Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Bari, con ricorso depositato il 25 luglio 2017 ed iscritto al n. 3 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2017, promuoveva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – per violazione degli artt. 76, 109 e 112 della Costituzione – nei confronti del «Presidente del Consiglio dei ministri», in relazione all’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».
Il ricorrente ricordava come la disposizione, asseritamente lesiva delle proprie attribuzioni, testualmente prevedesse quanto segue: «[…] al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Tale disposizione, a suo giudizio, avrebbe «parzialmente abrogato, in parte qua, il segreto investigativo disposto dall’art. 329 cod. proc. pen.» la cui violazione del quale è sanzionata dall’art. 326 del codice penale.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari in particolare rilevava come «l’intervento normativo dell’Esecutivo abbia leso prerogative di rango costituzionale pertinenti all’Autorità Giudiziaria requirente, con riferimento al principio di obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Cost., cui il segreto investigativo strettamente inerisce, nonché in relazione alla statuizione della diretta dipendenza della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria affermata dall’art. 109» Cost.
Sulla scorta di queste premesse, il ricorrente chiedeva alla Corte costituzionale di dichiarare ammissibile il conflitto.
Al fine di dimostrare, anzitutto, il proprio interesse a promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, si evidenziava prima di tutto l’ambito applicativo «di estesa diffusione» della norma, «destinata a trovare indiscriminata applicazione nella totalità dei casi di inoltro di notizie di reato (circa 50.000 nuove in totale ogni anno per questa Procura, in grandissima percentuale denunciate proprio dalla polizia giudiziaria!) ed informative successive».
Premesso ciò, ritenuta pacifica la legittimazione attiva del Procuratore della Repubblica e quella passiva del Presidente del Consiglio dei ministri «allorquando, come nella specie, si denunci il conflitto di potere con riferimento ad un atto del Governo (per tutte: Corte cost., sent. n. 420/1995)», il ricorrente – richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare, le sentenze n. 221 del 2002 e n. 457 del 1999) – sottolineava come il conflitto sarebbe stato ammissibile anche se promosso per l’annullamento di una fonte primaria in quanto si tratterebbe dell’unico rimedio esperibile atteso che, a suo avviso, «la normativa impugnata, con la previsione della deroga in parte qua alle disposizioni del codice di rito penale che vincolano al segreto investigativo, non consente l’instaurazione di un giudizio, nell’ambito del quale sia possibile sollevare questione incidentale di costituzionalità».
Difatti, in base alla giurisprudenza costituzionale (vengono richiamate le ordinanze n. 16 del 2013 e n. 343 del 2003), il conflitto di attribuzione in relazione ad una norma «recata da una legge o da un atto avente forza di legge» risulterebbe ammissibile tutte le volte in cui da essa «possono derivare lesioni dirette dell’ordine costituzionale delle competenze», ad eccezione dei casi in cui esista un giudizio nel quale la norma debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulla legge.
Alla luce di ciò, il ricorrente esponeva, quindi, le ragioni per le quali riteneva che la disposizione impugnata fosse lesiva delle proprie attribuzioni costituzionali, riportando ampi stralci della delibera adottata dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 14 giugno 2017 (recte: 15 giugno 2017), recante «Proposta ex art. 10, comma 2, legge n. 195 del 1958 al Ministro della giustizia finalizzata ad una modifica normativa dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177» e a tale delibera il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari aveva dichiarato di aderire integralmente.
Il ricorrente affermava anzitutto che la disposizione impugnata sarebbe stata viziata da eccesso di delega, non trovando adeguata copertura nella legge di delega e, in particolare, nell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), il quale autorizzava il Governo a razionalizzare e potenziare l’«efficacia delle funzioni di polizia anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio al fine di evitare sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei servizi strumentali […]» fermo restando che tale previsione – preordinata, in conformità alla ratio ispiratrice dell’intera legge di delega, ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione di uffici, servizi ed impiego del personale – non sarebbe stata sufficiente a giustificare l’introduzione della disposizione oggetto del conflitto.
Il ricorrente evidenziava, inoltre, che non vi sarebbe stato alcun accenno, nei lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge di delega, alla possibilità di prevedere, a carico dei responsabili di ciascun presidio di polizia giudiziaria, una comunicazione in via gerarchica di notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale mentre all’opposto tale disposizione trova origine dall’accoglimento, da parte del Governo, di una delle osservazioni avanzate in data 12 luglio 2016, in sede di parere sullo schema di decreto legislativo, dalle Commissioni I e IV della Camera dei deputati dato che, con decisione assunta a maggioranza, le suddette Commissioni riunite avevano suggerito di estendere a tutte le Forze di polizia la previsione di cui all’art. 237 del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246).
In secondo luogo, il ricorrente lamentava la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.
Ad avviso del giudice rimettente, invero, sussisterebbe un «nesso strumentale» tra tale principio e la direttiva della disponibilità diretta della polizia giudiziaria in favore dell’autorità giudiziaria stante il fatto che l’art. 112 Cost. garantirebbe l’indipendenza funzionale del pubblico ministero da ogni altro potere e, in particolare, dal potere esecutivo, ma il principio di obbligatorietà dell’azione penale «potrebbe essere sostanzialmente eluso dalla concreta organizzazione della polizia giudiziaria»: a parere del ricorrente, infatti, «chi gestisce la polizia giudiziaria può condizionarne l’iniziativa determinando un rafforzamento della sua dipendenza dal potere esecutivo», in quanto gli organi di polizia giudiziaria, nelle loro diverse articolazioni, integrano strutture gerarchicamente dipendenti dal Governo.
Altrettanto evidente sarebbe stata la stretta correlazione esistente tra azione penale obbligatoria e segretezza delle indagini, la deroga alla quale sarebbe «in concreto foriera di rischi per l’esito positivo delle investigazioni e, per ciò stesso, dell’effettività ed efficacia dell’esercizio dell’azione penale», a tutela delle quali sarebbero appunto posti, dal codice di procedura penale, «limiti e tempi precisi e rigorosi per la segretezza»: tali regole sarebbero state a loro volta «disinvoltamente» superate dalla disposizione oggetto del sollevato conflitto, «peraltro a beneficio di organi dell’Amministrazione neppure dotati della connotazione di appartenenti alla polizia giudiziaria», come tali privi di legittimazione all’accesso all’attività d’indagine.
Il ricorrente prospettava, infine, la violazione delle prerogative costituzionali di cui all’art. 109 Cost. atteso che costui, richiamando alcune pronunce della Corte costituzionale (in particolare le sentenze n. 94 del 1963 e n. 114 del 1968), evidenziava come l’art. 109 Cost., nel conferire all’autorità giudiziaria il potere di disporre direttamente della polizia giudiziaria, avrebbe trovato la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze della funzione requirente e giudiziaria e nella necessità di garantire alla magistratura la più sicura e autonoma disponibilità dei mezzi d’indagine. La norma costituzionale, a prescindere dalle sue possibili implicazioni di carattere organizzativo, avrebbe dunque istituito un rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria, escludendo interferenze di altri poteri nella condotta delle indagini, in modo che la direzione di queste ultime risulti effettivamente riservata alla autonoma iniziativa dell’autorità giudiziaria medesima.
La comunicazione in via gerarchica delle informazioni, prevista dalla disposizione oggetto del conflitto, senza alcun filtro o controllo del pubblico ministero procedente, a beneficio, fra l’altro, anche di soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e che, per la loro posizione apicale, vedono particolarmente stretto il rapporto di dipendenza organica dalle articolazioni del potere esecutivo, non appariva tra l’altro al ricorrente in linea con le prerogative riconosciute al pubblico ministero nell’esercizio dell’attività d’indagine atteso che tali informazioni sarebbero portate a conoscenza di «soggetti esterni al perimetro dell’indagine stessa, e non per determinazione autonoma del magistrato (come pure può accadere per le necessità organizzative o logistiche delle indagini)», ma per vincolo di legge, con il rischio di possibili interferenze nell’esercizio dell’azione penale.
Il ricorrente, conclusivamente, osservava come l’espressione, contenuta nella disposizione impugnata, «trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato», avrebbe potuto essere intesa in senso sia restrittivo che estensivo.
Nel primo significato, si tratterebbe di trasmettere, non le informative, ma solo le «notizie relative» ad esse, ossia il fatto di aver inoltrato all’autorità giudiziaria «una certa informativa riguardante un certo reato, il tutto ai soli fini del coordinamento» e, così intesa, la disposizione non avrebbe violato alcun segreto o alcuna prerogativa dell’autorità giudiziaria, ma – ad avviso del ricorrente – si sarebbe rilevata priva di senso, poiché il coordinamento presuppone la conoscenza del contenuto e degli sviluppi dell’attività investigativa.
Nel secondo significato, la disposizione imporrebbe invece la trasmissione ai superiori gerarchici delle notizie relative al contenuto ed agli sviluppi dell’attività investigativa, proprio ai fini dell’effettivo coordinamento, con ciò pregiudicando le attribuzioni dell’autorità giudiziaria.
In ogni caso – osserva ancora il ricorrente – il «coordinamento» affidato alla «gerarchia» delle Forze di polizia si risolverebbe in una interferenza nelle indagini condotte dal pubblico ministero, come dimostrato dal fatto che l’ordinamento già affida tale compito alla sola autorità giudiziaria (ad esempio, alle Direzioni, nazionale e distrettuali, antimafia, e alle Procure presso la Corte di cassazione e le corti d’appello), in virtù di specifiche norme sui conflitti positivi e negativi di competenza, «al limite con la partecipazione consultiva delle Forze dell’Ordine».
Per le ragioni illustrate, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari chiedeva che la Corte costituzionale, considerato ammissibile il conflitto, dichiarasse che «non spettava al Presidente del Consiglio dei Ministri, poiché incompetente alla luce dei disposti degli articoli 112 e 109 Costituzione, adottare, in violazione di dette norme della Carta costituzionale, le disposizioni dell’art. 18, co. 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 177», nella parte in cui prevedono: «[…] al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Conseguentemente, detta Procura chiedeva alla Corte costituzionale di annullare tale disposizione.
Inoltre, in data 30 ottobre 2017, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari aveva depositato una memoria con la quale aveva ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno dell’ammissibilità del sollevato conflitto.
Nell’approfondire la questione relativa alla sussistenza del requisito della residualità, richiesto dalla giurisprudenza costituzionale in caso di conflitto sollevato contro un atto avente forza di legge, si rilevava, in questa memoria, come non vi sarebbero stati giudizi nei quali la questione di legittimità costituzionale della norma denunciata potrebbe essere sollevata.
Sarebbe anzitutto impossibile che si potesse instaurare un giudizio amministrativo di impugnazione delle «istruzioni» dei vertici delle Forze di polizia, la cui adozione è prevista dalla disposizione censurata, in quanto tale giudizio presuppone che le «istruzioni» siano contenute in un atto o in un provvedimento amministrativo impugnabile rilevando altresì il ricorrente che, nonostante notizie di stampa in relazione ad una circolare che sarebbe stata emanata dal Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza in data 8 ottobre 2016, nessun atto di questo tipo sarebbe mai stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale o comunicato alle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari sicché eventuali istruzioni diramate rivestirebbero il valore di «atto meramente interno alla pubblica amministrazione», con conseguente inconfigurabilità di un interesse del ricorrente alla loro impugnazione, non potendosi considerare alla stregua di regolamenti amministrativi, come tali impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
Quanto ad un ipotetico giudizio penale, per violazione del segreto investigativo, contro l’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia trasmesso alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, il ricorrente qualificava tale ipotesi «di dubbia rilevanza penale» in quanto, rispetto al reato di cui all’art. 326 cod. pen., avrebbe operato, in funzione di scriminante, proprio la disposizione censurata.
Ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto in radice escludersi anche un giudizio penale per omissione di atti di ufficio in quanto l’ufficiale di polizia giudiziaria potrebbe sempre obiettare che l’atto rifiutato non era compreso nel novero di quelli da compiersi senza ritardo e «per ragioni di giustizia», come richiesto dal primo comma dell’art. 328 cod. pen., e che l’omissione o il ritardo nella trasmissione alla scala gerarchica erano pienamente giustificati dall’esigenza di «rendere possibile o più agevole l’attività … del pubblico ministero» e dunque, anche in tal caso, l’ufficiale di polizia giudiziaria non sarebbe punibile e non esisterebbe un giudizio nell’ambito del quale sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla norma denunciata.
A non diverse conclusioni il ricorrente giungeva in relazione all’ipotesi, astrattamente configurabile, del giudizio civile o amministrativo conseguente al procedimento disciplinare nei confronti dell’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia omesso di operare la trasmissione alla scala gerarchica dato che, alla controversia instaurata dall’ufficiale di polizia giudiziaria, innanzi al giudice fornito di giurisdizione e per contestare la legittimità della sanzione irrogata, sarebbe estraneo il pubblico ministero e non avrebbero alcuna rilevanza le questioni relative alle prerogative costituzionali di quest’ultimo e fermo restando che il giudice, ordinario o speciale, avrebbe sempre «il potere di disapplicare le disposizioni secondarie» poste a fondamento della sanzione irrogata.
Il ricorso per conflitto di attribuzione era stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 273 del 2017 atteso che la Consulta, in base all’art. 24, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, aveva assegnato al ricorrente Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari il termine di sessanta giorni, con decorso dalla comunicazione dell’ordinanza, per notificare al Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, il ricorso e l’ordinanza dichiarativa dell’ammissibilità, e ha assegnato l’ulteriore termine di trenta giorni dalla notificazione per il deposito dei medesimi atti nella cancelleria di questa Corte.
L’ordinanza n. 273 del 2017, a sua volta, era stata comunicata dalla cancelleria della Corte costituzionale al ricorrente il 19 dicembre 2017.
Il ricorrente, a sua volta, aveva proceduto alla notifica al Governo il 18 gennaio 2018 e aveva poi depositato il 1° febbraio 2018 nella cancelleria della Corte costituzionale il ricorso e l’ordinanza notificati.
Le argomentazioni sostenute dalle parti
Il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, aveva depositato in data 9 marzo 2018 atto di costituzione in giudizio eccependo l’inammissibilità del conflitto e, nel merito, la non fondatezza dei motivi di ricorso.
Assumeva, in primo luogo, il resistente che il conflitto sarebbe stato inammissibile in quanto il ricorrente non avrebbe lamentato una lesione attuale, concreta e diretta delle proprie attribuzioni, bensì una possibile lettura della disposizione impugnata.
Ad avviso dell’Avvocatura generale, il ricorrente avrebbe invece dovuto dapprima verificare se l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 fosse stato effettivamente inteso e univocamente applicato nel senso temuto dal ricorrente – ossia quale disposizione che impone la trasmissione, da parte della polizia giudiziaria alla propria scala gerarchica, non solo di mere notizie relative all’avvenuto invio di informative di reato, bensì anche di ragguagli in merito al contenuto e agli sviluppi dell’attività investigativa conseguentemente avviata – e, solo in seguito, in caso di risposta affermativa, promuovere il conflitto.
L’ipoteticità del conflitto sarebbe stata avvalorata dallo stesso contenuto precettivo della disposizione legislativa impugnata, che rimanda «a future istruzioni operative […] l’indicazione delle concrete modalità con cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato sono tenuti a trasmettere alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria» e, ad avviso dell’Avvocatura generale, il conflitto avrebbe dovuto semmai essere sollevato nei confronti delle istruzioni operative, quando adottate dalle varie Forze di polizia, e non avverso la disposizione legislativa, di per sé suscettibile di plurime interpretazioni.
Eccepiva, in secondo luogo, il resistente che il conflitto sarebbe stato inammissibile per carenza «del requisito della residualità» avendo ad oggetto una disposizione legislativa suscettibile di essere censurata, sotto il profilo della legittimità costituzionale, nell’ambito di un giudizio ordinario e, a dimostrazione di tale assunto, l’Avvocatura generale menzionava la pendenza di un giudizio avente ad oggetto una sanzione disciplinare irrogata ad un dipendente della Polizia di Stato per la violazione delle indicazioni operative adottate in attuazione dell’impugnato art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, nel quale sarebbe stata eccepita proprio la questione di legittimità costituzionale di quest’ultimo.
Potendo, dunque, la disposizione impugnata venire in rilievo, oltre che in procedimenti penali concernenti violazioni del segreto investigativo, anche in giudizi in cui siano in contestazione provvedimenti disciplinari, il conflitto sarebbe stato inammissibile alla luce della giurisprudenza costituzionale che esclude l’esperibilità del conflitto di attribuzioni in relazione ad atti legislativi ogniqualvolta sia ipotizzabile un giudizio comune nel quale la norma sia suscettibile di trovare applicazione e possa, dunque, essere promosso un giudizio in via incidentale.
Eccepiva, infine, il resistente che il conflitto sarebbe altresì inammissibile per difetto di motivazione essendosi il ricorrente limitato a trascrivere acriticamente parti della delibera assunta dal Consiglio superiore della magistratura in data 14 giugno 2017 (recte: 15 giugno 2017) senza specificare le ragioni per le quali l’atto impugnato comporterebbe un effettivo vulnus alle proprie attribuzioni fermo restando che nel ricorso sarebbe mancato – ad avviso dell’Avvocatura generale – un’autonoma elaborazione ed argomentazione dei motivi di ricorso e, in particolare, dei profili di lesione delle attribuzioni del ricorrente.
Quanto al primo motivo di doglianza, ossia la violazione dell’art. 76 Cost., il resistente ne eccepiva l’inammissibilità e, in subordine, la non fondatezza.
Argomenta, anzitutto, l’Avvocatura generale che, nel conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, è possibile lamentare solo la lesione dei parametri costituzionali che delineano le competenze del potere cui appartiene l’organo ricorrente mentre al contrario il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari lamenterebbe «un vizio di eccesso di delega ex art. 77 Cost.», afferente «all’astratta legittimità costituzionale della disposizione censurata, di per sé non idoneo a determinare alcuna invasione o minaccia di lesione delle proprie attribuzioni».
Qualora dichiarato ammissibile, tale motivo di doglianza sarebbe stato comunque non fondato in quanto, osserva l’Avvocatura generale, il d.lgs. n. 177 del 2016 è stato emanato sulla base della delega recata nell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge n. 124 del 2015 con cui il Governo è stato autorizzato a realizzare, attraverso l’adozione di uno o più decreti legislativi, un ampio processo riformatore della pubblica amministrazione statale «e, nello specifico, delle Forze di polizia» e il citato art. 8 prevede che gli interventi legislativi delegati si ispirino a criteri di «razionalizzazione e potenziamento dell’efficacia delle funzioni di polizia, anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio, al fine di evitare sovrapposizioni di competenze» fermo restando che a tale finalità avrebbe risposto la disposizione impugnata nella parte in cui intensifica il coordinamento informativo tra le Forze di polizia.
Ricordava quindi il resistente come fossero state le Commissioni riunite I e IV della Camera dei deputati, nel parere reso sullo schema di decreto legislativo, a chiedere al Governo di valutare l’opportunità di estendere a tutte le Forze di polizia le previsioni già stabilite, solo per l’Arma dei carabinieri, dall’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, il quale dispone che, indipendentemente dagli obblighi prescritti dal codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri danno notizia alla propria scala gerarchica delle informative di reato secondo modalità fissate con apposite istruzioni dal Comandante generale e la disposizione ora impugnata sarebbe stata dunque inserita nel testo definitivo del decreto legislativo per dare seguito alla richiesta avanzata in sede parlamentare.
Sempre ad opinione dell’Avvocatura generale, la legge delega invitava il Governo ad introdurre disposizioni che migliorassero la «cooperazione sul territorio» tra le varie Forze di polizia; che tale finalità poteva essere perseguita, oltre che con misure di carattere organizzativo o logistico, anche sul versante del «coordinamento informativo ed operativo»; che il circuito del coordinamento informativo non riguarda solo il rapporto tra autorità di pubblica sicurezza e Forze di polizia, bensì anche il rapporto tra Forze di polizia e autorità giudiziaria (come testimoniato da altre norme del codice di procedura penale e da disposizioni contenute in altre leggi); che, in definitiva, la previsione contenuta nell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 si inseriva pieno titolo nel quadro di rafforzamento delle misure di coordinamento informativo a cui fa riferimento la legge delega afferendo ad uno degli aspetti principali del sistema della pubblica sicurezza e ponendosi altresì in un rapporto di assoluta coerenza e continuità con la legislazione precedente.
Concludendo sul punto il resistente rilevava come la delega conferita al Governo fosse stata «particolarmente ampia» in quanto suscettibile di investire diversi e plurimi aspetti dell’organizzazione e del funzionamento dell’intero comparto della pubblica sicurezza e che, rispetto a deleghe legislative «c.d. “vaste o con plurimi oggetti”», la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto al Governo una discrezionalità altrettanto ampia nell’individuare le soluzioni più idonee a dare concreta attuazione ai criteri direttivi; che, «[i]n questo senso», il limite al potere legislativo delegato non si rinverrebbe «tanto nella lettera dei medesimi criteri, bensì nel dovere di “non porsi in contrasto” con le finalità indicate dal Parlamento».
Quanto alle prospettate lesioni delle prerogative costituzionali presidiate dagli artt. 109 e 112 Cost., l’Avvocatura generale ne sosteneva l’insussistenza.
In relazione all’art. 112 Cost., in particolare, si evidenziava come non fosse corretto l’assunto secondo il quale il fondamento del segreto di indagine si sarebbe dovuta rinvenire nell’evocato parametro costituzionale, venendo in rilievo un istituto processuale posto a presidio di un valore diverso, rappresentato dalla necessità di garantire il buon esito dell’azione penale, sotto il profilo della ricerca della verità, dell’acquisizione delle prove e della genuinità di queste ultime.
In questa prospettiva, allora, il segreto di indagine avrebbe dovuto ascriversi, a parere dell’Avvocatura generale, ai principi recati in generale dall’art. 111 Cost. in materia di esercizio della giurisdizione penale.
A sostegno della valutazione di non conferenza del parametro evocato dal ricorrente, si aggiungeva che, nonostante l’art. 112 Cost. assolvesse anche ad una funzione di garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero, la posizione di questi sarebbe tuttavia caratterizzata da specifiche peculiarità rispetto agli altri magistrati appartenenti all’ordine giudiziario in quanto la garanzia della sua indipendenza – a prescindere dagli ambiti nei quali la sua posizione sarebbe «omologa a quella del giudice» e come tale tutelata dagli artt. 105, 106 e 107 Cost. – sarebbe rimessa alla legge ordinaria la quale non detterebbe «norme volte a sancire l’intangibilità in assoluto» del segreto investigativo, prevedendo, anzi, numerose deroghe volte alla tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti, addirittura “esterni” al processo, di cui sarebbero portatori altri poteri dello Stato.
A titolo esemplificativo, l’Avvocatura generale richiamava a tal proposito le deroghe al segreto investigativo previste in favore di alcune commissioni parlamentari dalle relative leggi istitutive oppure, in favore del Ministro dell’interno e del Presidente del Consiglio dei ministri, rispettivamente dagli artt. 118 e 118-bis cod. proc. pen.
Ciò sarebbe stato indicativo del fatto che la deroga al segreto investigativo, prevista per legge, non implicherebbe, di per sé, una lesione ai principi che governano l’azione penale, sotto il profilo dell’obbligatorietà del suo esercizio: la legittimità costituzionale di simili limiti e deroghe dipenderebbe unicamente dal rispetto del principio di ragionevolezza il quale imporrebbe di calibrarne l’esercizio sui parametri di effettiva necessità e di «non ostacolo» all’esercizio dell’azione penale e dunque, sotto tale profilo, si sarebbe in presenza di una deroga al segreto investigativo «del tutto ragionevole e proporzionata, in quanto sottoposta a limiti esterni (in ragione delle finalità perseguite) ed interni (riferiti al contenuto delle informazioni suscettibili di essere trasmesse alla scala gerarchica) tali da evitare qualsiasi interferenza con l’esercizio dell’azione penale» e a tali limiti si sarebbero attenuti i vertici delle Forze di polizia nell’emanare le direttive autorizzate dalla disposizione impugnata, essendosi, in esse, precisato «che la comunicazione alla scala gerarchica deve essere circoscritta ai dati e alle notizie strettamente indispensabili all’esercizio delle funzioni di coordinamento», pure strumentali – al pari del segreto investigativo – al fruttuoso esercizio dell’azione penale.
A tale proposito, osserva ancora l’Avvocatura generale, la trasmissione alla scala gerarchica della Forza di polizia di notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria non avrebbe comportato un mutamento della “qualità” della notizia che continuerebbe ad essere e a rimanere segreta, tanto più considerando che essa verrebbe partecipata a soggetti particolarmente qualificati, per il ruolo apicale rivestito in seno alla Forza di polizia e, comunque, tenuti anch’essi all’osservanza del segreto in ragione dell’ufficio rivestito.
In relazione all’art. 109 Cost., l’Avvocatura generale evidenziava come il Costituente avesse scelto di non imporre la creazione di un autonomo corpo di polizia giudiziaria, svincolato dall’esecutivo e posto alle esclusive dipendenze della magistratura, sicché il legislatore ordinario avrebbe optato per la creazione di un sistema (giudicato coerente con il dettato costituzionale dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963) in cui gli organi delle Forze di polizia deputati a svolgere compiti di polizia giudiziaria vengono a trovarsi in un regime di “doppia dipendenza”: di tipo funzionale dall’autorità giudiziaria e di tipo organizzativo dall’esecutivo.
Avendo la Corte costituzionale affermato – nella successiva sentenza n. 122 del 1971, in tema di disciplina (all’epoca vigente) dei poteri disciplinari e di controllo della magistratura sulla polizia giudiziaria – che non spetterebbe al giudice costituzionale stabilire se il sistema, così come concretamente realizzato, corrisponda in tutto all’intento perseguito dal Costituente, sarebbe escluso che possano formare oggetto del conflitto «situazioni di ordine meramente pratico e applicativo dei precetti legislativi che, a vario titolo, possano chiamare in causa l’attuazione dei principi dell’art. 109», poiché simili situazioni sarebbero «giustiziabili con i rimedi “ordinari” previsti dall’ordinamento».
La disposizione censurata, in altre parole, non avrebbe inciso in alcun modo sul rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero – non comportando alcuna ingerenza sul potere di direzione delle indagini, per come disciplinato dal codice di procedura penale – né sui poteri di vigilanza e controllo, anche disciplinare, di cui la magistratura è titolare nei confronti della polizia giudiziaria.
Proprio il fatto che la notizia relativa all’informativa di reato debba essere fornita alla scala gerarchica solo dopo la sua acquisizione o, comunque, non prima del suo inoltro all’autorità giudiziaria, ciò escluderebbe, in radice, che l’esecutivo possa, attraverso la stessa scala gerarchica, dispiegare forme di ingerenza nella conduzione delle indagini.
Per questo motivo, la disposizione impugnata non troverebbe applicazione alle «sezioni» di polizia giudiziaria di cui all’art. 58, comma 3, cod. proc. pen. trattandosi di uffici operanti alle esclusive dipendenze del pubblico ministero e, quindi, non facenti parte della «struttura burocratica» di ciascuna Forza di polizia.
L’Avvocatura generale, piuttosto, sottolineava come gli apparati di polizia fossero caratterizzati da un’organizzazione di carattere gerarchico sicché i responsabili dei vari uffici e comandi sono tenuti ad esercitare, in ragione della loro posizione sovraordinata, funzioni di vigilanza e controllo che non possono essere trascurate, «pena un grave pregiudizio in termini di funzionalità» e ciò sarebbe dimostrato dalla vigenza nell’ordinamento di altra norma, omologa a quella impugnata, specificamente riferita all’Arma dei carabinieri (e contenuta nell’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010) che non avrebbe mai creato, nella prassi operativa, alcuno dei problemi paventati dal ricorrente: la disposizione impugnata, allora, dettando, con forza di legge, una disciplina organica e comune a tutti gli apparati di polizia, introdurrebbe un elemento di chiarezza e trasparenza, senza incidere in alcun modo sul corretto svolgimento delle indagini e sulla tenuta complessiva del segreto investigativo.
In data 2 ottobre 2018 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari depositava un’ulteriore memoria in cui venivano approfondite le ragioni che, a suo avviso, deponevano per la fondatezza del conflitto.
In merito all’asserita lesione dell’art. 76 Cost., il ricorrente ribadiva che nessuno dei principi e criteri direttivi indicati nella legge delega permettesse di ritenere, neppure implicitamente, che il Governo fosse stato autorizzato ad introdurre un obbligo di comunicazione in via gerarchica delle notizie relative alle informative di reato, né – a suo avviso – un principio o criterio direttivo in tal senso avrebbe potuto essere ricavato per relationem.
Pur ricordando che la Corte costituzionale consente al legislatore delegato di introdurre norme che rappresentino un «coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal legislatore delegante e dalle ragioni ad essa sottese», il ricorrente evidenziava, inoltre, che, nel caso di specie, tale coerenza non sarebbe stata in alcun modo ravvisabile, risultando al contrario irragionevole l’introduzione di una disposizione lesiva degli artt. 109 e 112 Cost.
Osservava ancora il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari come l’incoerenza della disposizione impugnata rispetto alla ratio della legge delega sarebbe stata dimostrata dall’analisi dei lavori parlamentari e, in particolare, dal fatto che la norma sarebbe stata introdotta «autonomamente» dal Governo solo a seguito di una osservazione proveniente dalle Commissioni I e IV della Camera dei deputati.
Precisava infine il ricorrente come la disposizione impugnata non avrebbe potuto neppure dirsi attuativa dell’art. 17, lettera u), della legge delega, concernente la «razionalizzazione dei flussi informativi dalle amministrazioni pubbliche alle amministrazioni centrali e concentrazione degli stessi in ambiti temporali definiti», poiché trattasi di disposizione chiaramente riferita alla disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
In ordine all’asserita violazione dell’art. 112 Cost., il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari ribadiva gli argomenti illustrati nel ricorso introduttivo e nella memoria depositati il 30 ottobre 2017.
Secondo il ricorrente, il meccanismo di comunicazione introdotto dalla disposizione impugnata, avendo come destinatari organi dell’amministrazione non appartenenti alla polizia giudiziaria (e, come tali, privi della legittimazione all’accesso alle informazioni concernenti le attività d’indagine), avrebbe arrecato un evidente pregiudizio all’obbligo previsto a carico del pubblico ministero di attivare l’azione penale davanti a tutte le notizie di reato, finendo per minare il carattere di indipendenza che, invece, la norma costituzionale di cui all’art. 112 Cost. garantisce all’organo requirente.
Tale propalazione di notizie, in particolare, avrebbe arrecato danno all’indipendenza funzionale del pubblico ministero, anche a causa dei condizionamenti, delle pressioni e/o delle influenze che, una volta diffusa la notizia relativa all’inoltro di un’informativa all’autorità giudiziaria, potrebbero provenirgli dall’esterno, con particolare riguardo al potere esecutivo, in occasione della decisione sull’esercizio dell’azione penale e con conseguente vulnus anche ai principi dell’effettività e dell’efficacia dell’azione penale.
Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 109 Cost., il ricorrente richiamava tutti gli argomenti già illustrati in ricorso.
Si ribadiva, in particolare, che il rapporto di dipendenza funzionale, che la Costituzione stabilisce dovesse intercorrere tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria, sarebbe primariamente finalizzato a evitare qualsivoglia tipo di interferenza, nella conduzione delle indagini, da parte di poteri altri e distinti da quello della magistratura inquirente sicché la disposizione impugnata, «determinando la fuoriuscita di informazioni sensibili al di fuori del circuito costituzionalmente previsto», finirebbe per ledere le prerogative costituzionalmente riconosciute all’autorità requirente, ingenerando il concreto rischio che il potere esecutivo, da cui sono strettamente dipendenti, da un punto di vista organico, i destinatari dell’informativa, in quanto collocati in posizione apicale, possa indebitamente ingerirsi nello svolgimento dell’attività investigativa.
In prossimità dell’udienza pubblica, in data 16 ottobre 2018, il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, depositava una memoria in cui chiedeva che il ricorso per conflitto fosse dichiarato inammissibile e, nel merito, non fondato.
Quanto all’ammissibilità, l’Avvocatura generale insisteva, con ulteriori argomenti, sull’assenza del requisito della residualità e, in particolare, replicando alle osservazioni contenute nella memoria del ricorrente del 30 ottobre 2017, contestava che le istruzioni emanate dalle autorità di polizia non potessero essere impugnate in sede giurisdizionale, ritenendo che si dovesse piuttosto distinguere tra atti interni meramente interpretativi, effettivamente non impugnabili in via immediata e diretta, e atti interni recanti istruzioni vincolanti, i quali, invece, essendo destinati a conformare l’azione dei pubblici poteri nei rapporti esterni, assumono i caratteri dell’immediata lesività e potessero, per ciò, essere impugnati.
Poiché gli atti amministrativi emanati dalle Forze di polizia ai sensi dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 assumerebbero – ad avviso dell’Avvocatura generale – la natura di istruzioni operative vincolanti per i pubblici ufficiali, come tali idonee a conformarne l’azione rispetto a soggetti esterni, essi sarebbero stati immediatamente censurabili in sede giudiziaria.
Osservava, inoltre, l’Avvocatura generale che la mancata pubblicazione o comunicazione non assumesse rilevanza al fine di ricostruire il regime giuridico degli atti con particolare riferimento alla sindacabilità in sede giurisdizionale e ciò anche perché, nel caso di specie, le istruzioni sarebbero certamente conosciute dalle autorità giudiziarie.
Sempre al fine di argomentare l’assenza di residualità del conflitto, l’Avvocatura generale affermava di non condividere la tesi del ricorrente, secondo cui la questione di legittimità costituzionale del citato art. 18, comma 5, non avrebbe potuto essere sollevata nell’ambito di un processo penale promosso ai sensi dell’art. 326 cod. pen., in quanto la Corte costituzionale ben può essere investita del giudizio sulle norme penali di favore.
Osservava ancora l’Avvocatura generale – a differenza di quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente – che la questione di legittimità costituzionale avrebbe potuto essere promossa anche nell’ambito di giudizi penali nei confronti di ufficiali di polizia giudiziaria imputati del reato di cui all’art. 328 cod. pen., non potendo tali soggetti invocare l’esimente costituita dall’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016.
Parimenti, la questione di legittimità costituzionale della disposizione impugnata avrebbe potuto essere eccepita in un giudizio amministrativo avverso il provvedimento disciplinare emesso contro l’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia rifiutato di inoltrare alla scala gerarchica la comunicazione delle notizie di reato e sul punto, ricordava ancora l’Avvocatura generale come pendesse, innanzi al Consiglio di Stato, un giudizio di questo tipo.
Rilevava, infine, come il difetto di residualità non avrebbe potuto comunque essere escluso dalla circostanza che il Procuratore della Repubblica non era parte del giudizio amministrativo in quanto – a suo avviso – il requisito della residualità non potrebbe essere inteso in senso soggettivo «come impossibilità per il ricorrente di sollevare personalmente la questione di legittimità costituzionale in altro giudizio in via incidentale», dovendo piuttosto essere ricostruito «in senso oggettivo in ragione, del resto, della natura di diritto oggettivo della giurisdizione costituzionale, la quale è esercitata non tanto per la tutela di situazioni giuridiche soggettive attive dei singoli, quanto a garanzia dell’unità e della legittimità dell’ordinamento», e ciò sarebbe stato confermato dal fatto che il giudizio incidentale di costituzionalità, anche nei processi in cui è parte il pubblico ministero, non viene comunque introdotto dalla parte pubblica, bensì solo dal giudice procedente.
Quanto al merito del conflitto, l’Avvocatura generale, al fine di argomentare la non violazione dell’art. 76 Cost., sottolineava ancora come la disposizione impugnata rispondesse solo a finalità di coordinamento informativo e operativo posto che essa si limiterebbe a riprodurre, «con formula sostanzialmente identica», la disposizione già contenuta nell’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, la quale «non risulta aver mai determinato alcuna lesione delle attribuzioni costituzionalmente garantite degli Uffici di Procura», ma anzi «dimostra l’essenzialità del coordinamento informativo in funzione del buon andamento degli uffici pubblici».
Si tratterebbe, dunque, di una disposizione certamente compatibile con la legge delega la quale ha autorizzato il Governo a razionalizzare e potenziare l’esercizio delle funzioni di polizia anche nell’ottica di una migliore «cooperazione sul territorio».
In merito alla asserita violazione degli artt. 109 e 112 Cost., l’Avvocatura generale ribadiva gli argomenti già illustrati nell’atto di costituzione in giudizio.
Aggiungeva, con riferimento alla prospettata violazione di entrambi i parametri da ultimo citati, che l’obbligo di comunicazione alla scala gerarchica di notizie relative alle informative di reato sorgesse «solo dopo l’acquisizione e la comunicazione di queste all’autorità giudiziaria», in tal modo «evitando qualsivoglia previa (illecita) interferenza da parte dei superiori gerarchici dei segnalanti».
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
La Consulta osservava in via preliminare come andasse confermata, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 273 del 2017 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi mentre, in relazione al profilo soggettivo, veniva ribadita la natura di potere dello Stato del pubblico ministero, e in particolare del Procuratore della Repubblica (art. 1, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, recante «Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150»), in quanto autorità giudiziaria che dispone direttamente della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 109 Cost., e perciò titolare delle attività d’indagine finalizzate all’esercizio obbligatorio dell’azione penale in virtù dell’art. 112 Cost. (sentenze n. 1 del 2013, n. 88 e n. 87 del 2012 e n. 420 del 1995; ordinanza n. 17 del 2013) così come si affermava la legittimazione del Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, ad essere parte nel conflitto, posto che l’atto asseritamente lesivo – la disposizione di un decreto legislativo – è imputabile al potere esecutivo nella sua interezza (sentenza n. 420 del 1995; ordinanze n. 16 del 2013, n. 23 del 2000 e n. 323 del 1999).
Invece, quanto al profilo oggettivo, nella ricordata ordinanza n. 273 del 2017 la Corte affermava come l’idoneità di un atto avente natura legislativa a determinare conflitto sussistesse tutte le volte in cui dalla norma primaria «derivino in via diretta lesioni dell’ordine costituzionale delle competenze», salvo che sia configurabile un giudizio nel quale la norma primaria risulti applicabile e quindi possa essere su di essa sollevata, in via incidentale, questione di legittimità costituzionale aggiungendosi oltre a ciò che, nel caso di specie, l’«effettiva configurabilità di un tale giudizio» non emergeva prima facie, ma che ogni diversa valutazione restava impregiudicata e avrebbe dovuto essere approfondita in seguito al «pieno dispiegarsi del contraddittorio tra le parti».
Inoltre, sempre in via pregiudiziale, proprio in virtù del dispiegarsi del contraddittorio, la Consulta era chiamata ad affrontare, in via preliminare, l’eccezione d’inammissibilità del conflitto per carenza del requisito oggettivo, avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Governo, costituitosi in giudizio in persona del Presidente del Consiglio dei ministri ritenendola non fondata in quanto, secondo il diritto vivente, un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ben può essere originato anche dall’approvazione di un atto avente valore di legge poichè l’istituto del conflitto tra poteri è primariamente preordinato a garantire l’integrità della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri dalle disposizioni costituzionali, a prescindere dalla natura dell’atto che si assume lesivo di tali attribuzioni (sentenze n. 221 del 2002, n. 139 del 2001 e n. 457 del 1999) posto che la giurisdizione costituzionale sui conflitti tra poteri si fonda, in primo luogo, sulla natura dei soggetti che confliggono e sulle competenze costituzionali che essi difendono in giudizio, e ciò perché è vero che nel nostro sistema di giustizia costituzionale gli atti aventi valore di legge sono solitamente sottoposti al controllo di costituzionalità attraverso il giudizio di legittimità costituzionale (a seconda dei casi, in via incidentale o principale) e per questo motivo, nella generalità dei casi, va esclusa l’esperibilità del ricorso per conflitto tra poteri, tutte le volte che l’atto legislativo – al quale sia in ipotesi imputata una lesione di attribuzioni costituzionali – può pacificamente trovare applicazione in un giudizio, nel corso del quale la relativa questione di legittimità costituzionale può essere eccepita, e sollevata, è pure vero, con riferimento a casi rispetto ai quali nessun dubbio poteva in proposito essere prospettato, che la giurisprudenza della Consulta aveva ritenuto inammissibile il ricorso per conflitto su atto legislativo, appunto sul presupposto che «esista un giudizio» in cui l’atto legislativo può trovare applicazione (sentenza n. 284 del 2005; ordinanze n. 17 e n. 16 del 2013, n. 38 del 2008, n. 343 del 2003 e n. 144 del 2000; nello stesso senso ordinanze n. 14 e n. 1 del 2009).
Si evidenzia tuttavia come, in altre pronunce, la Consulta avesse avuto modo di precisare che l’ammissibilità del ricorso per conflitto su atto legislativo è altresì subordinata alla circostanza che la lesione delle attribuzioni costituzionali non possa essere rilevata, sotto forma di eccezione di legittimità costituzionale nel giudizio in via incidentale, proprio dal soggetto direttamente interessato (sentenza n. 457 del 1999; ordinanza n. 38 del 2001) rilevandosi in particolare che non è la mera configurabilità di un giudizio nel quale la disposizione può trovare applicazione a ostacolare l’ammissibilità del conflitto dovendosi trattarsi di un giudizio in cui il soggetto (o meglio: il potere dello Stato), che ha ritenuto di lamentare la lesione della propria sfera di attribuzioni attraverso il ricorso per conflitto, avrebbe la possibilità di proporre l’eccezione di legittimità costituzionale, cioè deve trattarsi di un giudizio in cui quel soggetto sia o possa essere a tutti gli effetti parte.
A fronte di tale approdo ermeneutico, si denotava però che, a ben vedere, solo l’autorità giurisdizionale giudicante, e purché nell’esercizio delle proprie funzioni, ha la sicura potestà di attivare effettivamente, promuovendolo d’ufficio, il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 (ordinanza n. 144 del 2000), alla condizione che la questione o le questioni sollevate risultino dotate del requisito della rilevanza (sentenza n. 164 del 2017) e perciò, solo in relazione ad essa, non già invece in relazione all’autorità giudiziaria requirente.
Stando così le cose, ad avviso della Corte, non era sufficiente, per accogliere l’eccezione d’inammissibilità in questione, enumerare le diverse ipotesi, peraltro di non facile realizzazione, in cui la disposizione impugnata per conflitto risulterebbe applicabile e perciò eventuale oggetto di una questione di costituzionalità sollevabile in via incidentale, trattandosi di giudizi solo astrattamente ipotizzabili o effettivamente instaurati e addirittura pendenti visto che, in questa prospettiva, la possibile tutela delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero finirebbe per essere affidata alla volontà di altro soggetto, che dovrebbe eccepire una questione di legittimità costituzionale, la cui rilevanza e non manifesta infondatezza dovrebbero essere infine vagliate dal giudice con la conseguenza che la Corte costituzionale, concretamente investita da un potere dello Stato, quale è l’ufficio del pubblico ministero, del giudizio sull’asserita lesione delle sue attribuzioni costituzionali, dovrebbe considerare inammissibile il conflitto, sulla base della futura e solo eventuale possibilità che altro soggetto eccepisca la questione e che il giudice ritenga di sollevarla: conseguenza, come si vede, contraria al principio di effettività della tutela delle attribuzioni costituzionali.
Posto ciò, si osservava come il ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari portasse alla valutazione di questa Corte un vero e proprio conflitto tra poteri dello Stato, in cui una disposizione contenuta in un decreto legislativo è supposta pregiudicare immediatamente le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria requirente, prevedendo, in capo agli appartenenti alla polizia giudiziaria e a beneficio dei superiori gerarchici di quest’ultimi, obblighi informativi sulle notizie di reato, ponendo quindi le relative informazioni nella disponibilità di una “scala gerarchica” che conduce potenzialmente fino ai vertici del potere esecutivo e, in una tale situazione, considerare inammissibile il ricorso in ragione della sola natura dell’atto in ipotesi lesivo (quello con valore legislativo) nonché in ragione della eventuale, futura, configurabilità, su quell’atto, di un giudizio in via incidentale, risulterebbe contrario alla logica e alla natura stessa dell’istituto del conflitto tra poteri tenuto conto altresì del fatto che il giudizio in via incidentale nasce da un caso, e quindi da un processo, in cui sono in discussione situazioni soggettive, mentre il conflitto tra poteri trova la propria ragion d’essere nella necessità di delimitare le rispettive sfere di attribuzione, delineate dalla Costituzione, per i vari poteri dello Stato, secondo la formula dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953 mentre il controllo in via incidentale di legittimità costituzionale delle leggi, pur nascendo a tutela di diritti in ipotesi violati in un singolo caso, assume la natura oggettiva ed astratta di un controllo di conformità della fonte di rango primario; invero, in riferimento a qualsiasi parametro costituzionale risulti invocato dal giudice a quo, il conflitto tra poteri dello Stato è un giudizio tra parti e, quand’anche abbia ad oggetto un atto di valore legislativo, resta necessariamente e strettamente ancorato alla verifica del rispetto delle relative sfere di attribuzione dei poteri in contrasto, e quindi delle sole disposizioni costituzionali relative al rapporto tra questi ultimi.
A fronte di ciò, si osservava oltre tutto come nient’affatto priva di rilievo fosse la circostanza che l’incidente di costituzionalità può non costituire rimedio tempestivo rispetto all’asserita lesione delle sfere di attribuzioni costituzionali del potere ricorrente, tanto più in un’ipotesi, come quella in esame, nel quale la disposizione del decreto legislativo impugnato ha incidenza continua e quotidiana, sia sulla funzione investigativa del pubblico ministero, sia sui compiti informativi della polizia giudiziaria: una situazione nella quale, dunque, l’attendere che la questione di legittimità costituzionale venga eventualmente sollevata per la via incidentale potrebbe frustrare l’esigenza di tutela immediata perseguibile attraverso il ricorso per conflitto giacché, nella sentenza n. 161 del 1995, fu precisato che il conflitto contro l’atto avente valore di legge è ammissibile se incide sulla materia costituzionale e determina situazioni non più reversibili né sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della norma, non solo quando ciò accada a causa dell’impiego della decretazione d’urgenza, ma anche laddove le situazioni in parola siano provocate da una legge o da un decreto legislativo.
Chiarito ciò, non era stimata altresì fondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità del conflitto, avanzata dall’Avvocatura generale in quanto il ricorrente non avrebbe lamentato una lesione attuale, concreta e diretta delle proprie competenze, ma si sarebbe trattato solo di una possibile lettura della disposizione impugnata, derivandone la natura meramente ipotetica del conflitto, essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell’interesse a ricorrere e quindi dell’ammissibilità del conflitto, anche della sola minaccia di lesione, purché attuale e concreta, e non meramente congetturale (sentenze n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995) e ciò pure perché la sussistenza dell’interesse a ricorrere non è affatto impedita dalla circostanza che l’asserita violazione delle attribuzioni costituzionali del ricorrente provenga da una disposizione contenuta in un decreto legislativo posto che anche l’entrata in vigore di un atto normativo – per sua natura generale ed astratto – integra di per sé un comportamento idoneo a far insorgere nel ricorrente l’interesse alla eliminazione del pregiudizio che, a suo avviso, ne deriva alle proprie attribuzioni costituzionali, «e ciò senza che occorra attendere il concreto esercizio delle medesime in relazione ad un caso specifico (quasi a voler applicare anche nei giudizi sui conflitti il requisito della “rilevanza” tipico dei giudizi incidentali), condizione non richiesta dall’ordinamento per l’insorgere di un conflitto di attribuzione» (sentenza n. 420 del 1995; in senso analogo, ordinanza n. 521 del 2000).
Si stimava per di più infondata l’eccezione d’inammissibilità del conflitto per carenza di motivazione sostenuta sempre dall’Avvocatura generale dato che, per un verso, la Corte costituzionale, attraverso l’ordinanza n. 273 del 2017, aveva già ritenuto che nel presente caso esistesse materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla sua competenza, così implicitamente escludendo carenze di motivazione o di impostazione del ricorso, rilevabili d’ufficio, che avrebbero potuto inficiare in via preliminare l’ammissibilità del conflitto, per altro verso, l’infondatezza dell’eccezione conseguiva al rilievo che il ricorrente, pur riportando letteralmente ampi stralci della delibera ricordata, avesse affermato con chiarezza di farla propria evidenziando come, a suo avviso, l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 avrebbe pregiudicato la segretezza delle indagini, l’esercizio indipendente dell’azione penale e la diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità giudiziaria e per queste ragioni non si era in presenza di una mera argomentazione per relationem.
Si considerava viceversa fondata l’eccezione, formulata in subordine dall’Avvocatura generale, volta a sostenere l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, ossia la violazione dell’art. 76 Cost. ad opera dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016.
Si faceva presente prima di tutto come, in linea di principio, l’organo ricorrente per conflitto di attribuzione dovesse lamentare una diretta lesione delle sfere di competenze che la Costituzione gli riconosce, e tale esigenza è, se possibile, ancor più stringente laddove il conflitto tra poteri dello Stato abbia ad oggetto un atto avente valore legislativo e, in assenza di tale limitazione, il significato del ricorso al rimedio del conflitto tra poteri potrebbe risultarne alterato in misura significativa, fino a trasformarsi in un controllo di conformità di una disposizione legislativa alla luce di qualunque parametro costituzionale, controllo che investirebbe il potere dello Stato ricorrente di una inesistente funzione di vigilanza costituzionale e del compito di sollecitare a questo scopo l’intervento della Corte costituzionale e questa considerazione risulterebbe ancor più evidente proprio in riferimento all’art. 76 Cost., in virtù della natura logicamente preliminare dello scrutinio che lo assume a parametro, che involge il corretto esercizio della funzione legislativa (ex plurimis, sentenze n. 51 del 2017 e n. 250 del 2016).
In secondo luogo si metteva in risalto come, allegando la violazione dell’art. 76 Cost., nel ritenere, in particolare, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, che la disposizione impugnata per conflitto, contenuta in un decreto legislativo, non avrebbe trovato fondamento in alcun principio e criterio direttivo della legge n. 124 del 2015, costui sosteneva come l’art. 8, comma 1, lettera a), si sarebbe limitato ad autorizzare il Governo a razionalizzare e potenziare le attività di polizia, anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio, al fine di evitare sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei servizi strumentali e dunque, essendo tale previsione preordinata, in conformità alla ratio ispiratrice dell’intera legge di delega, ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione di uffici, servizi ed impiego del personale, ciò non sarebbe stato sufficiente, sempre ad avviso della Procura ricorrente, a giustificare l’introduzione della disposizione oggetto del conflitto.
Orbene, a fronte di tale approccio argomentativo, la Consulta evidenziava come il ricorrente, per vero, non ragionasse esplicitamente di una “ridondanza” dell’asserita violazione dei principi e dei criteri direttivi della delega sulle proprie attribuzioni costituzionali di cui agli artt. 109 e 112 Cost.: ma, anche a voler ritenere che tale asserzione fosse stata implicita nel ricorso, per la Corte era agevole osservare che la lamentata incisione sulle sue attribuzioni, da parte della disposizione impugnata per conflitto, sarebbe derivata non già dall’eventuale eccesso di delega imputabile all’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, bensì, in via diretta e immediata, dalla violazione dei parametri costituzionali, prima ricordati, pertinenti alle attribuzioni del pubblico ministero; in altri termini, sostiene sempre il giudice delle leggi, quand’anche conseguente ad un intervento che un potere dello Stato abbia compiuto in asserita carenza di potere (per avere adottato una disposizione di decreto legislativo reputata in eccesso di delega), il pregiudizio lamentato resta arrecato alla sola sfera di attribuzioni direttamente e specificamente riconosciuta dalla Costituzione al ricorrente mentre invece il ricorso al rimedio del conflitto è dato solo per la tutela di tali attribuzioni, alla luce dei parametri costituzionali che delimitano, tra i poteri in conflitto, il perimetro delle rispettive competenze e infatti, come trapela da una decisione della Corte citata nella pronuncia qui in commento, «il soggetto costituzionale confliggente può far valere nel conflitto esclusivamente le norme della Costituzione che ne configurano le attribuzioni» (sentenza n. 221 del 2002; in senso parzialmente analogo, sentenze n. 139 del 2001 e n. 457 del 1999).
Terminata la disamina delle questioni di ordine pregiudiziale, la Corte costituzionale affermava come nel merito il ricorso fosse fondato essendo stata lesa la sfera di attribuzioni costituzionali del ricorrente delineata dall’art. 109 Cost..
Si evidenziava innanzitutto come, nel caso di specie, le peculiarità della disposizione oggetto di conflitto pongono innanzitutto in discussione la diretta dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria atteso che l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 prevede, in capo alla polizia giudiziaria, obblighi informativi in deroga al segreto investigativo in favore di soggetti, estranei al perimetro della polizia giudiziaria stessa, che si identificano nei superiori gerarchici dei responsabili dei presidi di polizia di volta in volta interessati e proprio questo aspetto, ad avviso della Corte, pone in tensione il principio delineato dall’art. 109 Cost., con assorbimento, invece, delle censure relative all’asserita lesione dell’art. 112 Cost..
Si metteva in risalto oltre a ciò come la disposizione impugnata fosse inserita nel contesto di un atto normativo attraverso il quale il Governo, in attuazione della legge di delega n. 124 del 2015, persegue lo scopo di riorganizzare l’assetto delle Forze di polizia (ben cinque, due delle quali con competenze generali) e la loro presenza e attività sul territorio e, in estrema sintesi, per raggiungere tale scopo, il d.lgs. n. 177 del 2016 prevede una (relativa) specializzazione dei compiti per evitare sovrapposizione di competenze; una migliore dislocazione sul territorio, che impedisca duplicazioni e consenta un razionale impiego del personale; una gestione associata dei servizi strumentali e degli acquisti, a fini di risparmio; infine, l’assorbimento del Corpo forestale dello Stato nell’Arma dei carabinieri trattandosi di una riorganizzazione assai complessa, aveva inciso in profondità sulle strutture e sul personale di tutte le Forze di polizia, e il cui completamento comporta l’approvazione di vari provvedimenti di attuazione.
A sua volta l’impugnato art. 18, comma 5, del d.lgs. in questione è rubricato sotto il titolo «Disposizioni di coordinamento, transitorie e finali» il quale, dopo aver stabilito che alcuni dei provvedimenti attuativi devono essere adottati entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo e trovare applicazione dal 1° gennaio 2017, testualmente dispone quanto segue: «Entro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Dal canto suo il periodo citato, che coincide con la parte di disposizione oggetto di conflitto, non compariva nell’originario schema di decreto legislativo, predisposto dal Governo e sottoposto al parere del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari, dato che esso fu introdotto nel testo finale per dar seguito all’invito delle Commissioni I e IV della Camera dei deputati, formulato in occasione dell’espressione del parere sullo schema di decreto legislativo (analogo suggerimento non si trova, invece, nel parere del Senato della Repubblica) fermo restando che, in tale parere, approvato nella seduta del 12 luglio 2016, era stato suggerito al Governo, per «garantire un coordinamento anche informativo al fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni», di valutare «l’opportunità di applicare la previsione di cui all’articolo 237 del T.U.O.M. (Testo Unico delle disposizioni in materia di ordinamento militare) a tutte le Forze di polizia di cui al presente decreto».
Evidenziato ciò, una volta fatto presente che l’art. 237 del T.U.O.M., di rango regolamentare, prevede che, «[i]ndipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri», si osservava pertanto come nella impugnata disposizione del d.lgs. n. 177 del 2016 fosse stata quindi inserita una norma che – a prescindere da qualche difformità lessicale – riprendeva nella sostanza la formulazione già contenuta in una norma di carattere regolamentare, prevista per la sola Arma dei carabinieri, e quindi l’efficacia di una norma del genere è così estesa a tutte le Forze di polizia, e la sua forza diventa quella di una fonte primaria.
Proseguendo la disamina del ragionamento giuridico che connota la sentenza in commento, giova far presente come il giudice delle leggi abbia altresì dedotto che la previsione, a carico degli ufficiali di polizia giudiziaria, di un obbligo informativo ai propri superiori gerarchici in ordine all’inoltro di notizie di informative di reato all’autorità giudiziaria, poneva in primo luogo la questione del rapporto tra tale obbligo e la disciplina contenuta nell’art. 329 cod. proc. pen., in tema di segreto investigativo stante il fatto che, nell’attuale sistema del codice di rito, il segreto investigativo è un segreto “specifico”, cioè relativo a singoli atti d’indagine, non perpetuo ma, normalmente, limitato nel tempo e deve assistere gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari fermo restando che, tra gli atti coperti da tale forma di segreto rientra, indubbiamente, quello attraverso il quale, ai sensi dell’art. 347 cod. proc. pen., la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di un reato, ne riferisce senza ritardo e per iscritto al pubblico ministero.
Impedendo che sia conosciuto il contenuto di un atto d’indagine, il segreto investigativo, secondo la giurisprudenza della Consulta (sentenze n. 420 e n. 59 del 1995), e ad avviso della stessa Corte chiamata a decidere il caso in questione, si appalesa strumentale al più efficace esercizio dell’azione penale, al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini, innanzitutto a causa di un’anticipata conoscenza delle stesse da parte della persona indagata tenuto altresì conto del fatto che, da una parte, il collegamento del segreto con l’efficacia delle investigazioni è confermato dalla circostanza che viene riconosciuto al pubblico ministero l’ulteriore potere di vietare la pubblicazione di atti non più coperti dal segreto, in caso di specifiche esigenze attinenti all’attività d’indagine (art. 391-quinquies cod. proc. pen.), dall’altra, la giurisprudenza costituzionale (ancora sentenza n. 420 del 1995) ha già riconosciuto che «l’inderogabilità del segreto investigativo non riceve, in assoluto, “copertura” nell’art. 112 della Costituzione, nel senso che non qualsiasi deroga all’obbligo del segreto sugli atti d’indagine […] integra di per sé lesione dell’indicato precetto, ben potendo tale obbligo subire limitazioni od attenuazioni a tutela di altri interessi di rilievo costituzionale» visto che diverse norme del codice di procedura penale prevedono deroghe all’art. 329 cod. proc. pen, per finalità varie (si pensi, ad esempio, agli artt. 117, 118 e 118-bis cod. proc. pen.) fermo restando però che, secondo sempre quanto previsto dal codice di rito penale, ogni deroga al segreto investigativo avviene previo vaglio della stessa autorità giudiziaria competente, che ben può rigettare, motivandone le ragioni, una richiesta di atti e informazioni: ciò che, come si dirà meglio più avanti, la disposizione impugnata invece non prevede.
A sua volta, osserva sempre il giudice delle leggi, la prassi risulta peraltro aver fornito una modalità di composizione, in via interpretativa, del problematico rapporto tra tale complessiva disciplina del segreto investigativo e l’originaria disposizione, di rango solo regolamentare, contenuta nell’art. 237, comma 1, del d.P.R. n. 90 del 2010, relativo unicamente ai comandi dell’Arma dei carabinieri posto che, attraverso una serie di disposizioni a carattere interno all’Arma, è stato infatti stabilito – come emerge dalla ricordata delibera del Consiglio superiore della Magistratura del 15 giugno 2017 – che le segnalazioni ai superiori gerarchici debbano limitarsi a riportare gli elementi essenziali del fatto, escludendo qualsiasi aspetto di interesse investigativo e con l’osservanza degli obblighi di cui al cod. proc. pen. e delle relative norme di attuazione; si è trattato, d’altra parte, di un’interpretazione imposta dallo stesso sistema delle fonti giacché una disposizione di rango regolamentare non avrebbe mai potuto validamente derogare alla disciplina in tema di segreto investigativo, introdotta dall’art. 329 cod. proc. pen. con superiore forza di legge così come, l’espressione «indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale», attraverso un sia pur generoso ricorso alla natura polisensa dell’avverbio iniziale, era stata fin dall’origine intesa nel senso che tali obblighi devono essere “fatti salvi”; ed essendosi dunque esclusa, perché impedita dal rango della fonte, ogni deroga al segreto investigativo osservandosi al contempo come l’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010 fosse stato infine effettivamente applicato solo in vista di un coordinamento informativo a finalità organizzative.
Oltre a ciò, si faceva altresì presente come, anche dopo l’entrata in vigore della disposizione impugnata, il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, con nota del 13 marzo 2017, avesse chiarito che deve essere tenuta ferma la ricordata interpretazione del citato art. 237, con applicazione delle connesse istruzioni operative.
Orbene, ad avviso della Consulta, la trasposizione in fonte primaria di una norma analoga a quella di fonte regolamentare solleva all’evidenza una serie di questioni ulteriori, non foss’altro perché l’equiparazione di grado delle due fonti di disciplina, quella in tema di segreto investigativo e quella che prescrive obblighi informativi della polizia giudiziaria alla propria scala gerarchica, pone le norme da ciascuna rispettivamente contenuta in posizione potenzialmente antagonista, non escludendo, in principio, la conseguenza che il ricordato coordinamento informativo a finalità organizzative trasmodi in una forma di coordinamento investigativo alternativa a quello affidato al pubblico ministero, proprio perché condotto non già “fatti salvi” gli obblighi previsti dal codice di procedura penale, ma in deroga ad essi.
Ricalcato, dunque, ma solo in parte, sul ricordato art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, si evidenziava inoltre come l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 precisi che suo obbiettivo, in coerenza con il contenuto del decreto legislativo in cui viene inserito, è quello di «rafforzare gli interventi di razionalizzazione» nell’impiego delle diverse Forze di polizia sul territorio, per «evitare duplicazioni e sovrapposizioni» fermo restando che lo strumento da doversi utilizzare a questo scopo viene identificato in un «efficace e omogeneo coordinamento informativo», che richiede ai responsabili di ciascun presidio di polizia di trasmettere «alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Invece, per quel che riguarda il versante dell’attività di polizia, si denotava come la disposizione impugnata disciplinasse senza dubbio interessi meritevoli di tutela, così come lo sono, sul versante delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria, le esigenze relative all’efficace conduzione delle investigazioni e alla diretta disponibilità della polizia giudiziaria, e ciò perché il coordinamento informativo tra le diverse Forze di polizia e all’interno di ciascuna di esse, la più razionale dislocazione del personale e delle risorse strumentali sul territorio, in quanto destinate a favorire l’opera di prevenzione e repressione dei reati, e quindi la garanzia della sicurezza pubblica, sono esigenze di rango costituzionale proprio in quanto finalizzati alla garanzia della sicurezza pubblica, un razionale impiego e un’efficace dislocazione sul territorio degli apparati personali e strumentali delle Forze di polizia possono anche comportare la trasmissione di notizie relative alle indagini, ma va da sé che questa deve essere regolata secondo un attento e ragionevole bilanciamento tra interessi e principi potenzialmente confliggenti.
Posto ciò, i giudici di legittimità costituzionale mettevano in risalto come la verifica delle concrete modalità, attraverso le quali il legislatore ha realizzato il bilanciamento in parola, costringe a rilevare, innanzitutto, profili di significativa incongruità rispetto agli obbiettivi che la stessa disposizione in premessa espone rilevandosi a tal proposito come, in riferimento all’ultimo inciso dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, non fosse percorribile la via di un’interpretazione che legga l’espressione «indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale» nel senso che tali obblighi siano “fatti salvi”, ricorrendo alla stessa generosa lettura data, peraltro solo in sede amministrativa ed operativa, all’art. 237 d.P.R. n. 90 del 2010 in quanto ostava a tale via un evidente argomento letterale vale a dire il significato più comune e diffuso dell’avverbio «indipendentemente», subito percepibile dall’interprete, è quello che allude a una eccezione o deroga, al prescindere da qualcosa.
Orbene, osserva sempre la Corte al riguardo, il tenore letterale dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 è chiaro, così come chiara è la prospettazione del ricorrente, che domanda alla Consulta la difesa della propria sfera di attribuzioni assumendo, appunto, che la disposizione legislativa oggetto di conflitto quel significato derogatorio contenga e permetta, senza alcun vaglio preliminare affidato all’autorità giudiziaria che conduce le indagini mentre risulterebbe del resto singolare che il manifesto significato della disposizione, inteso concordemente in questo modo dalle stesse parti del giudizio (che pur ne fanno conseguire opposte valutazioni), venga piegato secondo ciò che una prassi operativa antiletterale ha dovuto escogitare allo scopo di evitare l’illegittimità di altra analoga fonte, peraltro di rango regolamentare.
Le criticità rilevate dalla Consulta in questa pronuncia non finivano però qui.
Si evidenziava difatti come, chiara nella sola introduzione di una deroga ad obblighi del codice di rito, la disposizione impugnata venisse reputata assai meno nelle altre parti del suo contenuto precettivo dato che essa si limita a indicare in termini di larga massima obbiettivi e contenuto dell’intervento normativo, che si avvale peraltro di una tecnica lessicale incerta e fonte di ambiguità, e prevede che le indispensabili precisazioni e dettagli siano contenute in apposite «istruzioni» adottate dal Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e dai vertici delle altre Forze di polizia (per ciò che concerne la Polizia di Stato, tali istruzioni sono state adottate in data 8 ottobre 2016, e ulteriormente precisate in data 10 novembre 2016; il Comando generale della Guardia di Finanza risulta aver proceduto con atto in data 13 marzo 2017, che si segnala per un esplicito riferimento alla necessità di tener conto del «dibattito istituzionale» originato dall’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016; il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, come già ricordato, ha confermato le istruzioni operative già impartite in relazione all’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010).
In altri termini, l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, così formulato, si riteneva frutto di un bilanciamento inadeguato fra esigenze, come detto, entrambe meritevoli di tutela e ciò perché: 1) apparivano a detta della Corte incongrue l’indeterminatezza e la genericità di vari aspetti del contenuto precettivo recato dalla disposizione, nonché la circostanza che esse siano da colmarsi attraverso l’adozione di istruzioni da parte dei vertici di ogni Forza di polizia mentre, al contrario, proprio una disposizione che intende introdurre, per finalità di coordinamento informativo e organizzativo, una deroga a obblighi previsti dal codice di procedura penale, posti a tutela del principio di segretezza delle investigazioni, deve specificare nel dettaglio i confini della deroga stessa; 2) la definizione del preciso perimetro dei confini di questa deroga è affidata a circolari interne, adottate dalle stesse amministrazioni interessate, coinvolgendo la specificazione di alcuni elementi essenziali dell’obbligo informativo posto a carico degli ufficiali di polizia giudiziaria e ciò accade per la stessa delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione della disposizione in esame, che si riferisce genericamente, da un lato, ai «responsabili di ciascun presidio di polizia interessato», e dall’altro alla «scala gerarchica» di riferimento di tali responsabili, senza ulteriori specificazioni ma con sicuro rinvio a soggetti che per definizione non rivestono la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria rilevandosi in particolare che, sotto il primo profilo, quello dei soggetti sui quali grava l’obbligo d’informazione, ciò ha determinato incertezze che hanno, ad esempio, indotto il Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza, in una corrispondenza intrattenuta con alcuni procuratori della Repubblica, a chiarire, con nota del 6 marzo 2017, peraltro senza alcun aggancio testuale nell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che l’obbligo informativo non varrebbe a carico dei componenti le sezioni di polizia giudiziaria istituite presso ogni procura della Repubblica mentre, in relazione al secondo aspetto, ossia quello dei beneficiari dell’obbligo, la disposizione rende del tutto probabile che notizie coperte dal segreto investigativo finiscano nella sfera di conoscenza di una platea ampia di soggetti che non hanno alcun titolo a rapportarsi con l’autorità giudiziaria concretamente competente sull’attività d’indagine né rileverebbe in senso contrario il fatto che essi sono tenuti a rispettare il segreto d’ufficio, giacché – a prescindere dal loro numero potenzialmente assai elevato, ciò che rende la riservatezza delle notizie illusoria – il nucleo del segreto d’indagine è stato ormai infranto, quanto meno a loro beneficio; 3) un medesimo sostanziale rinvio della definizione del perimetro applicativo della disposizione alle istruzioni impartite dai vertici delle Forze di polizia si verifica anche in relazione alla identificazione dell’ambito oggettivo di ciò che deve essere comunicato ai superiori: la locuzione utilizzata («notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria») lascia l’interprete nel dubbio se oggetto dell’obbligo di trasmissione sia l’informativa di reato, oppure solo la notizia relativa al suo inoltro, e se perciò le informazioni da comunicare debbano essere limitate a dati esteriori effettivamente utili al coordinamento informativo e organizzativo (numero degli indagati, tipologia di reati, complessità delle indagini), oppure debbano ricomprendere dati di interesse investigativo (ad esempio, il nome degli indagati o dei destinatari di attività d’intercettazione in corso, il contenuto di singoli atti investigativi, eccetera); 4) la stessa ampiezza complessiva delle informazioni da trasmettere fa sì che la disposizione impugnata non chiarisce se l’obbligo informativo riguardi tutte, indiscriminatamente, le notitiae criminis, ovvero solo una selezione delle più rilevanti tra di esse, lasciando anche qui spazio a istruzioni che mettono in risalto un’ampia discrezionalità degli ufficiali di polizia giudiziaria nella scelta di quanto effettivamente inoltrare al livello superiore oltre al fatto che non si comprende la sorte circa il destino e il trattamento di questa massa, potenzialmente assai ampia, di dati e informazioni personali, che per definizione rientrano, alla luce della disciplina vigente, tra i dati oggetto di particolarissime cautele in termini di conservazione, trattamento e, naturalmente, tutela della riservatezza; si tratta, infatti, di dati rientranti nel novero di quelli «giudiziari» protetti da una speciale disciplina, dettata dapprima dall’art. 4, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e, ora, dall’art. 10 del Regolamento (UE) n. 679/16 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 (regolamento generale sulla protezione dei dati); 5) l’incertezza normativa in ordine all’eventuale esaurirsi dell’obbligo d’informazione con la prima trasmissione dell’iniziale notizia di reato, oppure al suo estendersi (come esige esplicitamente la circolare del Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza prima ricordata), anche ai cosiddetti seguiti d’indagine in quanto rilevanti per l’esercizio dell’attività di raccordo informativo.
Ebbene, ad avviso della Corte, i dubbi e gli interrogativi suscitati dal tenore testuale dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 rafforzavano gli argomenti con i quali il Procuratore della Repubblica ricorrente lamentava la lesione, ad opera di tale disposizione, della propria sfera di attribuzioni delineata dall’art. 109 Cost. tenuto conto del fatto che la Consulta (sentenze n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963) aveva chiarito che l’art. 109 Cost., prevedendo che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, ha il preciso e univoco significato di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della seconda nei confronti della prima, escludendo interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, in modo che la direzione di queste ultime ne risulti effettivamente riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria medesima e sua volta tale rapporto di subordinazione funzionale, se non collide con l’organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo (secondo la logica della duplice soggezione, che lo stesso art. 109 Cost. delinea: sentenza n. 394 del 1998), non ammette invece che si sviluppino, foss’anche per legittime esigenze informative ed organizzative, forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dal pubblico ministero competente.
A fronte di ciò, la Consulta osservava come le ambiguità testuali disseminate, sotto vari profili, nella disposizione impugnata, non escludessero affatto che gli obblighi d’informazione nei confronti dei superiori gerarchici, alla luce dell’autorizzata deroga al rispetto degli obblighi previsti dal codice di procedura penale a tutela del segreto investigativo, finissero invece per concentrare presso soggetti posti ai vertici delle Forze di polizia una notevole quantità di dati e informazioni di significato investigativo, ultronei rispetto alle necessità di coordinamento e di organizzazione e ciò anche perché tali soggetti non rivestono, come suesposto prima, la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 57 cod. proc. pen., ma detengono, del tutto legittimamente, un potere di controllo e condizionamento nei confronti degli ufficiali di polizia giudiziaria, derivante dallo stesso modello organizzativo che l’art. 109 Cost. ha accolto.
Tal che se ne faceva conseguire come, proprio per questa ragione, non fosse astratto il pericolo che ne sarebbero potute risultare interferenze nella diretta conduzione delle indagini da parte dell’autorità giudiziaria, in lesione, innanzitutto, dell’art. 109 Cost. senza tener conto anche del fatto che la comunicazione ai superiori gerarchici di informazioni di significato investigativo, indipendentemente da un vaglio preliminare affidato al prudente apprezzamento dell’autorità giudiziaria, carica di significati indebiti la stessa dipendenza burocratica degli appartenenti alla polizia giudiziaria rispetto a tali loro superiori, rischiando per converso di indebolirne la dipendenza funzionale rispetto al pubblico ministero, con elusione del delicato equilibrio scolpito nella disposizione costituzionale in questione.
Invece, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionali, le importanti esigenze di coordinamento informativo e di razionale organizzazione e dislocazione sul territorio delle Forze di polizia, in funzione di tutela della sicurezza, meritavano una disciplina attenta alla protezione di tutti gli interessi potenzialmente confliggenti, non già una regolamentazione dai tratti incerti e palesemente sproporzionati all’obbiettivo perseguito mentre all’opposto il coordinamento informativo e quello organizzativo non coincidono con quello investigativo trattandosi di funzioni diverse, che la legislazione ordinaria non può confondere o sovrapporre, a prezzo di violare il sistema costituzionale, dal quale si deduce che tali funzioni devono restar disciplinate secondo logiche e competenze distinte anche se vi possono ben essere, tra di esse, inevitabili e finanche utili connessioni, allo scopo di consentire il migliore utilizzo, e la più razionale dislocazione, delle Forze di polizia sul territorio ma solo in tali casi, se lo richiedono siffatte esigenze di coordinamento informativo e organizzativo, può essere prevista dalla legge la trasmissione di notizie relative ad atti del procedimento essendo però necessario rispettare il delicato equilibrio delineato dall’art. 109 Cost. ossia che deve essere in ogni caso riconosciuto all’autorità giudiziaria il potere di stabilire il quando, il quomodo e il quantum delle notizie riferibili.
Pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si giungeva a postulare come i complessivi difetti, evidenziati in questa pronuncia, della disposizione impugnata determinassero la trasformazione di un legittimo coordinamento informativo e organizzativo in una forma indebita di coordinamento investigativo in lesione delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria ribadendosi come invece non spettasse al Governo della Repubblica approvare una disciplina come quella contenuta nel secondo periodo dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che andava pertanto annullata.
La Corte costituzionale, di conseguenza, addiveniva a dichiarare come non spettasse al Governo della Repubblica adottare l’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», nella parte in cui prevede che «[e]ntro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale», e conseguentemente annullava tale disposizione nella parte indicata.
Conclusioni
La sentenza in esame è sicuramente condivisibile.
In detta decisione, si evidenzia chiaramente la necessità che sia stabilita di norma la differenza tra gli organi dello Stato deputati a svolgere le indagini, e coloro che, sempre in ambito statuale, svolgono un’attività di coordinamento informativo e di razionale organizzazione e dislocazione sul territorio delle Forze di polizia, in funzione di tutela della sicurezza pur riconoscendosi al contempo la possibilità di inevitabili e finanche utili connessioni, allo scopo di consentire il migliore utilizzo, e la più razionale dislocazione, delle Forze di polizia sul territorio.
Tali connessioni, però, vengono riconosciute come configurabili nella sentenza in commento solo per esigenze di coordinamento informativo e organizzativo.
In tale ottica giuridica, dunque, il giudice delle legge ammette che sia prevista dalla legge la trasmissione di notizie relative ad atti del procedimento purchè ciò avvenga nel rispetto di quanto previsto dall’art. 109 Cost. (“L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”) e sia dunque demandata all’autorità giudiziaria il potere di stabilire il quando, il quomodo e il quantum delle notizie riferibili; modo questo che, ad avviso della Corte costituzionale, e condiviso dallo scrivente, consente di far osservare il delicato equilibrio delineato dal precetto costituzionale appena citato.
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