Precedenti giurisprudenziali: Corte Costituzionale, sent. n. 438/2008; Cass. n. 16503/2017; Cass. 7248/2018; Cass. n. 21748/2007; Cass. 23676/2008; Cass. civ. sez. III, 9-2-2010, n. 2847.
Fatto
Un paziente a seguito di un’operazione di asportazione totale della laringe citava davanti al Giudice ordinario di primo grado la struttura sanitaria privata dove era stato operato e i sanitari che avevano effettuato l’operazione, per vederli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della negligente condotta tenuta dai sanitari stessi nonché per l’omessa informazione relativa all’intervento chirurgico a cui era stato sottoposto.
La casa di cura si costituiva in giudizio adducendo la bontà del suo operato e di quello dei medici della struttura, sostenendo che si era trattato di un intervento d’urgenza e che il paziente era stato informato oralmente dei rischi dell’operazione.
Il Tribunale rigettava la domanda proposta dal paziente che, attraverso i propri eredi, proponeva appello contro la sentenza di primo grado.
Il Giudice di secondo grado ribaltava la decisione di primo grado, condannando la casa di cura e i medici al risarcimento dei danni per violazione degli obblighi relativi alla corretta formazione del consenso informato.
Secondo la Corte, infatti, il fatto che il paziente era stato edotto circa il suo stato di salute non significava che era, anche, stato adeguatamente informato sulle implicazioni e i rischi dell’operazione chirurgica, ledendo in tal modo la libertà di autodeterminazione del paziente che laddove fosse stato adeguatamente informato avrebbe negato il consenso all’esecuzione dell’intervento. Equiparando ai fini risarcitori la mancata informazione all’errata esecuzione della prestazione chirurgica, la Corte d’Appello aveva applicato per la liquidazione del danno le tabelle milanesi.
A fronte di una tale pronuncia la casa di cura aveva adito la Corte di Cassazione con due motivi di ricorso, riferiti entrambi, sotto aspetti diversi, all’errata equiparazione ad opera della Corte di Appello tra il mancato consenso informato e l’errata esecuzione dell’intervento. Sotto il primo aspetto la lamentela del ricorrente verteva sul fatto che i Giudici di secondo grado avevano formulato il loro giudizio sulla base di un documento allegato dall’attore solo nel giudizio di primo grado e non proposto in fase di appello, da dove si evinceva che il paziente nel caso in cui fosse stato informato non avrebbe prestato il consenso all’intervento. La mancata produzione nel grado di appello del documento – di cui si parla – doveva essere letta come volontà da parte degli aventi causa del paziente di abbandonare tale tesi. Sotto il secondo aspetto la lamentela verteva sull’errata quantificazione del danno biologico derivante dall’intervento chirurgico, non avendo preso in considerazione le pregresse condizioni di salute già compromesse del paziente.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione, esaminati i motivi di ricorso, ha ritenuto fondati gli stessi accogliendo il ricorso presentato dalla casa di cura avverso la sentenza di secondo grado, che aveva condannato la stessa al risarcimento del danno per mancata informazione dei rischi dell’intervento chirurgico.
Nell’esposizione delle loro motivazioni, gli Ermellini hanno, dapprima, richiamato il principio, ormai consolidato, secondo cui il mancato consenso è rilevante ai fini risarcitori quando sono configurabili conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione, a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente.
Il diritto all’autodeterminazione rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo, ed è uno strumento volto al perseguimento e alla tutela del suo interesse ad una compiuta informazione sulle prevedibili conseguenze del trattamento, sul possibile verificarsi di un aggravamento delle condizioni di salute, sull’eventuale impegno, in termini di sofferenze del percorso riabilitativo post-operatorio. La conoscenza di tale informazioni permette il paziente di operare delle scelte come quella di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico, quella di acquisire ulteriori pareri di altri sanitari, o di rifiutare l’intervento, o di optare per il permanere della situazione patologica.
A questo punto i Giudici di Cassazione enucleano una serie di ipotesi di danni risarcibili per mancanza di adeguato consenso informato, tra cui, per quanto a noi di interesse, l’ipotesi di intervento correttamente eseguito che il paziente avrebbe rifiutato se fosse stato edotto. In questa ipotesi, in cui la Corte di Cassazione fa rientrare il caso in esame, la lesione del diritto all’autodeterminazione costituisce oggetto di danno risarcibile tutte le volte che il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle ed accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse. Il paziente vanta la legittima pretesa di conoscere le conseguenze dell’intervento chirurgico atteso che la Costituzione sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua assenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
Nel caso di specie la Corte ha evidenziato che il paziente non ha proposto una siffatta domanda di danni, ma si è limitato a chiedere il risarcimento del danno per lesione della salute derivante da responsabilità medica, a causa della condotta negligente tenuta da parte della casa di cura e dei sanitari, e dalla violazione dell’obbligo di acquisire un valido consenso. In tale ipotesi il risarcimento del danno determinato dalla non prevedibile conseguenza di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito, in assenza di un consenso informato da parte del paziente, è condizionato alla dimostrazione da parte del paziente che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato, calato nel caso di specie tale principio, il paziente avrebbe dovuto provare, anche con presunzioni, che se adeguatamente informato non avrebbe autorizzato l’intervento anche nell’ipotesi di operazione salva vita.
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