IL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA

Redazione 17/12/00
di Andrea Sirotti Gaudenzi

Sommario
CENNI PRELIMINARI SUL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA
IL RICONOSCIMENTO DI UN NUOVO ORDINAMENTO GIURIDICO
REGOLAMENTI, DIRETTIVE E DIRETTA APPLICABILITA’
IL RECEPIMENTO DEI PRINCIPI ESPRESSI DALLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

CENNI PRELIMINARI SUL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA
La lunga storia del processo di unificazione europea si caratterizza per l’evoluzione degli strumenti integrativi, il continuo aggiornamento e l’ampliamento delle finalità perseguite: dal progetto iniziale del MEC, fino al recente Trattato di Amsterdam, passando in rassegna l’Atto Unico e il Trattato di Maastricht, gli obiettivi di integrazione si sono fatti sempre più ambiziosi.
In questo panorama di integrazione comunitaria, la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha svolto un ruolo decisivo, attraverso un’intensa azione che ha enormemente accelerato il processo di conformare i sistemi giuridici nazionali ai principi su cui si fonda il Trattato, consentendo al nuovo ordinamento comunitario di affiancarsi agli ordinamenti giuridici nazionali, modificandoli e aggiornandoli, senza eliminarli.
La Corte, ai sensi dell’art. 220 (ex art.164) assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati e degli atti normativi derivati.
Inizialmente, la Corte era costituita da sette giudici, affiancati da due avvocati generali; il numero dei componenti si rivelò inadeguato a seguito dell’adesione alla Comunità di nuovi Stati e, di fronte al moltiplicarsi delle cause, si giunse alla composizione di 15 giudici e 8 avvocati generali, che ai sensi dell’art. 233 (ex art. 167) devono essere nominati di comune accordo tra i governi degli Stati membri, tra “personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza”.
Le competenze della Corte di Giustizia in tema giurisdizionale riguardano i casi di:
violazione degli obblighi degli Stati membri derivanti dai trattati e dagli atti vincolanti delle istituzioni, con procedura promossa dalla Commissione (art. 227, ex 170);
comportamenti delle istituzioni comunitarie nell’emanazione di atti vincolanti (art.230, ex 173 e art. 232, ex 175);
controversie relative al riconoscimento dei danni extracontrattuali della Comunità ai sensi dell’art. 288 (ex 215);
controversie tra la Comunità ed i suoi agenti (art. 236, ex 179)
controversie relative alla Banca Europea per gli investimenti (art. 237, ex 180)
Inoltre, la Corte ha la facoltà di comporre le controversie tra gli Stati in virtù di compromessi, agendo in qualità di giudice internazionale (art. 239, ex 182).
L’art. 234 (ex 177) precisa che quando una questione di interpretazione e validità degli atti comunitari è “sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione”.
Dalla sua creazione, la Corte è stato lo strumento attraverso il quale la Comunità ha perseguito specifici obiettivi, utilizzando un diritto nuovo, denominato diritto comunitario, caratterizzato dalla propria autonomia, indipendenza ed uniformità in ogni Paese membro. Distinguendolo dal diritto nazionale, i giudici del Lussemburgo hanno posto il diritto comunitario su un piano diverso rispetto a quest’ultimo e ne hanno stabilito la superiorità.
In effetti, non può non riconoscersi come l’elemento più caratteristico di questa dinamica integrativa sia rappresentato dal fatto che il nuovo ordinamento “sovranazionale” presupponga il mantenimento degli ordinamenti nazionali, dei quali è fondamentale la continuità di funzionamento, nell’ottica del perseguimento degli obiettivi comunitari.
La Corte, così, ha rappresentato lo strumento per realizzare un sistema di tutela giurisdizionale di un nuovo ordinamento giuridico autentico, assicurandone l’applicazione in tutti gli Stati membri.
Per migliorare la tutela giurisdizionale affidatale, la Corte è stata affiancata –a partire dal 1989- dal Tribunale di primo grado (1), che le ha permesso di concentrarsi sul proprio compito fondamentale: fornire un’interpretazione uniforme delle norme di diritto comunitario, permettendone l’applicazione negli Stati membri.
2. IL RICONOSCIMENTO DI UN NUOVO ORDINAMENTO GIURIDICO
Attraverso la propria attività, la Corte di Giustizia ha fornito ad istituzioni e cittadini la consapevolezza di poter contare sul riconoscimento di veri e propri diritti, tutelabili in sede giurisdizionale, sia dagli stessi giudici del Lussemburgo, che dai giudici nazionali.
Nel suo intenso percorso, la Corte ha dovuto confrontarsi con l’indifferenza delle istituzioni, è riuscita a superare l’iniziale ostilità degli organi di giustizia nazionali (in particolare, Corte costituzionale italiana e Corte federale tedesca), ha affermato la basilare importanza delle libertà fondamentali indicate dal Trattato di Roma (libertà di circolazione delle persone e delle merci, libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi).
In questi anni, per merito della giurisprudenza della Corte di Giustizia, il diritto europeo ha affermato una sorta di competenza di carattere generale, stabilendo il proprio carattere assolutamente nuovo, attraverso l’accertamento delle infrazioni degli obblighi assunti dai Paesi membri.
Con sentenza del 5 febbraio 1963 (2), la Corte ha indicato la propria funzione nel garantire “l’uniforme interpretazione del Trattato da parte dei giudici nazionali”. Nell’occasione, la Corte, chiamata a decidere sull’efficacia dell’art.12 del Trattato, ha affermato l’importanza di uno dei principi su cui si regge il diritto comunitario: la diretta applicabilità delle norme contenute nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea.
Sin dalle origini, l’orientamento della Corte è stato quello di ritenere che la funzione del Trattato, dovendosi costituire un mercato comune incidente sui soggetti della Comunità, si proiettasse al di là di un accordo che si limitasse a costituire obblighi reciproci fra gli Stati contraenti.
In effetti, il preambolo del Trattato, nel rivolgersi non solo oltre ai Governi nazionali, ma anche i popoli, chiarisce che le funzioni sovrane delle istituzioni comunitarie vanno esercitate sia sugli Stati membri, che sui cittadini della Comunità: si assiste alla formazione di un nuovo ordinamento che si basa non solo sulla partecipazione degli Stati membri, ma sull’attiva collaborazione dei cittadini, ai quali viene riconosciuto lo status di soggetti di diritto europeo (3), diretti beneficiari dei diritti indicati nel Trattato, veri e propri diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare.
E così, grazie all’operazione interpretativa della Corte, viene affermata l’immediata efficacia delle norme del Trattato negli ordinamenti interni degli Stati membri, con l’attribuzione della tutela dei diritti soggettivi riconosciuti in capo ai cittadini ai giudici nazionali (4).
Nell’esame dei rapporti tra normativa comunitaria ed ordinamenti nazionali, la Corte ha stabilito il principio secondo cui il Trattato istitutivo della C.E.E. ha dato vita ad un vero e proprio ordinamento giuridico, sorto dalla decisione degli Stati membri di rinunciare alla propria sovranità in taluni settori, che anche i giudici nazionali hanno il preciso dovere di applicare. Si esprime, quindi, il principio della superiorità del diritto comunitario su quello nazionale, facendo leva sull’art.189, a norma del quale i regolamenti devono intendersi obbligatori e direttamente applicabili in ciascuno Stato membro (5).
L’obbligo incombente sugli Stati membri di garantire l’efficacia del diritto comunitario viene sancito da una serie di sentenze con le quali si assiste all’opera di definitivo inserimento dei principi del nuovo ordinamento all’interno degli ordinamenti nazionali (6).
3. REGOLAMENTI, DIRETTIVE E DIRETTA APPLICABILITA’
La diretta applicabilità è la caratteristica principale del regolamento, che ai sensi dell’art. 249 (ex art. 189), è atto “di portata generale” ed “è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. Non è necessario, pertanto, alcun adeguamento da parte degli ordinamenti nazionali, dato che il regolamento può produrre i propri effetti direttamente nell’ordinamento nazionale di ogni Paese membro, così come più volte precisato dalla Corte di Giustizia, nell’attribuire ai singoli veri e propri diritti che il giudice nazionale ha il preciso dovere di tutelare.
Recentemente, la Corte ha avuto l’occasione di precisare come ci si debba comportare di fronte all’incompatibilità tra norme di diritto nazionale interno e norme di diritto comunitario, stabilendo di fatto la superiorità del diritto europeo rispetto a quello nazionale: “ogni giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge nazionale, sia essa posteriore o anteriore alla norma comunitaria”.
I maggiori problemi, si pongono di fronte all’adeguamento del legislatore nazionale agli atti delle istituzioni che non sono suscettibili di applicazione diretta, quali le direttive e le decisioni, che necessitano di un atto di recepimento da parte del legislatore nazionale.
Secondo le costanti interpretazioni dei giudici del Lussemburgo, una direttiva comunitaria può considerarsi direttamente applicabile a condizione che sia:
chiara;
incondizionata;
scaduta.
Con la sentenza “Van Duyn” del 1974 (7), la Corte ha espresso per la prima volta questo principio: “nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli Stati membri a adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario” (8). D’altra parte, l’art. 177, che autorizza i giudici nazionali a domandare alla Corte di Giustizia di pronunziarsi sulla validità e sull’interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzioni, “implica il fatto che singoli possano far valere atti dinanzi a detti giudici” (9).
I giudici del Lussemburgo forniscono il modus operandi per gli operatori del diritto: è necessario fare una valutazione caso per caso, interpretando la natura, lo spirito e la lettera della disposizione. Di fronte a queste considerazioni, c’è chi ha affermato un principio generale di libertà delle forme (per cui una direttiva dettagliata dovrebbe ritenersi un regolamento vero e proprio, pur non rivestendone lo specifico habitus giuridico).
La Corte di Giustizia, per affermare il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie chiare, incondizionate e scadute, ha agito in due modi: o attraverso decisioni di tipo sanzionatorio, o attraverso sentenze che stabilissero il principio dell’interpretazione conforme.
Nel primo caso, la Corte ha affermato il principio secondo cui i cittadini possano chiedere che la direttiva trovi diretta applicazione. Con la sentenza “Ratti”(10), che ha riguardato il nostro Paese, i giudici comunitari hanno stabilito che “lo Stato membro che non abbia adottato entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa”. Con la successiva sentenza “Foster” del 1990 (11), la Corte ha ampliato il concetto di “Stato”, comprendendovi anche gli enti pubblici, mentre con la sentenza “Marshall” del 1984 (12), ha chiarito che la direttiva non può essere fatta valere “in senso orizzontale”, vale a dire contro il singolo, ma solo nei confronti dello Stato membro cui è rivolta, sulla base dell’interpretazione dell’art. 189 del Trattato.
Altro orientamento è stato tenuto dalla Corte, quando ha seguito la teoria della “interpretazione conforme”. Nella sentenza “Von Colson e Kamann” del 1983 (13), la Corte, chiamata a decidere su discriminazioni basate sul sesso in occasione dell’accesso al lavoro, ha stabilito che lo Stato deve interpretare la legge nazionale alla luce della direttiva. “La direttiva non implica alcun obbligo assoluto e sufficientemente preciso che possa essere fatto valere, in mancanza di provvedimenti d’attuazione adottati entro il termine, dal singolo onde ottenere un determinato risarcimento in forza della direttiva, qualora una conseguenza del genere non sia contemplata o consentita dal diritto nazionale”.
Seguendo quest’orientamento, pertanto, il giudice nazionale si dovrebbe far carico di interpretare la legge in maniera conforme ai principi comunitari, applicando la normativa interna con un occhio di riguardo alle esigenze espresse dalla specifica direttiva non ancora applicata nel proprio ordinamento nazionale.
Ultimamente, però, la Corte ha recuperato i principi iniziali; dalla sentenza Francovich del 1990 (14) in poi, non solo ha ribadito il principio della responsabilità dello Stato membro che non adegui la propria normativa alla direttiva, ma ha addirittura sancito la responsabilità per fatto illecito dello Stato inadempiente, con conseguente obbligo di risarcire i danni subiti dai cittadini a seguito del mancato adeguamento. Il messaggio è semplice: il diritto comunitario rappresenta un ordinamento giuridico che si impone ai Paesi membri, per cui l’affermazione della responsabilità di cui risponde lo Stato per danni causati ai singoli per le violazioni del diritto della Comunità Europea ad esso imputabili è perfettamente in linea con i principi ispiratori del Trattato istitutivo.
4. IL RECEPIMENTO DEI PRINCIPI ESPRESSI DALLA CORTE DI GIUSTIZIA NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA
Negli anni ’60, la Corte costituzionale rifiutò la tesi in base alla quale la legge nazionale contenente disposizioni difformi dai principi comunitari dovessero intendersi incostituzionali per violazione indiretta dell’art. 11 della Costituzione (15). La possibilità di disapplicazione da parte degli organi di giustizia interni delle norme nazionali in contrasto con quelle comunitarie doveva intendersi quale “privazione di efficacia della volontà sovrana degli organismi legislativi degli Stati membri” (16).
La Corte Costituzionale precisò che le norme di diritto comunitario erano da porre nello stesso piano delle norme della legge ordinaria, facendo leva sul fatto che i trattati istitutivi fossero stato recepiti attraverso leggi ordinarie. Pertanto, secondo questa interpretazione, la relazione tra norme interne e norme comunitarie si sarebbe dovuta proporre secondo la logica della successione della legge nel tempo, con la conseguente possibilità di vedere una norma comunitaria abrogata da una successiva norma nazionale successiva, secondo il principio in virtù del quale “lex posterior derogat priori”.
Successivamente, con l’acquisizione di una diversa sensibilità, la Corte costituzionale incominciò ad aprirsi al diritto comunitario, riconoscendone la superiorità sulle norme ordinarie di diritto interno, affermando che i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria partecipano della stessa natura del diritto comunitario.
Quindi, la Consulta iniziò a ritenere che anche le sentenze della Corte di Giustizia debbano intendersi prevalenti sul diritto nazionale, sancendo la diretta applicabilità dei principi espressi dai giudici del Lussemburgo, a condizione che fossero chiari, precisi e concordanti.
Con la nota chiarezza, il prof. PAOLO MENGOZZI, in una delle sue pubblicazioni, ha sintetizzato la svolta della Consulta: “la Corte costituzionale, innovando rispetto a proprie precedenti più caute posizioni e accogliendo in larga misura la pretesa della Corte di Giustizia che i giudici ordinari nazionali assicurino il pieno rispetto del diritto comunitario, ha riconosciuto a questi ultimi il potere di non applicare norme statali che siano incompatibili con precedenti norme comunitarie o con precedenti statuizioni della Corte di Giustizia, a condizione che, gli uni o gli altri valori giuridici comunitari, presentino la caratteristica di avere un contenuto sufficientemente chiaro, preciso e determinato e non risultino in contrasto con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano o con diritti fondamentali da esso tutelati” (17).
In questo senso, può dirsi d’importanza storica la sentenza n. 170/84 (Granital S.p.A. c. Amministrazione delle Finanze) (18), con cui la Consulta ha indicato la nuova chiave di lettura dei rapporti tra ordinamento interno e diritto comunitario: “le disposizioni di legge contrarie al regolamento comunitario non possono considerarsi nulle od inefficaci, ma sono costituzionalmente illegittime e vanno in quanto tali denunziate in questa sede, per violazione dell’art. 11 della Costituzione”.
Così, La Corte costituzionale, dovendo dirimere i dubbi relativi ai rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, ha svolto un esame ermeneutico dei principi del Trattato e ha precisato che quest’ultimo prevale rispetto alle confliggenti statuizioni del legislatore nazionale (19).
Recentemente, con sentenza del 7/10 novembre 1994, n.384, la Corte Costituzionale ha stabilito che, quando davanti ad un giudice interno si pone un conflitto insanabile fra norma comunitaria e norma interna, il giudice non deve più rinviare la questione alla Consulta, ma ha il preciso dovere di applicare direttamente la norma comunitaria, anche se successiva.
La sentenza, nello scindere il giudizio relativo al problema del contrasto tra norme comunitarie direttamente applicabili e norme interne (di competenza dei giudici di merito) e il giudizio di costituzionalità (di spettanza della Consulta), si ispira al principio secondo cui un provvidemento incompatibile con disposizione del Trattato “crea una situazione di fatto ambigua” e costituisce “una trasgressione degli obblighi imposti dal Trattato”, citando una sentenza della Corte di Giustizia (20).

Note
Il Tribunale di primo grado è stato istituito con la decisione 88/591 emessa dal Consiglio il 24/10/88, sulla base dell’art.168 A (art.11 dell’Atto Unico); a questo proposito cfr.: TIZZANO, “La Corte di Giustizia e l’Atto Unico Europeo” in Foro It., 1988.
Corte di Giust., sent. 5 febbraio 1963, N.V. Algemene Transport of Expeditie Onderneming van Gend e Loos c. Amministrazione delle Imposte dei Paesi Bassi (causa 26/62).
Recentemente, la Corte si è occupata della cittadinanza dell’Unione, dichiarando che il cittadino di uno Stato membro che risieda legittimamente nel territorio di un altro Stato dell’Unione può avvalersi dell’articolo che il Trattato sull’Unione Europea dedica alla cittadinanza europea. Sic, Corte di Giust., sent. 12 maggio 1998, Maria Martinez Sala c. Freistaat Bayern (causa 85/96).
MANCINI, “L’art.177 del Trattato CEE e la cooperazione tra le giurisdizioni nazionali e la Corte” in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 1998.
Corte di Giust., sent. 17 luglio 1964, Flaminio Costa c. Enel (causa 6/64).
Solo per ricordare alcune delle pronunce più significative: sent. 16 dicembre 1976, Rewe-Zentralfinanze e G e Rewe-Zentral AG c. Landwirtschaftskammer fur das Saarland (causa 33/76); sent. 15 maggio 1986 Marguerite Johnston c. Chief Constable of the Royal Ulster Constabulary (causa 222/84); sent. 19 novembre 1991, Andrea Francovich e a. c. Repubblica Italiana (cause riunite C-6/90 e C-9/90).
Corte di Giust., sent. 4 dicembre 1974, Yvonne Von Duyn c. Home Office (causa 41/74).
Ibidem.
Ibidem.
Corte di Giust., sent. 5 aprile 1979, proc. Penale a carico di Tullio Ratti (causa 148/78).
Corte di Giust., sent. 12 luglio 1990, A. Foster e altri c. British Gas plc (causa 188/89).
Corte di Giust., sent. 26 febbraio 1986, M.H. Marshall c. Southampton and South-West Hampshire Area Health Authority (causa 152/84).
Corte di Giust., sent. 10 aprile 1984, Von Kolson e Kamann c. Land Renania del Nord-westfalia (causa 14/83).
Corte di Giust., sent. 19 novembre 1991, Andrea Francovich e a. c. Repubblica Italiana (cause riunite C-6/90 e C-9/90).
Corte Cost., sent. 7 marzo 1964, n.14, Costa c. Soc. Edison – Volta ed ENEL.
Corte Cost., sent. 30 ottobre 1975, n.232, I.C.I.C. S.p.A. c. Ministro del Commercio con l’Estero.
MENGOZZI, “La riforma del diritto internazionale privato”, Napoli, 1997. Inoltre, scrive il prof. Mengozzi: “… la Corte è venuta ad attribuire all’operare congiunto dell’art.11 della Costituzione e della legge che ha dato esecuzione ai Trattati istitutivi della Comunità effetti giuridici più rilevanti rispetto a quelli che dianzi attribuiva loro. Ha riconosciuto loro una prima funzione che direttamente si connota in termini sostanzialmente negativi: la funzione di aver dato luogo ad una ritrazione del sistema giuridico nazionale realizzata nel quadro del trasferimento di sovranità e di una sostituzione di competenze comunitarie a competenze nazionali; e, accanto a questa, una seconda funzione, più positiva, ma ben distinta da una funzione di ricezione e trasformazione di un diritto esterno in diritto interno: la funzione di dare luogo ad un riconoscimento e ad una garanzia del rispetto del diritto comunitario in tutto il territorio italiano.”, MENGOZZI, “Il diritto della Comunità Europea”, Padova, 1990.
Corte Cost., sent. 8 giugno 1984, n.170, Granital c. Amministrazione delle Finanze.
Corte Cost., sent. 7-11 ottobre 1994, n.384, Pres. Cons. Min. c. Regione Umbria.
Corte di Giust., sent. 15 ottobre 1986, Commissione c. Italia (causa 168/85).

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