qui può anzitutto evincersi che le rinunce al diritto di proprietà, di usufrutto, di superficie, di enfiteusi, comunione, servitù, uso ed abitazione devono rivestire la forma scritta, a pena di nullità, se aventi per oggetto beni immobili. Su ciò si fonda la generale conclusione che, a contrario, in tutti gli altri casi, sia sufficiente qualsiasi altra forma.
La questione si complica se si analizza la stesura stigmatizzata dell’art. 1350 n. 5, il quale recita “Devono farsi per atto o per scrittura privata autenticata sotto pena di nullità (omissis) gli atti tra vivi di rinunzia dei diritti indicati (omissis)”.
Sembra interessante, quindi, osservare come l’art. 1350 n .5 cc paia prescrivere la forma scritta per gli atti di rinunzia ad un diritto reale immobiliare nel sol caso in cui il diritto stesso costituisca l’oggetto diretto ed immediato della rinuncia.
Non si può tralasciare, in quanto autorevole concretizzazione del pensiero esposto, l’opinione espressamente sostenuta dalla giurisprudenza, secondo la quale[8] rimangono esclusi dalla disposizione in esame tutte quelle rinunce che generano ripercussioni unicamente nella sfera della titolarità dei diritti reali immobiliari, senza incidere direttamente sui diritti stessi.
Al contrario, se l’oggetto della rinuncia è rappresentato proprio dal diritto reale, è prescritta la forma scritta e la volontà di rinunziare non può essere desunta da fatti concludenti, né risultare indirettamente da altri elementi estrinseci al titolare.
Se si ritiene, come in effetti ritengono dottrina e giurisprudenza, che la rinuncia costituisca, nella maggior parte dei casi, una vera e propria fattispecie estintiva della servitù in base ai principi generali e in base all’espressa indicazione degli artt. 1350 n.5 e 2643 n.5 cc., deve ritenersi ammissibile anche la struttura unilaterale della rinuncia.
D’altra parte, il termine rinuncia viene normalmente riferito a un negozio giuridico unilaterale, mediante il quale un soggetto dismette il proprio diritto, senza che sia rilevante l’intenzione di favorire o meno un altro soggetto.
A questo punto si può tentare di forzare ulteriormente il ragionamento con la formulazione di un sillogismo: se la rinuncia costituisce un atto unilaterale tra vivi ad effetto estintivo dell’oggetto della rinuncia stessa, è possibile ipotizzare anche il verificarsi di casi di rinuncia abdicativa con la struttura di un atto unilaterale non recettizio.
La giurisprudenza[9] ha studiato il problema e ritiene che sia sufficiente, al fine del perfezionamento di tale meccanismo e sulla base del concetto di servitù intesa come “utilitas” che il fondo dominante trae, che la volontà di rinuncia venga unicamente esteriorizzata. Non si richiede, per la validità, che venga portata a conoscenza del soggetto interessato, ossia del proprietario del fondo servente.
La Suprema Corte[10] a questo proposito statuisce che la rinuncia della servitù prediale è operativa indipendentemente dal consenso della controparte del contratto costitutivo dello stesso diritto; ne consegue che ogni obbligo od onere, di fare partecipare il fondo servente, a carico proprietario dominante, unico legittimato a compiere la rinuncia, viene meno e decade automaticamente.
Infatti, è nella logica della ratio della servitù che il proprietario del fondo servente non abbia motivo di argomentare per sostenere un danno subito a fronte di una rinuncia, cui egli stesso non ha acconsentito; il proprietario del fondo servente che subisce un peso imposto a favore del fondo dominante e non ne trae alcun vantaggio, sarà lieto della liberazione dal peso prediale e della ri-espansione del suo diritto di proprietà.
Proprio per tali motivi la comunicazione di un atto unilaterale di recesso non richiede particolari formalità; è sempre efficace in quanto non è finalizzata a cercare un accordo tra le due parti del rapporto, e’sufficiente che l’atto sia conosciuto dalla controparte, nei suoi elementi essenziali[11]. La natura di atto unilaterale non recettizio della rinuncia consente al proprietario del fondo dominante di non preoccuparsi dell’effettiva ricezione dell’atto; non esiste un vero destinatario, è solo importante che la volontà venga esteriorizzata, non è necessario che venga portata a conoscenza del soggetto nel senso letterale del termine.
E’ opportuno, a tal punto, chiarire la nozione di dichiarazione recettizia, di quella dichiarazione efficace giuridicamente solo nel momento in cui viene recepita da soggetti individuati.
In dottrina si operano dei distinguo in ragione della necessaria recettizietà o meno; tra le dichiarazioni necessariamente recettizie si individuano quelle la cui natura rende inconcepibile l’efficacia finché non siano state conosciute[12] e quelle rispetto alle quali la conoscenza assolve ad una funzione garantistica, poiché producono riflessi negativi sulla sfera altrui.
Al di fuori di queste due categorie caratterizzate dall’assoluta recettizietà, è possibile individuare dichiarazioni rivolte a persone determinate, ma la cui efficacia è indipendente dalla conoscenza del destinatario[13].
La caratteristica essenziale e principale della dichiarazione recettizia è, appunto, la necessaria recezione, che si identifica nella trasmissione, ossia nel risultato di un’operazione compiuta dal dichiarante, nettamente distinta dalla dichiarazione in sé e per sé.
Conclusioni
Partendo dalla distinzione di base “recettizio-non recettizio”, è consentito ai contraenti, nell’ambito degli accordi negoziali, di trasformare in non recettizio ciò che per norma di legge lo sarebbe, e viceversa, salvo, ovviamente, si tratti di norma inderogabile.
In questo modo si procede con riferimento alla servitù; infatti, in assenza di divieti legali inderogabili, il proprietario del fondo dominante può rinunciare al vantaggio prediale esteriorizzando la volontà in qualsiasi modo, non sacramentale, purché chiaro e incompatibile con la conservazione del peso prediale, senza darne necessariamente notizia al proprietario del servente.
Tuttavia, nell’intento di concretizzare un atto di rinuncia di servitù, considerato che, in primo luogo, secondo l’opinione prevalente, l’atto di rinuncia avente come oggetto il vero proprio diritto di servitù, deve rivestire la forma scritta, sotto pena di nullità ex art. 1350 n. 5 c.c[14], in secondo luogo che la rinuncia è un atto unilaterale e che gli atti unilaterali sono soggetti alla disciplina dell’art.1334 cc., ossia hanno efficacia dal momento in cui pervengono a conoscenza del destinatario, sembra opportuno redigere l’atto di rinuncia per iscritto unicamente da parte del titolare del fondo dominante e spedire con lettera raccomandata R/R l’atto stesso al titolare del servente, affinché ne abbia effettiva conoscenza.
Si badi bene:questo suggerimento non esclude quanto detto supra, ma si reputa giuridicamente valida, più di qualsiasi altra modalità di “esteriorizzazione”, la rinuncia mediante invio alla controparte di una lettera raccomandata R/R.
D’altra parte, non interesserà il buon fine della comunicazione né l’eventuale disaccordo, in quanto sarà ineluttabile la conseguenza, come suggerisce la Suprema Corte[15], del venir meno di ogni obbligo del proprietario del fondo dominante attinente alla conservazione e all’esercizio della servitù ed alle relative successive spese.
In ultima analisi non bisogna sottovalutare la finalità dell’obbligo della trascrizione degli atti di rinuncia ai diritti reali statuita dall’art. 2643 n. 5 cc..
Si tratta di pubblicità dichiarativa[16], ossia requisito necessario, oltre che sufficiente, per rendere opponibile ai terzi l’atto.
Si puntualizza che il numero dell’articolo sopracitato disciplina la trascrizione della rinuncia unilaterale e di quelle operate a mezzo di contratto estintivo, viceversa le rinunce traslative, poiché si tratta di atti di trasferimento di beni immobili, sono disciplinate dal n.1 dell’art. 2643.
Dott.ssa Natalia Rossi
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Note
[1] Cass. Civ. sez. II 2 novembre 1994, n.8996;
[2] In realtà non sussiste una vera e propria esigenza di indicare nell’atto costitutivo la descrizione analitica dei rispettivi fondi, è sufficiente la loro desumibilità dal contesto dell’atto, come si legge in Cass. Civ. sez. II 28 giugno 2000, n. 8802.
[3] La legge nomina espressamente all’art. 1058 cc. il contratto, quale causa costitutiva delle servitù volontarie, non nomina il contratto estintivo tra lle cause di estinzione, né tra quelle modificative, ma è indubbio che le parti possano utilizzare il contratto in base all’art. 1321 cc. In tal senso si pronuncia Cass. 17/12/1957 n. 4719.
[4] “La rinuncia alla servitù può anche essere stipulata a titolo gratuito, sempre però con atto bilaterale” in Formulario degli atti notarili 2002, Torino, UTET
[5] “Il diritto di abitazione nella circolazione dei beni” Studio Consiglio Nazionale del Notariato 22 giugno 1999, n. 2344; Cass. Civ.sez. II 21 gennaio 2000, n. 642, commento M. Caccavale;
[6] V. Roppo “le liberalita’ fra disciplina civilistica e norme fiscali”. Relazione al convegno “Liberalità – tra disciplina civilistica e norme fiscali”, organizzato dal Comitato Notarile II Zona e dal Consiglio Notarile di Genova (Genova, 10 febbraio 2001).
[7] B. Ianniello “Soppressione parziale per imposta di donazione” in Guida al diritto 2001 n. 43, pag. 45.
[8] Cass. civile 6-7-1984 n. 3965.
[9] Cass. Civ. 30 marzo 1985 n. 2228; Cass. civile sez. II, 21 febbraio 1995, n. 1882.
[10] Cass. civile 20 /12/1989 n. 5759
[11] Cass. civile, sez. I 21 aprile 1983 n. 2741, Tribunale Verona, 25 novembre 1994, Cass. civile sez. II, 21 febbraio 1995, n.1882.
[12] Ad es. intimazioni e proposte o come la dichiarazione di riscatto e il recesso dal contratto.
[13] Ad es. primo fra tutti, il riconoscimento del figlio naturale, che è valido anche all’insaputa del figlio, o la convalida del contratto, che è valida anche nell’ignoranza dell’altro contraente, o ancora la rinuncia al diritto di usufrutto, che produce effetto anche se il proprietario non ne è a conoscenza.
[14] Cass. civile, sez. II, 5 febbraio 1980 n. 835
[15] Cass. civile, sez. II, 20 dicembre 1989 n. 5759.
[16] Cervelli, “Trascrizione ed ipoteca”, 5, 2002, Milano, Giuffrè
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