di Enrico Lanza
1. Introduzione. 2. Il delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino degli stranieri. 3. Il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale. 4. L’esimente dell’art. 12, comma 2°, t.u. 5. Conclusioni.
1. Introduzione
Le ragioni dell’abbandono dei luoghi d’origine, per approdare in contesti territoriali, sociali, economici e culturali a volte diametralmente opposti ai propri, costituiscono tema di grande complessità, da affrontare ed analizzare con gli strumenti delle scienze sociali; in una disamina solo giuridica sono considerate acclarate affermazioni che, pur meritando un’approfondita e critica attenzione nelle sedi opportune, fanno parte del bagaglio culturale di generale percezione.
Ciò premesso, non può non rilevarsi come l’immigrazione costituisca un fenomeno, da sempre esistito e dalla dimensione progressivamente crescente, che nasce dalle differenze presenti nelle realtà locali e dall’aspirazione dell’uomo al superamento di queste, estrinsecazione del bisogno di raggiungimento di un eden terreno.
Ovviamente non sono univoche le motivazioni del partire, pure in tensione fra bisogno di sopravvivenza ed aspirazioni ‘marcopoliste’, fra nostalgico abbandono e nomadismo ideologico. Lo stereotipo dell’immigrato, che si ha in mente, è quello tuttavia dell’emarginato in condizioni di miseria, alla disperata ricerca di una terra generosa, più generosa della sua: questi si ritiene arrechi nell’immediato pregiudizi alla tranquillità ed alla pace collettive.
La ricerca del lavoro e della felicità si scontra inevitabilmente con grandi problemi pratici, a cominciare da quelli relativi alla disponibilità ed alla capacità degli stati destinatari dei flussi di fornire le occasioni cercate dagli immigrati[1].
La problematica dell’immigrazione trova così ampio spazio nelle testate dei quotidiani, considerata quasi come una piaga sociale[2], per un verso da regolamentare, anche perché c’è bisogno di manodopera che svolga le attività manuali più umili e logoranti, che i cittadini rifiutano, per altro verso da reprimere, per una sorta di difesa patriottica dei confini dalle invasioni di gente di diversa nazionalità, causa di disordine pubblico e criminalità[3].
Si scontrano, vien detto, due modelli di società, eredi dell’ideale, ormai in crisi, dello stato-nazione: il modello ‘neogiacobino’, di una società universale multirazziale, in cui hanno minore rilevanza i legami culturali, linguistici, comportamentali, storici, assiologici, religiosi, che sono il presupposto per definire come nazione un gruppo sociale, e nel quale si diventa cittadini per atto dello Stato; ed il modello ‘cristiano’, in cui è recuperata l’idea dello stato-nazione ed il problema dell’immigrazione deve essere oggetto di puntuale disciplina, poiché il diritto di trasferirsi in un contesto diverso da quello d’origine va comunque conquistato[4].
Il legislatore italiano ha tentato di mettere ordine nella materia dell’immigrazione attraverso la predisposizione di un testo di legge organico ed esaustivo, in cui fossero previste ed avessero risposta adeguata tutte le questioni concernenti l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri in Italia[5]. Così, il decreto legislativo n. 286 del 1998[6], Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, ha sostituito la normazione precedente, segnatamente la legge 28 febbraio 1990 n. 39, c.d. Martelli, che nel corso del tempo aveva mostrato tante lacune ed inefficienze operative[7].
Malgrado le intenzioni il prodotto normativo – precipuamente dal punto di vista penalistico della presente disamina – risulta connotato da alcuni limiti conseguenti all’adozione di soluzioni empiriche rimediate per far fronte, in un’ottica emergenziale, a difficoltà di tipo pratico[8].
In un momento di transizione politica come l’attuale, si rende opportuna una riflessione sulle opzioni normative del testo unico; gli organi di governo dovranno inevitabilmente affrontare il problema, divenuto complicato e spinoso, della gestione dell’immigrazione clandestina.
Scopo del presente lavoro è fornire una rappresentazione delle attuali norme penali previste per la repressione del fenomeno, nonché di indicare una possibile razionalizzazione della materia nei punti che appaiono più deboli, tralasciando per ragioni di sintesi l’analisi dell’istituto delle espulsioni. In particolare, non potrà trascurarsi l’analisi circa l’utilità dell’incriminazione penale dell’ingresso in Italia in violazione delle norme del testo unico.
2. Il delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino degli stranieri
Nel sistema politico-istituzionale ci si interessa dell’immigrazione soprattutto per ragioni di equilibrio interno, nel tentativo di reprimere il fenomeno dei flussi indiscriminati di stranieri, privi dei requisiti prescritti dalla legge[9]. Per realizzare questo obiettivo sono state previste delle norme penali specifiche.
Il primo comma dell’art. 12 del testo unico sull’immigrazione contempla il delitto di favoreggiamento dell’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle norme del medesimo testo unico. La previsione merita considerazione particolare, dal punto di vista sia tecnico che politico-criminale, perché la condotta incriminata incide su un comportamento non sanzionato penalmente. Non v’è, infatti, nel nostro diritto positivo, alcuna disposizione che punisca il mero ingresso clandestino dello straniero, che dunque non costituisce reato ma solo un fatto rilevante in via amministrativa e causa di espulsione[10]. L’anomalia appare evidente in confronto alle ipotesi codicistiche di favoreggiamento, degli artt. 378 e 379 c.p., in cui si presuppone un’attività favorita penalmente illecita[11]. In effetti, il problema può essere considerato analogo a quello concernente il delitto di favoreggiamento della prostituzione.
La scelta del legislatore, tuttavia, non va ritenuta solo come la causa di un problema di coerenza logico-sistemica, ma soprattutto come la rappresentazione di una profonda ambiguità nelle norme in materia d’immigrazione[12], che si evince particolarmente nell’individuazione del bene giuridico tutelato dal delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino.
Da un punto di vista sostanziale tale soluzione non è passibile di alcuna censura, anzi può apparire concretizzazione di un principio importantissimo in materia penale: l’extrema ratio del ricorso alla pena. Ogni qual volta, cioè, lo stesso risultato perseguibile con la sanzione penale possa raggiungersi in modo diverso, con strumenti meno coercitivi, è necessario preferire questi ultimi, in omaggio al principio generale di sussidiarietà. Così, la mancata criminalizzazione dell’ingresso clandestino può derivare dalla convinzione della sufficienza della misura amministrativa dell’espulsione per garantire la collettività contro il fenomeno migratorio irregolare; anzi, dalla preferibilità di questa misura in luogo della necessità di celebrare il processo penale.
Le perplessità sorgono, invero, perché le norme della legge non sembrano univocamente determinate da questa idea, ma appaiono piuttosto un altro esempio di legislazione emergenziale, tendente a sedare le proteste dell’opinione pubblica contro gli sbarchi incontrollati degli extracomunitari, senza tuttavia una riflessione attenta sulle implicazioni sistemiche. Il fenomeno immigratorio viene osteggiato non per il danno immediato derivante dall’ingresso degli stranieri entro i confini dello Stato, quanto per le conseguenze che da questi flussi incontrollati possono discendere. È diffuso il convincimento (e l’esperienza sembra esserne riprova, o quantomeno l’enfasi giornalistica sulle vicende di cronaca vuole fornire questa impressione) che l’arrivo indiscriminato degli extracomunitari, privi di lavoro e di mezzi di sostentamento, sia il presupposto dell’incremento della delittuosità, soprattutto della delittuosità comune. Si tratta quindi di un rischio riflesso, di cui si cerca di realizzare l’eliminazione attraverso forme di tutela del bene anticipatrici della soglia di punibilità.
Vi è, inoltre, la volontà di combattere le organizzazioni criminali che dal traffico di uomini traggono guadagni, e che sono le vere cause di turbamento dell’ordine e della tranquillità sociali che costituiscono l’oggetto di tutela della normativa in esame.
Si tratta, così, di una prospettiva analoga, in una certa misura, a quella che ha guidato la creazione delle figure delittuose associative, punite per il rischio insito nella stessa organizzazione e nella predisposizione e fornitura dei mezzi per commettere una pluralità di delitti[13]. In entrambi i casi è tutelato l’ordine pubblico, che è nozione intermedia e strumentale rispetto alla protezione dei beni giuridici individuali. Se, però, rispetto alle previsioni delle figure delittuose associative, la norma del testo unico sembra avere una portata più ristretta, a causa della presenza di elementi descrittivi più dettagliati, è anche vero che in essa non si richiede la presenza di un’organizzazione come presupposto materiale dell’illecito, ampliandosi così enormemente le possibilità di concreta configurazione del delitto: l’art. 416 c.p., che è l’ipotesi stereotipica dei delitti associativi, incrimina genericamente chi si associa per commettere più delitti; l’art. 12, c. 1°, t.u. sull’immigrazione punisce specificamente l’attività di favoreggiamento dell’ingresso nel territorio nazionale in violazione delle norme in materia.
In sostanza, la normativa appare il compromesso tra la logica della programmazione e regolamentazione dei flussi – di cui dovrebbe essere corollario la repressione di qualsivoglia comportamento che alteri gli equilibri auspicati –, e le istanze solidaristiche di una compagine sociale ancora incerta sull’atteggiamento da assumere verso l’immigrato, memore forse del retaggio di nazione d’emigrazione, romanticamente legata a quel ricordo, ma impreparata alla nuova condizione di realtà di destinazione.
L’ambiguità della normativa emerge, come si è detto, peculiarmente nella considerazione del bene giuridico protetto. Tale bene dovrebbe essere appunto l’ordine pubblico. Tuttavia, la condotta che principalmente può offendere questo bene è senza dubbio l’ingresso clandestino dello straniero, che causa l’alterazione degli equilibri sociali che la legge vuole difendere. Punire la sola attività agevolatrice colpisce il fenomeno nella sua veste macroscopica e più incisiva, ma lascia impunito quello che dovrebbe essere il nucleo principale del fatto: si sanziona quindi l’attività di contorno – che, quantomeno nella sua versione semplice (non aggravata), non presenta un disvalore di particolare intensità – senza colpire la condotta autonomamente lesiva del bene protetto.
Se formalmente questa soluzione non determina problemi particolari, è anche vero, come vedremo, che obiezioni possono essere mosse dal punto di vista della ragionevolezza.
Soggetto attivo del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina può essere chiunque: si tratta di un reato comune.
L’oggetto del reato consiste nel compimento di attività volte a favorire l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in violazione delle norme contenute nel testo unico sull’immigrazione.
La struttura del reato è di mera condotta ed a forma libera: non è necessario il verificarsi di alcun evento, neppure l’effettività dell’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato; per il perfezionamento della fattispecie basta il fatto di aver posto in essere un’attività diretta ad agevolare l’arrivo dello straniero. Il reato è di pericolo, in quanto per la punibilità del fatto non è necessario che si verifichi in concreto alcun danno. Si tratta appunto di una tipica ipotesi di fattispecie a consumazione anticipata, che non consente la configurazione del tentativo: ogni atto diretto in modo non equivoco all’agevolazione dell’ingresso clandestino dello straniero in Italia perfeziona già l’illecito di cui all’art. 12 citato. La giurisprudenza delinea la figura in esame come reato istantaneo, conformemente alla linea interpretativa seguita durante la vigenza della legge Martelli, il cui art. 3, comma 8°, descriveva una fattispecie del tutto analoga all’attuale. Da ciò deriva che non «assumono connotazioni di illeciti penali, secondo la norma in questione, atti o comportamenti posteriori che si pongano al di fuori» dell’attività di favoreggiamento strettamente intesa, come il trasporto dei clandestini verso altri Stati[14]. Tale esegesi è d’altronde rafforzata dall’autonoma previsione nel testo unico della punibilità di un’attività favoreggiatrice susseguente a quella che ha agevolato l’illecito ingresso, assente nella legge 39/90[15].
Il terzo comma dell’art. 12 prevede una serie di circostanze aggravanti del delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino degli stranieri, e nello specifico:
1. l’aver commesso il fatto per fine di lucro;
2. l’aver commesso il fatto in tre o più persone in concorso tra loro;
3. l’avere svolto attività per agevolare l’ingresso di cinque o più persone;
4. l’aver commesso il fatto mediante l’utilizzazione di servizi di trasporto internazionale;
5. l’aver commesso il fatto mediante l’utilizzazione di documenti contraffatti;
6. l’aver commesso il fatto al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione od allo sfruttamento della prostituzione;
7. l’aver agevolato l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento.
Si tratta di circostanze ad effetto speciale, di cui cioè la variazione penale è determinata in modo indipendente dalla sanzione edittale di base.
Desta dubbi la previsione quali circostanze aggravanti dello scopo di lucro e dell’attività concorsuale, in relazione alla significatività della fattispecie di base. Se noi consideriamo che gli sbarchi sono normalmente motivati dalle ristrettezze delle condizioni di vita nella realtà di provenienza, punire in maniera già gravosa, e nelle forme del delitto, chi semplicemente aiuta altri ad entrare in Italia – senza un proprio ritorno economico – può sembrare eccessivo. Anche l’aggravante del concorso di persone può sembrare sovrabbondante in ragione del fatto che la condotta individuale di agevolazione dell’ingresso presenta scarsa idoneità offensiva per l’ordine pubblico, in considerazione sia della disponibilità di risorse per la facilitazione degli attraversamenti delle frontiere, sia della quantità degli ingressi realizzabili.
Per lottare in maniera più efficace contro il fenomeno dell’immigrazione clandestina, il legislatore ha previsto altresì l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza ed il ricorso al giudizio direttissimo, con l’eccezione dell’ipotesi in cui occorra svolgere speciali indagini, nonché la confisca del mezzo che servì per il trasporto dei clandestini anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti. Quest’ultima previsione può considerarsi straordinaria, visto che il patteggiamento non comporta applicazione di alcuna misura di sicurezza ad eccezione della confisca nei casi in cui risulti obbligatoria ex art. 240, comma 2°, c.p.
3. Il delitto di favoreggiamento della permanenza illegale
Nel quinto comma dell’art. 12 è stata prevista un’altra fattispecie delittuosa relativa all’immigrazione, di favoreggiamento della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato in violazione delle norme del testo unico.
La disposizione è connotata dalle medesime ambiguità dell’illecito di agevolazione dell’ingresso, per l’incidenza della condotta criminosa su di un fatto penalmente non rilevante. Malgrado questa similitudine, tra le due ipotesi esiste un’importante differenza, relativa all’atteggiamento soggettivo che deve qualificare le condotte interdette. Mentre, infatti, per il concretarsi del delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino sono sufficienti la consapevolezza e la volontà di compiere attività dirette a trasgredire le norme del testo unico sull’immigrazione, il reato di favoreggiamento della permanenza prevede, innanzitutto, come elemento di fattispecie, il «fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero»: è questa una tipica ipotesi di dolo specifico, che riduce l’ambito di operatività della disposizione.
L’agevolazione della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato è punita inoltre quando l’agente abbia operato «nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo». Invero difficile appare l’esegesi di questa disposizione. La giurisprudenza ha ritenuto che la norma, per quanto ambigua e mal formulata, si riferisca alle condotte di agevolazione del soggiorno in Italia caratterizzate dall’intento di reclutare persone da destinare alla prostituzione o minori da sfruttare in attività illecite[16]. Infatti, l’ambito delle attività punite a norma dell’art. 12 è costituito dal favoreggiamento dell’ingresso clandestino di cui al primo comma e dalle relative ipotesi aggravate di cui al terzo comma. Premesso che il carattere residuale del quinto comma, che si apre con una clausola di riserva, fa sì che questo trovi applicazione solo quando non sia ravvisabile un’attività di concorso nel più grave delitto di cui al primo comma, anche ovviamente nella forma circostanziata, per individuare l’esatto ambito di operatività della norma non possono rilevare in maniera specifica le circostanze aggravanti diverse dal fine di prostituzione e di sfruttamento dei minori perché esse non costituiscono comportamenti in grado di manifestarsi autonomamente rispetto alla figura-base. La realizzazione della fattispecie in concorso o l’uso di vettori internazionali, così come altre circostanze, rappresentano, infatti, mere modalità di esecuzione del favoreggiamento dell’ingresso illegale, mentre la finalità di lucro costituisce già il dolo specifico del reato di agevolazione della permanenza e, quindi, non ha rilevanza ulteriore.
Se, invece, ritenessimo che «nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo» rientrino tutte le condotte in qualsivoglia misura collegate all’ingresso clandestino – anche indirettamente –, vanificheremmo nella sostanza la funzione restrittiva del dolo specifico perché risulterebbero puniti tutti i comportamenti che hanno come presupposto in senso ampio l’ingresso clandestino, tentato o consumato[17]. Il fine di trarre un ingiusto profitto riassumerebbe rilevanza solo in una serie di casi: per discernere i fatti punibili e quelli non punibili nel favoreggiamento della permanenza di chi è entrato regolarmente in Italia, ma ha poi perduto i titoli di legittimazione. L’art. 12 – con esclusione del quinto comma – incrimina, infatti, soltanto le condotte ausiliarie dell’ingresso clandestino; quindi, la permanenza in Italia in seguito alla perdita del titolo di legittimazione non rientra nell’ambito delle attività punite a norma del citato articolo. Coloro i quali agevolano la permanenza di chi ha perduto il permesso di soggiorno saranno punibili solo se ne ricavano un ingiusto profitto.
Si potrebbe, però, giungere anche ad una soluzione ermeneutica diversa, attraverso una lettura dell’inciso «nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo» in correlazione non con la finalità lucrativa, bensì con la condizione di illegalità dello straniero. Si potrebbe, cioè, sostenere che è punito chi favorisce la permanenza dello straniero in violazione delle disposizioni del testo unico quando sia mosso o dall’intento di trarre un ingiusto profitto dalla sua condizione di illegalità o dal fine di conseguire un vantaggio nell’ambito delle attività punite a norma dell’art. 12. Esempio della prima ipotesi si avrebbe nella condotta del padrone di casa che chiede un esorbitante affitto allo straniero e non paga le relative imposte, sicuro che non sarà mai denunciato: la condizione di illegalità è lo strumento che consente all’agente di ottenere un vantaggio ingiusto. Il secondo caso sarebbe quello di chi, ad esempio, agevola la prostituzione per un proprio ritorno, escludendosi la rilevanza penale di quei comportamenti favoreggiatori non connotati dal dolo specifico e che sarebbero punibili secondo l’esegesi tradizionale della norma. Se così si ritenesse, però, il risultato sarebbe un pleonastico affiancamento di concetti analoghi, che nessuna utilità presenterebbe per una migliore e più corretta applicazione della fattispecie.
La più esatta interpretazione sembra quella che ricollega i due requisiti della fattispecie incriminatrice a situazioni diverse. Nel caso del favoreggiamento della permanenza nell’ambito delle attività punite a norma dell’art. 12, è presupposto l’ingresso irregolare dello straniero: la previsione avrebbe, in tal caso, funzione di completamento della tutela del bene quando la sua compromissione derivi da condotte ulteriori rispetto alla mera agevolazione dell’ingresso. Dobbiamo trovarci al di fuori delle ipotesi di concorso nel più grave delitto del primo comma, secondo uno schema del tutto analogo a quello che coordina i delitti di associazione di tipo mafioso e di assistenza agli associati. Il fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero qualificherebbe le condotte rilevanti soltanto quando la condizione di irregolarità sia stata acquisita in una fase successiva all’ingresso lecito.
Anche il delitto di agevolazione della permanenza illegale va considerato come reato di mera condotta, malgrado la differenza lessicale rispetto al reato di favoreggiamento dell’ingresso clandestino. In quest’ultimo caso, infatti, il legislatore punisce chi compie attività dirette a favorire l’illecito ingresso, mentre il quinto comma sanziona chi favorisce la permanenza. La giurisprudenza si è chiesta se questa diversità terminologica sottintenda una scelta di merito, precipuamente la configurazione del delitto di favoreggiamento della permanenza come reato d’evento, per il cui concretarsi sia cioè necessaria la presenza, protratta per un certo periodo, dello straniero nel territorio dello Stato. La risposta è stata negativa, nel senso che il delitto in questione, presupponendo una permanenza che spesso è addebitabile esclusivamente allo straniero, va inteso come reato di pura condotta, in cui assumono perciò connotazione di illecito penale tutte le attività che si pongono in direzione della permanenza, senza che questo aspetto assurga ad elemento costitutivo di fattispecie[18].
Una puntualizzazione va fatta nel raffronto tra la disposizione citata e quella dell’art. 22, comma 10°, t.u., che punisce con l’arresto da tre mesi ad un anno o con l’ammenda da lire due milioni a lire sei milioni il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato[19]. La questione si pone perché il più diffuso dei comportamenti di agevolazione della permanenza realizzati per finalità di lucro è quello del datore di lavoro che sfrutta il clandestino sottopagandolo e non versando i contributi dovuti. La differenza tra le due fattispecie sta nell’assenza del dolo specifico nel reato di cui all’art. 22, comma 10°, t.u., ovvero nella maggiore pericolosità della condotta di chi agevola la permanenza di stranieri irregolari per approfittarne ingiustamente rispetto a quella del datore di lavoro che non abbia questa finalità.
Non può escludersi, però, che l’impiego della manovalanza clandestina costituisca comunque un ingiusto vantaggio per il datore di lavoro. Chi assume personale irregolare non potrà versare i contributi perché sarebbe immediatamente scoperto; il risparmio degli oneri contributivi può rappresentare così quell’ingiusto profitto costitutivo della fattispecie di cui all’art. 12, comma 5°, t.u. e si determinerebbe in tal modo la sostanziale vanificazione della portata applicativa dell’art. 22, comma 10°[20].
4. L’esimente dell’art. 12, comma 2°, t.u.
Il secondo comma dell’art. 12, fatta salva la portata dell’art. 54 c.p., indica ulteriori casi di esclusione dell’antigiuridicità, che gravitano nell’orbita dello stato di necessità senza presentarne tutti gli elementi caratterizzanti: si vuole, così, evidentemente, ampliare la gamma delle possibili esenzioni da pena. Si statuisce, più in generale, che non costituiscono reato le attività di soccorso ed assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato.
È probabile che la norma avrebbe potuto essere omessa senza frustrare le esigenze che ne costituiscono la ragione. Infatti, la condizione di bisogno dello straniero potrebbe essere considerata riconducibile al pericolo di danno grave alla persona di cui all’art. 54 c.p., da essere quindi i fatti scriminabili ai sensi dell’art. 12, 2° comma, t.u. comunque esenti da reazione penale in virtù di quell’esimente generale. È però vero, anche, che la formulazione dell’art. 12, 2° comma, è molto più elastica di quella dell’art. 54 c.p., non facendosi nel primo ricorso esplicito ai concetti di “costrizione”, “necessità” e “inevitabilità altrimenti del pericolo”, che restringono l’utilizzabilità della fattispecie comune consentendo la giustificazione di quei comportamenti realmente determinati da ragioni di tutela di beni di rango quantomeno paritetico a quelli compromessi. Così, il legislatore del 1998 ha voluto sedare ogni perplessità scriminando genericamente tutte le condotte occasionate da esigenze umanitarie, quand’anche non siano realizzati i parametri dello stato di necessità.
La critica più rilevante concerne la collocazione della norma, in quanto essa non appare eccezione alla regola di cui al primo comma, bensì rispetto all’illecito di favoreggiamento della permanenza nel territorio dello Stato, di cui al quinto comma della disposizione. Essendo, infatti, logico presupposto della causa di giustificazione la presenza nel territorio, sarebbe stato più coerente porre l’esimente dopo il comma che punisce l’agevolazione della permanenza nel territorio dello Stato. Anche in tal caso, però, non vi sarebbe stata alcuna specifica esigenza della previsione, perché il delitto da ultimo citato, da un canto, è caratterizzato dalla presenza del dolo specifico del fine di trarre un ingiusto profitto – e quindi escluso già di per sé dallo scopo umanitario di cui al secondo comma –, d’altro canto, è connotato pure dalle diverse attività punite nello stesso articolo, con cui parimenti è del tutto contraddittorio il fine umanitario.
La norma potrebbe essere letta in correlazione con il disposto dell’art. 10, comma 2°, lett. b, t.u., per cui si deve procedere al respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero, privo dei requisiti richiesti per l’ingresso regolare in Italia, ma temporaneamente ammesso nel territorio per necessità di pubblico soccorso. Con la causa di giustificazione dell’art. 12, comma 2°, t.u. si sarebbe voluto escludere, in effetti, qualsiasi residuo di responsabilità in capo agli ufficiali o agenti della polizia di frontiera che possano aver accolto stranieri irregolari bisognosi d’aiuto.
5. Conclusioni
In una prospettiva di adeguamento della disciplina vigente in confronto ai rilievi sin qui esposti, il primo nodo da sciogliere riguarda l’opportunità della criminalizzazione dell’ingresso clandestino in Italia. Come si è già messo in evidenza, attraverso l’introduzione di questa ipotesi di reato si supererebbe l’incoerenza di un sistema che punisce l’ausilio all’ingresso nel territorio dello Stato senza un analogo trattamento per chi tiene in prima persona questa condotta. Non appare utilizzabile in senso contrario l’evocazione del principio di frammentarietà del sistema: questa, infatti, è solo un riflesso del principio di legalità, una caratteristica delle norme consequenziale rispetto alle scelte di criminalizzazione, ma non sembra possa essere concepita come criterio autonomo di politica criminale, e quindi di selezione dei comportamenti punibili e di giustificazione delle opzioni di tutela.
Ovviamente, la scelta di incriminazione è, in radice, puramente politica, e deve pertanto rispondere ai valori ed agli obiettivi che si vogliono realizzare, in considerazione degli interessi coinvolti nella questione. Non sembra questa, perciò, la sede per esprimere un giudizio sulla giustezza o meno della creazione di una fattispecie penale specifica per colpire i clandestini, ma non si può fare a meno di osservare come la scelta di criminalizzazione sarebbe più coerente, verosimilmente, in una logica di sistema, con l’attuale impianto legislativo, in quanto si voglia mantenerlo.
Una notazione da farsi è che, comunque, con ogni probabilità, la rilevanza penale dell’ingresso illecito difficilmente costituirebbe un deterrente all’immigrazione clandestina. Inoltre, un problema reale da affrontare è costituito dalla sorte di quegli extracomunitari irregolari di cui non si conoscono le generalità e di cui, quindi, è ignota l’origine. Scaduto il termine di ‘detenzione’ presso il centro di permanenza temporanea ed assistenza, cosa fare di loro? Mandarli in carcere è rimedio davvero utile? Si porrebbe, in tal caso, il problema del sovraffollamento degli istituti di pena e, in ogni caso, la questione si riproporrebbe alla conclusione dell’espiazione.
Naturalmente, è possibile percorrere strade alternative, attraverso un riassestamento delle strategie di lotta al fenomeno del flusso incontrollato di stranieri. In particolare, può anche evitarsi di incriminare l’ingresso clandestino nel territorio dello Stato se ciò appare in contraddizione con gli obblighi di solidarietà di uno stato sociale; questa scelta deve tradursi, però, in un ripensamento della normativa penale del testo unico, sostituendo o quantomeno riformando le norme nel senso di un’ulteriore specificazione – e quindi restrizione – del loro ambito di operatività.
In linea di principio, il modo migliore per combattere il fenomeno dell’immigrazione clandestina (non solo in Italia, ma dovunque) è pensare a strategie politiche sopranazionali che portino ad un miglioramento delle condizioni socio-economiche dei paesi esportatori di risorse umane. Tuttavia, non può non rilevarsi che subordinare le opzioni di legislazione criminale alla realizzazione degli obiettivi di politica internazionale appare quantomeno ingenuo. È ovvio che questa aspirazione, per tradursi in programma, necessita di tempi, risorse e volontà che è utopistico ritenere realizzabili nel breve periodo. Ed invero il problema dell’immigrazione è attuale e richiede risposte tempestive.
Come in ogni campo, la prevenzione è il miglior modo di affrontare il problema, e quindi l’incremento del controllo delle frontiere dovrebbe risultare il primo strumento di lotta all’arrivo di clandestini. In Italia questo monitoraggio è particolarmente arduo a causa dei moltissimi chilometri di costa sui quali non è materialmente possibile esercitare una supervisione capillare (forse anche la penuria di risorse specifiche è concausa degli insuccessi delle autorità di vigilanza); sorge, pertanto, l’esigenza di usare altri mezzi per contrapporsi al fenomeno: lo strumento penale viene considerato uno dei più adatti allo scopo.
Il ricorso alla criminalizzazione delle condotte umane come rimedio ordinario all’inefficacia della pubblica amministrazione appare contraddittorio, però, con l’idea del diritto penale come extrema ratio, in ragione della quale la sanzione penale dovrebbe essere utilizzata solamente quando non esistano altri mezzi ugualmente validi. Certamente, anche in una realtà in cui siano stati rinvenuti ed utilizzati tutti gli strumenti atti a perseguire il fine del controllo della clandestinità può residuare un’esigenza di tutela per la quale non sia sostituibile il ricorso alla pena. Soltanto in questi limiti – ma è valutazione generale della teoria del reato – si può legittimare la criminalizzazione dei comportamenti umani.
Posto ciò, l’unico modo per ben orientarsi in questa tematica è avere chiaro quale sia lo scopo delle norme, quale bene giuridico debba essere tutelato. Se il bisogno di pena nasce dall’esigenza di garantire il rispetto dell’ordine pubblico, sicuramente violabile dai flussi incontrollati di stranieri, la condotta tanto di chi favorisce l’ingresso dello straniero nello Stato quanto di chi entra nel territorio merita la medesima repressione. In questo caso non si guarderà all’immigrato come individuo, disperato in fuga da condizioni di vita precarie o cinico approfittatore, a seconda dell’atteggiamento di chi voglia giustificarne o meno la presenza nello Stato. Ciò che rileva è il fatto dell’ingresso in violazione delle norme in materia, in grado di per sé di turbare la tranquillità sociale. In questo contesto ha senso la criminalizzazione della condotta agevolatrice dell’illecito ingresso.
Se, invece, l’obiettivo politico, evincibile dalle scelte di incriminazione operate dal testo unico, sia di combattere il deprecabile fenomeno dello sfruttamento di individui in condizioni di bisogno, sarebbe opportuno creare una fattispecie ad hoc, che preveda, come elementi costitutivi, la condizione di subalternità del clandestino e l’approfittamento di questo status da parte di soggetti che perseguono dei fini di illecito profitto, come sostanzialmente avviene già oggi nel delitto di favoreggiamento della permanenza. In questo contesto non avrebbe senso punire il clandestino e, in ordine a questo profilo, potrebbe mantenersi intatta la normativa attuale. Se fosse effettuata una tale scelta, d’altronde, non avrebbe legittimazione la norma sul delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino nei termini in cui è formulata: essa, infatti, non solo punisce chi da solo aiuta altri ad entrare nel territorio dello Stato, ma non richiede neppure una particolare finalità che si accompagni alla condotta.
Nella realtà assistiamo, invece, al diffondersi di una logica di tipo repressivo: il fenomeno ‘criminale’ può essere efficacemente combattuto, si ritiene, con lo strumento della sanzione penale, di una sanzione penale particolarmente dura. In quest’ottica si spiega la tendenza, manifestata nei vari progetti di legge presentati al limitare della XIII legislatura, alla recrudescenza dell’ammontare delle pene[21].
Le contrapposte esigenze manifestate dalla politica, l’una severamente sostenitrice della logica repressiva, l’altra dichiaratamente garantista, potrebbero, forse, trovare un punto di equilibrio in una scelta normativa di incriminazione differenziata in ragione dell’effettiva gravità dei fatti commessi.
Nessuna obiezione, da nessuna parte, si deve ritenere possa essere mossa all’idea di una forte lotta al fenomeno del commercio di extracomunitari, da realizzare anche e soprattutto con un incisivo strumento penale: in tal senso potrebbe valere perciò l’introduzione del delitto di tratta di esseri umani, che si affianchi e completi il già esistente reato di riduzione in schiavitù, utilizzato in alcuni casi dalla giurisprudenza per sopperire al deficit di tutela nei confronti degli immigrati sfruttati, secondo una metodologia che forse pecca di influenze interpretative di tipo analogico[22]. Inoltre, si potrebbe creare la figura delittuosa di associazione finalizzata all’ingresso clandestino degli stranieri in Italia, richiedendosi, in tal caso, ed a differenza dell’attuale normativa, che la condotta agevolatrice sia accompagnata dalla sussistenza di un’organizzazione di tipo stabile, che costituisce il vero pericolo per l’ordine pubblico[23].
Se comunque residuasse l’esigenza di punire chiunque agevoli l’ingresso clandestino a prescindere dall’esistenza di un’associazione, dovrebbe seguirsi un percorso diverso. Ciò che desta le maggiori perplessità nella legislazione attuale sono, infatti, il tipo e l’ammontare della risposta sanzionatoria in rapporto alle caratteristiche del fatto tipico. L’architettura normativa avrebbe maggiore coerenza se, da una parte, l’illecito di favoreggiamento dell’ingresso, connotato dallo scopo di lucro, fosse definito come delitto, mentre, dall’altra, il favoreggiamento dell’ingresso clandestino, scevro da finalità di lucro o comunque particolarmente odiose, fosse strutturato come una contravvenzione, con una pena che, quindi, sia adeguata all’obiettivo disvalore del comportamento di chi si limiti ad aiutare altri ad entrare nel nostro territorio, senza alcun ulteriore vantaggio. D’altronde, questa scelta sarebbe conforme ai criteri di incriminazione elaborati nella circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 5 febbraio 1986, nella quale si individuano i settori privilegiati della materia contravvenzionale nelle fattispecie di carattere preventivo-cautelare ed in quelle concernenti (ed è il nostro caso) la disciplina di attività sottoposte ad un potere amministrativo, in vista del perseguimento di uno scopo di pubblico interesse[24]. In quest’ultimo caso sarebbe inoltre opportuna la delineazione dell’illecito come reato d’evento.
Secondo questa impostazione, il fatto dell’agevolazione dell’ingresso clandestino avrebbe rilevanza penale, senza però quel particolare fondamento che una costruzione unicamente in chiave di delitto, peraltro di grave delitto, richiederebbe.
Ulteriormente, per una maggiore completezza, potrebbe punirsi – sempre a titolo contravvenzionale – il favoreggiamento della permanenza nel territorio dello Stato, al di fuori dei casi contemplati dall’art. 12, 5° comma, t.u.; dopo tutto, se riveste carattere di illiceità la condotta di chi favorisce l’ingresso nel territorio dello Stato, anche in mancanza di un dolo specifico di approfittamento, non si comprende perché non debba presentare lo stesso disvalore il comportamento di chi porge il proprio aiuto a soggetti già presenti sul territorio senza alcuna finalità locupletativa, o comunque senza il sussistere delle condizioni enunciate nella norma da ultimo citata.
[1] Sul tema dell’immigrazione in Italia, V. COTESTA, Sociologia dei conflitti etnici: razzismo, immigrazione e società multiculturale, Laterza, Bari, 1999; L. IRACI FEDELI, Razzismo e immigrazione: il caso Italia, Edizioni Acropoli, 1990; G. GIORDANO (a cura di), L’immigrazione dal Terzo Mondo verso l’Europa: un fatto umano ed un problema sociale destinato a crescere, Atti del Convegno tenuto a Finale Ligure il 14 – 15 marzo 1987, La Quercia Edizioni, 1987; N. SERGI (a cura di), L’immigrazione straniera in Italia, Edizioni Lavoro, 1987.
[2] La logica dell’integrazione, sebbene caratteristica annunciata – ma non realizzata – della nuova normativa in materia di immigrazione non è condivisa da tutta la compagine politica del nostro paese, né dall’opinione pubblica nella sua totalità. V’è chi ritiene che fine della legislazione debba essere principalmente la tutela dei cittadini della Repubblica e solo quando questo obiettivo sarà conseguito, attraverso un reale controllo sui flussi e sugli extracomunitari soggiornanti, potrà porsi il problema per una politica dell’integrazione. In tal senso, relazione al progetto di legge di iniziativa popolare n. 6259, presentato alla Camera dei Deputati il 21 luglio 1999 ed intitolato ‘Regolamentazione dell’ingresso, del soggiorno e delle attività lavorative degli stranieri’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk6500/relazion/6259.htm).
[3] Per il riconoscimento della libertà di circolazione transnazionale, A. ALGOSTINO, «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio»: anche gli albanesi?, in Pol. diritto 1998, 1, pp. 25 e ss.. L’Autrice riconduce all’art. 16 Cost. la disciplina del diritto di circolazione transnazionale, mentre il fondamento di tale libertà sarebbe da rinvenire nelle norme internazionali. Se, poi, si ritenesse che tale fondamento fosse evincibile già nell’art. 16 citato, questa libertà di circolazione transnazionale si tramuterebbe nel diritto dello straniero all’ingresso nel territorio dello Stato (italiano, ovviamente, non potendo l’autorità nazionale estendersi al di là dei propri confini). Si tratta, comunque, di soluzione non condivisa dalla maggioranza della dottrina perché deficitaria di una sufficiente base teorica.
[4] In tal senso è la relazione al progetto di legge d’iniziativa popolare n. 7234, presentato alla Camera dei Deputati il 19 luglio 2000 ed intitolato ‘Disposizioni in materia di immigrazione’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk7500/relazion/7234.htm).
[5] La creazione di normative ad integrale regolamentazione del fenomeno migratorio costituisce una tendenza relativamente recente. Nel dopoguerra, infatti, la disciplina dell’afflusso di stranieri era lasciata alla discrezionalità delle pubbliche autorità e solo più tardi nacque e si diffuse l’esigenza di predisporre un apparato normativo esaustivo sull’argomento. Oltre a questo percorso di normativizzazione, si è assistito, in quest’ultimo scorcio di secolo, da un lato, all’europeizzazione del diritto in materia, soverchiando la prospettiva comunitaria un ambito che, fino a qualche anno fa, era stato appannaggio esclusivo degli Stati nazionali; dall’altro, ad un processo di allontanamento dall’impostazione integrazionista per preferire modelli di controllo sulle frontiere. In tal senso, K. GROENENDJIK, Immigrazione e diritto in Europa nella seconda metà del XX secolo, traduzione a cura di M. Pastore, in Diritto immigrazione e cittadinanza 1999, fasc. 4, pp. 11 e ss.
[6] Il decreto, a norma dell’art. 1, si applica ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea ed agli apolidi, i quali costituiscono pertanto le categorie di soggetti qualificabili come stranieri. Residua l’applicabilità delle norme del testo unico ai cittadini dell’Unione quando si tratti di norme per loro più favorevoli.
[7] L’inadeguatezza della legge Martelli è stata evidenziata, in particolar modo, con riferimento alla concreta esecuzione dei provvedimenti di espulsione; nel corso del dibattito politico sull’argomento, la ragione dell’inefficacia del sistema venne individuata nell’eccessiva liberalità delle misure esecutive piuttosto che – come sarebbe stato più opportuno – nell’ampiezza dei presupposti applicativi dei provvedimenti di allontanamento e nell’inefficienza della pubblica amministrazione. In tal senso, A. CAPUTO, Espulsione e detenzione amministrativa degli stranieri, in Quest. Giust. 1999, p. 426.
[8] Il carattere affrettato del testo unico è riconosciuto dagli stessi organi politici. Ad esempio, nella relazione al disegno di legge n. 3789, presentato al Senato il 4 febbraio 1999 dal sen. Fumagalli Carulli ed intitolato ‘Modifiche al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’, si afferma espressamente che l’approvazione della normativa sull’immigrazione fu fortemente influenzata dal bisogno di rispettare impegni assunti a livello internazionale, soprattutto in materia di potenziamento del controllo delle frontiere e di lotta all’immigrazione clandestina; per consentire, quindi, la piena realizzazione dei principi contenuti nella legge è necessaria un’integrazione delle norme (documento tratto dalla pagina web http://www.senato.it/leg/13/Bgt/Schede/Ddliter/10778.htm). Analoghe carenze e aspirazioni sono evidenziate nella relazione al progetto di legge n. 5062, presentato alla Camera il 7 luglio 1998 (immediatamente dopo l’approvazione del testo unico) dagli on.li Rivolta, Maiolo e Di Luca ed intitolato ‘Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk5500/frontesp/5062.htm), e nella relazione al disegno di legge n. 3911, presentato al Senato il 20 aprile 1999 dal sen. Mantica ed intitolato ‘Modifiche al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero nonché istituzione del Ministero dell’immigrazione’ (alla pagina web http://www.senato.it/leg/13/BGT/Testi/Ddlpres/00004215.htm).
[9] Da un punto di vista tecnico, la condizione di clandestino è differente da quella di irregolare. È clandestino chi entra nel territorio dello Stato privo della documentazione richiesta e secondo modalità vietate. È irregolare colui che è entrato in Italia secondo le prescrizioni di legge, ma ha in un momento successivo perduto i titoli di legittimazione. Nel corso del presente lavoro i termini verranno usati, com’è invalso del gergo comune, da sinonimi.
[10] In Belgio, ad esempio, l’ingresso ed il soggiorno illegale nel Regno sono puniti con una sanzione detentiva di breve durata e con l’espulsione – sono previsti degli aggravamenti in caso di recidiva –. In quella realtà, d’altronde, il fenomeno immigratorio non è visto come un problema sociale anche perché esistono delle regole precise che disciplinano l’ingresso e la permanenza dello straniero, secondo modalità che ne favoriscono l’integrazione con il contesto belga e limitano fortemente l’emarginazione di razza. In tal senso M. CALTABIANO, Un’esperienza europea: la regolamentazione dell’immigrazione in Belgio, in Il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Aspetti penali e di prevenzione criminale, Atti del Convegno di Studi di Diritto Penale, Bari 1-2 marzo 1996, a cura di Titti De Felice, Cacucci Editore, pp. 81 e ss.
[11] L’affermazione, secondo la quale è presupposto dei delitti di favoreggiamento la commissione di un reato, viene contraddetta dal disposto dell’ultimo comma dell’art. 378 c.p. (richiamato nell’art. 379 c.p.) in cui si prevede l’applicabilità delle norme sul favoreggiamento anche ai casi di inimputabilità o di estraneità ai fatti della persona aiutata. Questa peculiarità ha portato a sostenere l’idea che presupposto dei delitti in esame sia non la commissione di un reato, ma l’esistenza di un fatto di reato, cioè dell’insieme di elementi oggettivi e soggettivi di cui si compone il reato, con esclusione dell’attribuzione dello stesso ad un soggetto determinato. In tal senso A. PAGLIARO, voce Favoreggiamento, in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Giuffrè, p. 38.
[12] Nel corso della tredicesima legislatura sono state presentate delle proposte di legge volte all’introduzione del reato di ingresso clandestino nel nostro paese. Sono, ad esempio, favorevoli a ciò la Lega Nord ed Alleanza Nazionale, poiché ritengono che questo sia l’unico modo per porre fine alla sarabanda delle espulsioni fittizie (dal quotidiano Gazzetta del Sud del 4 novembre 2000, p. 6). Esempi di progetti di legge volti alla criminalizzazione di tale condotta sono il disegno n. 3911, cit., il p.d.l. 5392, presentato alla Camera in data 11 novembre 1998 dall’on. Carlesi ed intitolato ‘Modifiche all’art. 12 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, in materia di reato di immigrazione illegale’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk5500/frontesp/5392.htm) e la proposta di legge n. 5808, d’iniziativa dell’on. Fini ed altri, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 1999 ed intitolata ‘Modifiche al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk6000/frontesp/5808.htm), che costituiva, al limitare della legislatura, la base politica per la riforma della disciplina dell’immigrazione.
[13] Per una disamina completa dei delitti associativi, S. ALEO, Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose associative, Giuffrè, Milano, 1999.
[14] E’ stato sottoposto all’esame del Parlamento un disegno di legge, il n. 5506, presentato alla Camera in data 11 dicembre 1998 dall’allora Ministro dell’Interno Rosa Russo Jervolino, intitolato ‘Modifiche al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, concernenti disposizioni sanzionatorie contro le immigrazioni clandestine in transito’ (alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stampati/sk6000/relazion/5506.htm), con il quale si prevedeva la perseguibilità penale di coloro che favoriscono l’ingresso in altri Stati di stranieri illegalmente presenti nel territorio italiano, al fine, da un lato, di realizzare una più efficace strategia di contrasto all’immigrazione clandestina, dall’altro, per dare piena attuazione agli accordi di Schengen, in virtù dei quali l’Italia si è «impegnata a stabilire sanzioni appropriate nei confronti di chi aiuti o tenti di aiutare a scopo di lucro uno straniero ad entrare o soggiornare nel territorio di una parte contraente, in violazione della legislazione di detta parte contraente relativa all’ingresso ed al soggiorno degli stranieri» (dall’intervento alla seduta della Camera del 16 ottobre 2000 del Sottosegretario di Stato per la giustizia Li Calzi, alla pagina web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed791/s100.htm).
[15] In tal senso, Tribunale di Gorizia, sent. 19.6.1999, in Diritto immigrazione e cittadinanza, 1999, fasc. 3, pp. 179 e ss.
[16] In tal senso, Tribunale di Gorizia, sentenza del 19 giugno 1999, cit., pp. 185-186.
[17] Potrebbe, ad esempio, ravvisarsi il reato «nella condotta di chi, pur non avendo dato alcun contributo causale all’azione che ha favorito l’ingresso illegale nello Stato, né avendola ordinata ovvero istigata operi di proposito, magari agendo per conto proprio, nel medesimo contesto organizzativo, logistico e di illegalità in cui si muovono gli autori dell’attività diretta al favoreggiamento dell’illecito ingresso e sullo specifico presupposto di essa (come sarebbe ad es. il caso di chi sapendo che un certo sito del confine è frequentemente impiegato per gli ingressi dei clandestini, vi si recasse più o meno sistematicamente con lo scopo di raccoglierli non appena entrati in Italia e portarli ad altre destinazioni, rilevando in tal modo una precisa e voluta sinergia con l’opera illecita dei passeurs ma è ben raro che chi operi così non sia in diretto concorso con gli stessi passeurs e non sia comunque mosso da finalità di lucro)». In tal senso, Trib. Gorizia, cit., pp. 181-182.
[18] In tal senso, Trib. Monza, sent. 6/13 dicembre 1999, in Diritto immigrazione e cittadinanza 2000, fasc. 3, pp. 156-157.
[19] Analogo trattamento sanzionatorio è previsto all’art. 24, comma 6, t.u. per l’ipotesi in cui il datore di lavoro occupi clandestini o irregolari per lavori stagionali.
[20] Con riferimento ad un caso in cui il lavoratore al momento dell’assunzione era munito di permesso di soggiorno successivamente scaduto, la Cassazione (sent. 6 dicembre 1999 n. 1392, in Cass. pen. 2000, voce 1733) ha stabilito che, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 22, comma 10°, t.u., «il termine “occupa” non va inteso come riferito esclusivamente al momento dell’assunzione, ma racchiude in sé l’idea del protrarsi nel tempo del rapporto di lavoro e, quindi, anche della condotta illecita penalmente perseguita».
[21] Ne è un esempio il d.d.l. 3911, cit., nel quale non solo si incrimina l’ingresso clandestino in Italia punendolo con la reclusione da sei mesi a quattro anni, ma si contemplano l’obbligatorietà dell’arresto e del rito direttissimo e la sanzione amministrativa – immediatamente esecutiva – dell’espulsione dello straniero condannato in primo grado, anche in caso di sospensione della pena principale e sebbene la sentenza sia soggetta o suscettibile di gravame, con evidente violazione del principio di presunzione di non colpevolezza. La matrice autoritaria si evince anche da altre norme del progetto, come gli artt. 7 e 8 che prevedono l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i fatti di cui al comma 1 dell’art. 12 del testo unico (la reclusione passerebbe da un massimo di tre ad un massimo di cinque anni e la multa da trenta a cento milioni di lire nei casi più gravi) e l’immediata esecutività del decreto di espulsione amministrativa, «anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato». Simile orientamento si riscontra nel p.d.l. 5062, cit.
[22] Ad esempio, Cass. 16 gennaio 1997, n. 261, riportata in L. ALIBRANDI (a cura di), Il codice penale. Commentato per articolo con la giurisprudenza, X ed., La Tribuna, Piacenza, 2000, p. 1809.
[23] Il Parlamento era giunto ad una fase importante per la modifica del testo unico. Il 20 dicembre 2000, infatti, la Camera dei Deputati aveva approvato il p.d.l. Fini n. 5808, apportando tali cambiamenti rispetto all’impianto originario da diventare fuorviante l’attribuzione di paternità del disegno. Per quel che a noi interessa nello specifico, innanzi tutto non era stato previsto il reato di ingresso clandestino (aspirazione che costituiva la più importante novità del progetto di legge); erano stati invece previsti il delitto di redazione di falso permesso o carta di soggiorno o di documenti diversi realizzati per ottenere il permesso o la carta anzidetti, e quello di alterazione dei veri permessi, etc.; era stata prevista un’aggravante al delitto di favoreggiamento alla permanenza nel territorio dello Stato, quando tale attività riguardava persone destinate alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, nonché la generale ricorribilità in questi casi all’arresto in flagranza. Era stato introdotto un articolo 12ter per escludere la punibilità degli ufficiali di polizia giudiziaria che svolgessero operazioni simulate, nonché la responsabilità dei medesimi in caso di omissioni di atti dovuti provocate da esigenze istruttorie (art. 12quater). Era stata prevista la subordinazione dell’esecuzione dell’espulsione all’avvenuta decisione sul ricorso contro il relativo provvedimento, così come nel caso di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera l’allontanamento dal territorio dello Stato non poteva aver luogo prima che il giudice avesse convalidato detta misura. Inoltre, era stato inserito un comma 13bis all’art. 13, nel quale si era statuito che, con esclusione dell’ipotesi prevista dal comma 13 – che sanziona penalmente il reingresso senza autorizzazione dello straniero espulso –, nel caso in cui l’espulsione fosse stata disposta dal giudice penale, ovvero ai sensi dell’art. 15, il trasgressore del divieto di reingresso era punito con la reclusione da uno a quattro anni. Infine, la contravvenzione di cui all’art 22, comma 10, t.u. era stata trasformata in delitto, punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da venti a cinquanta milioni, oltre al sequestro temporaneo per quindici giorni dell’esercizio d’impresa. La conclusione della XIII legislatura ha annullato il percorso fatto e sarà compito del nuovo legislatore affrontare la questione.
[24] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, Bologna, p. 126.
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