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Oggi si sente molto spesso parlare del termine outsourcing quale forma di decentramento produttivo attuata dall’imprenditore mediante l’affidamento dell’esecuzione di una parte della propria attività a soggetti terzi, non legati allo stesso da un rapporto di lavoro subordinato. La profonda trasformazione del mercato del lavoro, i costi sempre più elevati e la scarsissima flessibilità del personale, hanno spinto l’imprenditore a trovare soluzioni alternative alla realizzazione in proprio di tutte le attività ed i servizi aziendali. L’affermarsi di nuovi processi produttivi quindi hanno indotto le aziende a decentrare o esternalizzare una parte consistente della loro produzione, determinando l’emersione di nuove figure professionali caratterizzate per loro natura da ampi margini di autonomia gestionale ed organizzativa quali i rapporti collaborazione.
Parlare dei caratteri differenziali del contratto di collaborazione rispetto a quello di lavoro subordinato, significa affrontare, seppur brevemente, la questione dei caratteri distintivi del lavoro autonomo rispetto a quello subordinato.
In un primo momento la giurisprudenza ha utilizzato il c.d. metodo tipologico secondo il quale attraverso l’individuazione nel caso concreto degli indici di subordinazione, quali ad esempio l’orario di lavoro vincolante, la retribuzione predeterminata, l’esclusività della prestazione, l’estraneità al rischio d’impresa, si era in grado di valutare l’esistenza o meno di un rapporto di subordinazione.[1]
In realtà molto spesso questi indici contribuivano a creare una grandissima incertezza, anche perché ciascuno di essi non poteva essere ritenuto un elemento né necessario, né esclusivo del lavoro subordinato, potendo anche essere rinvenuto nel lavoro autonomo.
Proprio a seguito di questa analisi la giurisprudenza successiva ha dunque mutato il proprio orientamento, affermando che l’indagine sull’esistenza del vincolo della subordinazione, doveva prendere in considerazione sia la volontà delle parti espressa al momento della conclusione del contratto, sia il vincolo della subordinazione inteso come assoggettamento del prestatore d’opera al potere disciplinare e gerarchico del datore di lavoro.[2]
I c.d. indici di subordinazione avrebbero avuto dunque solo un valore secondario e sussidiario nella qualificazione del rapporto.
Proprio nella zona di confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo si colloca la fattispecie del lavoro c.d. parasubordinato di cui il contratto di collaborazione è espressione.
La disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative trova la sua definizione non nel codice civile bensì in disposizioni di altre leggi.
La prima è quella fornita dall’art.2 della legge n.741 del 1959 [3] che, oltre a riferirsi ai rapporti di lavoro subordinato, citava “i rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni d’opera continuativa e coordinata”.
La seconda va ricercata all’interno del codice di procedura civile, in particolare nell’art.409 che estende le norme sul processo del lavoro “ ai rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Un’ulteriore definizione è contenuta nell’art.49 del D.P.R. n. 917/1986, testo unico delle imposte sui redditi:“ Sono redditi di lavoro autonomo: a)….. i redditi derivanti…da altri rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Si considerano tali rapporti…che pur avendo contenuto intrinsecamente artistico e professionale[4], sono svolti senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.”[5]
Gli elementi distintivi di questo rapporto di lavoro sono rappresentati dunque dalla continuità, che ricorre quando la prestazione non sia occasionale, ma perduri nel tempo; dalla coordinazione, intesa come inserimento del collaboratore nell’organizzazione del committente e nelle finalità da questo perseguite; dalla prevalenza del lavoro del collaboratore rispetto ai mezzi da lui forniti.
In sintesi, si può affermare che l’elemento distintivo del lavoro parasubordinato rispetto a quello subordinato sta proprio nell’ampia autonomia concessa al prestatore nella realizzazione concreta del programma negoziale concordato.
Va sottolineato come, secondo la giurisprudenza, la sussistenza in concreto degli elementi costitutivi della fattispecie non deve risultare necessariamente dal contratto, ma può emergere anche dalle concrete modalità di svolgimento della prestazione[6].
La prevalenza dell’attività personale è compatibile con l’utilizzazione di mezzi tecnici e di collaboratori, purchè l’opera diretta del collaboratore resti decisiva e non si limiti all’organizzazione di beni strumentali o di lavoro altrui.[7]
Il requisito della personalità è escluso invece quando il titolare del rapporto di collaborazione non sia una persona fisica, bensì una società; questa esclusione vale anche per le società prive di personalità giuridica, come le società di persone, di fatto o in nome collettivo, sul presupposto che “ tali società, non potendosi identificare con le persone fisiche dei soci, non sono in grado, per definizione, di prestare un’opera prevalentemente personale.[8]
L’obbligazione principale del collaboratore consiste nel prestare personalmente l’attività oggetto del contratto a favore e nell’interesse del committente. Nell’adempimento di tale obbligazione il collaboratore è tenuto ad agire secondo i canoni di diligenza di cui all’ art. 1176 c.c. valutabili secondo la natura dell’attività dedotta nel contratto e secondo i criteri tecnici da questa richiesta; un adempimento non conforme a tali principi quindi determinerà un inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Il committente invece è tenuto a corrispondere al collaboratore il compenso pattuito nel contratto: in mancanza di una specifica previsione negoziale troverà applicazione l’art.2225 c.c., con determinazione del compenso secondo gli usi o, nell’ipotesi in cui il collaboratore sia un professionista, secondo le tariffe inderogabili previste dall’ordine o collegio professionale di appartenenza[9]; eventuali deroghe sono nulle con sostituzione automatica ex art. 1419 c.c.[10]
Per quanto riguarda invece le numerose norme che il legislatore ha dettato per la tutela del lavoratore subordinato, la Suprema Corte [11] si è sempre pronunciata nel senso di escluderne l’applicabilità al rapporto di collaborazione e agli altri contratti previsti dall’art. 409 comma 3 del c.p.c.
Sono applicabili dunque ai rapporti in oggetto esclusivamente le norme relative al processo del lavoro[12], la disciplina delle rinunzie e transazioni[13]; la tutela previdenziale e pensionistica, per la maternità e assegni familiari[14] , nonché quella contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali[15] e il regime fiscale del lavoro dipendente[16].
Per quanto attiene alla disciplina del recesso, bisogna distinguere il caso in cui il contratto di collaborazione preveda un termine espressamente pattuito dalle parti e il caso in cui sia stipulato a tempo indeterminato.
Nel primo caso, un eventuale recesso anticipato si porrebbe in contrasto con l’art. 1372 c.c. e cioè con la pattuizione del termine di durata del rapporto, configurando un risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1223 c.c..; qualora il committente decidesse in ogni caso di recedere ante tempus, sarà tenuto dunque a corrispondere al collaboratore sia il lucro cessante, che l’eventuale danno emergente. Ma, nel caso in cui il collaboratore abbia colposamente concorso alla produzione del danno, il risarcimento sarà diminuito ex art 1227c.c., secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.
Nel caso di un contratto di collaborazione a tempo indeterminato, vista la particolare natura fiduciaria che caratterizza il rapporto, il committente potrà esercitare il proprio recesso ad nutum, senza periodo di preavviso, né relativa indennità sostitutiva a meno che le parti non lo abbiano espressamente stabilito nel contatto.
Il crescente interesse nei confronti del contratto di collaborazione, è avvertito anche dal legislatore ordinario. Nella riforma Biagi sul mercato del lavoro infatti[17], l’ art. 4 comma 1 lett. c detta i principi e i criteri direttivi che il governo dovrà seguire nella disciplina e razionalizzazione di questa tipologia contrattuale.[18]
L’intervento del legislatore si è reso necessario proprio per evitare l’utilizzazione delle collaborazioni in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato.
Una prima indicazione importante che emerge dalla legge delega, è quella relativa al corrispettivo che dovrà essere “ proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato”, in modo da garantire al collaboratore una retribuzione sufficiente e degna della prestazione di lavoro offerta al datore.
L’art 4 comma 1 lett. c della legge n.30/2003 prevede inoltre che il contratto di collaborazione dovrà essere redatto in forma scritta. Verranno dunque ricondotti a questa tipologia tutti rapporti in cui il lavoratore assumerà stabilmente, senza vincolo di subordinazione, l’incarico di eseguire, con lavoro prevalentemente o esclusivamente proprio, un progetto o un programma di lavoro, o una fase di questo, concordando con il datore le modalità di esecuzione, la durata, i criteri e i tempi di corresponsione del compenso.
Le collaborazioni coordinate e continuative verranno poi distinte dalle prestazioni di lavoro occasionale e accessorio che saranno caratterizzate sia per la durata (non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente ), sia per l’ammontare del compenso (non superiore a 5mila euro), nonché per carattere dell’accessorietà relativo all’attività che il lavoratore andrà a svolgere all’interno dell’azienda.
Nella legge delega vengono poi previste tutta una serie tutele fondamentali a presidio della dignita’ e della sicurezza dei collaboratori, con particolare riferimento a maternita’, malattia e infortunio, nonche’ alla sicurezza nei luoghi di lavoro.
La riforma dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa si conclude infine con la previsione di adeguati meccanismi di certificazione della volontà delle parti contraenti al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro.
Note:
[1] Cass. S.U. 11 febbraio 1987, n.1463, in Mass. Giur. Lav., 1987, 98.
[2] Cass. 25 luglio 1994, n.6919, in Giust. Civ. 1995, 3121.
[3] La legge n.741 del 1959 delegava il governo nella fissazione di minimi di trattamento conformi alle clausole dei contratti e accordi collettivi.
[4] In realtà l’art. 34 del collegato fiscale alla finanziaria per il 2000, legge n. 342 del 21 novembre 2000, ha eliminato l’inciso “ pur avendo un contenuto intrinsecamente artistico e professionale. Dunque sono considerate collaborazioni coordinate e continuative anche le prestazioni semplicemente materiali quali le attività di consegna, di pulizia, di manutenzione generica….
[5] Va precisato che, di recente, l’ art. 34 del collegato alla finanziaria per il 2000, ha modificato l’art. 49 comma 2 del testo unico delle imposte sui redditi, stabilendo che con decorrenza 1 gennaio 2001, il reddito derivante dallo svolgimento di attività di collaborazione coordinata e continuativa è assoggettato a tassazione non più in base alle specifiche regole di lavoro autonomo, bensì secondo le regole di reddito da lavoro dipendente di cui all’art. 48 D.P.R: n. 917 del 1986.
[6] Cass. 26 ottobre 1990, n.10382, MGL, 1991.
[7] Cass. 24 marzo 1994, n.2936, MGL, 1994.
[8] Cass. 18 novembre 1994, n.9775; Cass. 5 ottobre 1983, n.5796; Cass 4 dicembre 1980, n.6323. In alcune sentenze la Corte ha sostenuto, in relazione alle società di fatto e alle ditte individuali, che non è possibile aprioristicamente escludere il carattere prevalentemente personale della prestazione, ma l’accertamento deve condursi avendo riguardo alle concrete modalità di adempimento dell’attività lavorativa ( Cass. 3 giugno 1997, n.4928 ).
[9] Va ricordato che nel caso di mancata iscrizione ad un albo o ordine dei collaboratori, allorché sia prevista per l’esercizio dell’attività svolta, ciò determina la radicale nullità del contratto e la conseguente impossibilità di agire per il pagamento del compenso; il collaboratore potrà al massimo ripetere le anticipazioni effettuate per conto del committente.
[10] Cass 26 luglio 1996, n.6752 prevede nel caso di mancata determinazione del compenso, che questa venga operata equitativamente da parte del giudice tenendo conto del risultato ottenuto e del lavoro normalmente necessario per ottenerlo.
[11] Cass. 7 aprile 987, n.3400 e Cass. 21 marzo 1996, n.2420.
[12] In particolare oltre all’art. 409 c.p.c., si applica il criterio di favore per la competenza territoriale individuata in base al domicilio del lavoratore ( art. 413, comma 4 c.p.c.) e la disciplina relativa agli interessi e rivalutazione monetaria, (art. 429 comma 3 c.p.c.).
[13] Art. 2113 c.c.
[14] Art. 2 comma 26 e ss. Legge 335 del 1995; art. 1 comma 212 e ss. Legge 662 del 1996; art 59 comma 16 legge n. 449 del 1997; art. 80 comma 12 legge n.388 del 2000: art 64 d.lgs. 151 del 2001.
[15] Art. 5 d.lgs. 388 del 2000.
[16] Art.34 legge n.342 del 2000.
[17] Legge 14 febbraio 2003, n. 30 “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, pubblicata sulle G.U. n.47 del 26 febbraio 2003, in vigore dal 13 marzo 2003.
[18] L’art. 4 detta inoltre i criteri e i principi direttivi a cui il Governo dovrà ispirarsi nella disciplina di altre tipologie di lavoro quali quello a chiamata, temporaneo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite.
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