1.La vicenda processuale. La decisione del Tribunale
L’imputato condivideva sul proprio profilo facebook un articolo di stampa, già pubblicato alcuni anni addietro su quotidiani aventi tiratura nazionale e fin allora disponibile sui relativi siti.
Tale articolo narrava di un’attività d’indagine avviata dai Carabinieri nei confronti di un professionista del luogo a seguito di una denuncia sporta da una coppia di anziani per un episodio di truffa asseritamente perpetrato in loro danno.
Tratto a giudizio per rispondere di quest’ultimo reato l’interessato veniva assolto.
Non richiedeva, tuttavia, l’eliminazione dal web né la rettifica degli articoli che lo avevano riguardato durante la precedente fase delle indagini preliminari.
Appreso, però, che l’odierno imputato aveva ulteriormente “condiviso” queste ultime notizie attraverso il proprio profilo facebook, si querelava per il reato di diffamazione, lamentando la lesione alla reputazione conseguente alla diffusione di una vicenda giudiziaria ormai superata dall’epilogo del processo instauratosi a suo carico.
Con la sentenza in commento il Tribunale di Bari dichiarava il reato di diffamazione insussistente, dando rilievo – nel corpus motivazionale – ad una serie di elementi, fra i quali meritano particolare attenzione i riflessi giuridici del mancato esercizio del cosiddetto “diritto all’oblio”.
-
L’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite della Cassazione, sez. III civile, 5.11.2018, n. 28084
Il diritto all’oblio può essere definito come l’interesse del soggetto alla non reiterata pubblicazione di notizie che lo riguardino, se non siano contestualizzate e aggiornate. Esso si ricollega inevitabilmente al diritto di cronaca e ne costituisce limite e fattore di bilanciamento.
L’oblio viene definito, altresì, come diritto a essere dimenticati, ovvero a che non permanga il ricordo di specifici fatti, pregiudizievoli per l’immagine pubblica della persona interessata.
Il fondamento giuridico di tale diritto può rinvenirsi in diverse fonti dell’ordinamento, interno e sovranazionale: in primis l’art. 2 Cost., specie ove inteso come clausola generale attraverso la quale garantire la copertura a livello costituzionale di diritti della personalità non espressamente tutelati da altre norme costituzionali.
L’esposizione perdurante o reiterata di un determinato soggetto al pregiudizio che la pubblicazione di una certa notizia gli crei finisce per ledere la sfera privata del predetto, come sottolineato, altresì, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza C- 131/12 del 13.05.2014 che ha sancito il riconoscimento anche a livello comunitario del diritto all’oblio.
Concettualmente, quest’ultimo si distingue ed è dotato di autonomia rispetto alla differente nozione di riservatezza, intesa come protezione dell’intimità della propria vita privata e familiare da ingerenze altrui, in quanto la tutela del diritto all’oblio viene in luce allorché una determinata notizia sia già stata diffusa, anche in forma telematica, e divulgata al pubblico, divenendo da fatto privato accadimento di rilevanza pubblicistica, giacché sia sorretto da un interesse tale che ne giustifichi la diffusione.
La riproposizione di notizie che, anche a causa del trascorrere del fattore tempo, non siano più di attualità e si rivelino comunque pregiudizievoli per il soggetto interessato, può essere in astratto suscettibile di lederne la reputazione, intesa come stima di cui il predetto gode tra i propri consociati e l’onore, qualificabile alla stregua di opinione e percezione che l’individuo nutre di se stesso.
Tale evento si può verificare, siccome esemplarmente dimostra il caso per cui è la sentenza in commento, dal momento che determinate informazioni, a cagione dell’evoluzione tecnologica e del progresso scientifico, risultano di semplice e agevole reperimento per l’utenza, attraverso l’uso dei motori di ricerca più noti, ma anche del fatto che la diffusione di determinati dati e informazioni avviene, oggi, molto più rapidamente: una testata giornalistica on line risulta immediatamente consultabile, in altri termini, da un numero potenzialmente indefinito di persone.
La giustificazione di tale divulgazione si rinviene, in origine, nel diritto di cronaca, cui corrisponde l’esigenza della collettività ad essere informata in maniera veridica e completa circa importanti accadimenti, come la commissione di un illecito penale che presuppone la violazione di norme generalmente poste a presidio di interessi pubblicistici.
A seguito del decorrere del tempo, tuttavia, specie se si tratta di un lasso considerevole, l’interesse pubblico alla notizia potrebbe affievolirsi, sino a scomparire del tutto, riportando il fatto nella propria originaria dimensione “privata” (cfr., in tal senso, Cass. Civ., sent. n. 13161 del 24.06.2016); in questa considerazione logica si rinviene la ratio del diritto all’oblio che, in concreto, può realizzarsi in maniera diversa e con forme di tutela crescente: non necessariamente mediante l’eliminazione della notizia ma anche attraverso la sua deindicizzazione. Quest’ultima non renderà più possibile a mezzo di una ricerca telematica rinvenire determinati link e riferimenti ed è stata di recente “avallata” come concreta modalità di tutela del diritto dal Garante per la protezione dei dati personali che con provvedimento del 21.12.2017 ha parzialmente accolto un ricorso e stabilito la rimozione degli URL già indicizzati fra i risultati di ricerca ottenuti digitando il nome e il cognome del ricorrente.
Il Regolamento U.E. 2016-679 dedica un apposito articolo, l’art. 17, al diritto all’oblio, attribuendo al soggetto interessato, alla ricorrenza di determinati presupposti ivi elencati (tra cui la mancata attualità e necessarietà delle informazioni rispetto alla finalità per cui esse erano state trattate, la revoca del consenso in precedenza prestato, l’opposizione al trattamento o la sua illiceità, la necessità di adempiere un obbligo legale), il diritto alla cancellazione dei dati personali che lo riguardino con conseguente obbligo a carico del titolare del trattamento di cancellazione dei dati in esame.
La questione, anche in considerazione del proliferare della sua ricorrenza in conseguenza del continuo sviluppo tecnico dei mezzi d’informazione di massa, ha costituito oggetto di interesse sia per la Corte di Strasburgo che per la Suprema Corte di Cassazione.
La prima ha trattato la problematica con riferimento all’art. 8 CEDU, che – come noto – tutela il rispetto della vita privata e familiare, ed all’art. 10 che, invece, garantisce il diritto alla libertà di espressione(cfr. Corte EDU, sez. V, sent. n. 71233-13 del 19.10.2017): se è vero, infatti, che non dovranno essere effettuate insinuazioni sulla vita privata di un determinato individuo che non si rivelino strettamente necessarie a soddisfare l’esigenza della collettività all’informazione in ordine a un determinato accadimento, occorre considerare il valore, nonché il diritto a conoscere l’evoluzione di certi fatti che fanno parte della storia attuale, contemporanea e non devono essere rimossi. Ai fini dell’effettuazione di un corretto bilanciamento di interessi, si dovrà pertanto tenere conto della situazione concreta, onde evitare inutili astrattismi, del grado di celebrità della persona, del metodo utilizzato, della veridicità della notizia, delle conseguenze che derivino dalla sua diffusione.
In particolare, per la giurisprudenza di Strasburgo, in presenza di procedimenti e di condanne penali che riguardino fatti rilevanti, di interesse pubblico, come episodi di corruzione di personaggi di un certo rilievo, o ancor più, se si tratti di avvenimenti particolarmente gravi ed efferati, si deve ritenere che l’interesse pubblico alla notizia non possa mai affievolirsi e che, di conseguenza, ne residui l’indubbia attualità unitamente al diritto dei singoli ad informarsi ed effettuare una adeguata e completa ricostruzione dal punto di vista storico.
In tali situazioni, dunque, il diritto all’oblio non potrà essere riconosciuto, come anche nel caso in cui siano stati gli stessi interessati a trasmettere alla stampa determinata documentazione ed a rendere pubbliche certe notizie (cfr., all’uopo, Corte EDU, sent. n. 60798-65599/10 del 28.06.2018).
Di recente la problematica è stata diffusamente trattata anche dalla Corte di Cassazione, sezione III civile, che con ordinanza n. 28084 del 5.11.2018 ha trasmesso “gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima, (giacché ritenuta) di particolare importanza”.
La motivazione del suddetto provvedimento, di estrema attualità e rilevanza ai fini di questa nota, merita di essere qui pressoché integralmente trascritta.
Per la Suprema Corte “l’esame dei motivi sottende la ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale, nell’ordinamento interno e in quello sovranazionale, in materia di bilanciamento del diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e del diritto all’oblio, posto a tutela della riservatezza della persona.
Tematica questa che ha formato oggetto, diretto o indiretto, di alcune decisioni della Prima e della Terza Sezione di questa Corte, di seguito menzionate, che costituiscono il primo passo per una compiuta riconsiderazione sistematica che tenga conto delle diverse interrelazioni in materia.
Nel caso sotteso al ricorso, dunque, non viene in rilievo la problematica del diritto all’oblio in relazione: alla realizzazione di archivi di notizie, digitalizzati e resi fruibili on line; alla ristampa di un giornale del passato (come talvolta avviene in occasione degli anniversari delle fondazioni); alla memorizzazione di dati nei motori di ricerca e nelle c.d. reti sociali. Ipotesi queste, di crescente interesse nella vita sociale, ma sulle quali non si è ancora formata una compiuta elaborazione nella giurisprudenza di legittimità.
Il diritto di cronaca, secondo l’unanime insegnamento della giurisprudenza di legittimità, è un diritto pubblico soggettivo, da comprendersi in quello più ampio concernente la libera manifestazione di pensiero e di stampa, sancito dall’art. 21 Cost., e consiste nel potere-dovere, conferito al giornalista, di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita sociale. E sono decorsi ormai oltre 40 anni da quando la Corte costituzionale (cfr. sent. 30 maggio 1977, n. 94) ha statuito che: “i grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di interesse pubblico”.
3.Il diritto di cronaca, tuttavia, non può essere considerato senza limiti. Tali limiti sono stati riassunti in due sentenze che costituiscono ancora oggi imprescindibile punto di riferimento nella materia in esame: la sentenza n. 8959 del 30/06/1984 delle Sezioni Unite Penali e la sentenza n. 5259 del 18/10/1984 della Prima Sezione Civile di questa Corte.
In particolare, in quest’ultima è stato affermato che il diritto di cronaca “è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni:
a) utilità sociale dell’informazione;
b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato;
c) forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti. La forma della critica non è civile quando non è improntata a leale chiarezza, quando cioè il giornalista ricorre al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni. In tali ipotesi l’esercizio del diritto di stampa può costituire illecito civile anche ove non costituisca reato” (Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984, Rv. 436989 – 01).
Peraltro, giurisprudenza successiva (cfr., tra le tante, Sez. III, sent. n. 8963 del 29/8/1990, sent. n. 23366 del 15/12/2004 e sent. n. 2271 del 4/2/2005) ha avuto modo di precisare che i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti, tra loro strettamente connessi, in composizione variabile a seconda che si eserciti un diritto di cronaca o un diritto di critica giornalistica.
Invero, nella cronaca, assume carattere determinante la verità dei fatti narrati, mentre, nella critica, è centrale la rilevanza sociale dell’argomento trattato e la correttezza delle espressioni utilizzate.
Ciò in quanto il diritto di critica si distingue dal diritto di cronaca per il fatto di consistere nell’espressione di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica, ma che ha, per sua natura, carattere congetturale e soggettivo.
E la giurisprudenza di legittimità penale ha di recente chiarito anche la differenza tra cronaca e storia (Sez. 1, n. 13941 del 08/01/2015 – dep. 02/04/2015, P.C. in proc. Ciconte, Rv. 26306401): la prima presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione e, se si riconosce l’interesse pubblico ad una notizia tempestiva, non può non ammettersi che l’esigenza di velocità possa comportare un qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica sulla verità della notizia e sulla bontà della fonte dalla quale si è appresa. La storia, invece, ha ad oggetto fatti o comportamenti distanti nel tempo e, quanto più sono lontani nel tempo i fatti narrati, tanto meno si giustifica il menzionato sacrificio dell’accuratezza della verifica (per quanto nessuna storia raccontata può essere del tutto imparziale, essendo operazione soggettiva anche la semplice operazione di connessione ei dati) (v. pure Cass. 6784/16).
Orbene, i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti che – nel consentire la legittima intrusione nella vita privata altrui in nome del superiore interesse pubblico all’informazione – assumono rilevanza: non soltanto come fattori legittimanti l’iniziale diffusione della notizia, ma anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l’antigiuridicità delle successive rievocazioni.
Dunque, l’esercizio del diritto all’oblio è collegato, in coppia dialettica, al diritto di cronaca. L’interesse del singolo all’anonimato assurge a “diritto” esclusivamente allorquando: non vi sia più un’apprezzabile utilità sociale ad informare il pubblico; ovvero la notizia sia diventata “falsa” in quanto non aggiornata o, infine, quando l’esposizione dei fatti non sia stata commisurata all’esigenza informativa ed abbia recato un vulnus alla dignità dell’interessato.
In coerenza con le suddette premesse concettuali, proprio questa Sezione, nell’ormai lontano 1998, ha esplicitamente riconosciuto il diritto all’oblio, qualificandolo come “…giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” (Sez. 3, Sentenza n. 3679 del 09/04/1998, Rv. 514405 – 01). In detta pronuncia è stato precisato che, per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, non è sufficiente la sussistenza del requisito dell’interesse pubblico circa il fatto narrato, ma è necessaria anche l’attualità della notizia.
E sempre questa Sezione, più di recente:
-in riferimento alla trasposizione on line degli archivi storici delle maggiori testate giornalistiche ed alla digitalizzazione di banche dati istituite per finalità di ricerca (Sentenza n. 5525 del 05/04/2012, Rv. 622169 – 01), ha riconosciuto in capo al soggetto, titolare dei dati personali, il diritto alla contestualizzazione e all’aggiornamento della notizia, in relazione alla finalità di trattamento dei dati, in quanto “la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera” e, dunque, astrattamente idonea a ledere l’identità personale del soggetto interessato; alla luce del principio di verità e di correttezza, è stato così ampliato il concetto di oblio: quest’ultimo può essere considerato non soltanto in senso negativo e passivo, come diritto (per così dire statico) alla cancellazione dei propri dati, ma anche in senso positivo ed attivo, come diritto (per così dire dinamico) volto alla contestualizzazione, all’aggiornamento ovvero all’integrazione dei dati contenuti nell’articolo, per mezzo di un collegamento “ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l’evoluzione della vicenda”;
-in tema di diffamazione a mezzo stampa (Sentenza n. 16111 del 26/06/2013, Rv. 626952 – 01), ha affermato il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali non siano pubblicamente rievocate trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza.
Del delicato rapporto tra diritto di cronaca e diritto all’oblio ha avuto modo di occuparsi di recente anche la Prima Sezione Civile di questa Corte che:
-in relazione all’archiviazione on-line delle notizie effettuata dalle testate giornalistiche, con sentenza n. 13161 del 24 giugno 2016 (Rv. 640218 – 01), alla luce della sentenza della Corte di giustizia del 13 maggio 2014, ha riconosciuto in presenza di determinate condizioni, la prevalenza del diritto all’oblio rispetto al diritto all’informazione. In particolare – è stato precisato – la persistenza, in un giornale on-line, di una risalente notizia di cronaca “appare, per l’oggettiva e prevalente componente divulgativa, esorbitare dal mero ambito del lecito trattamento d’archiviazione o memorizzazione on-line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali” configurandosi come violazione del diritto all’oblio, quando, in ragione del tempo trascorso “doveva reputarsi recessiva l’esigenza informativa e conoscitiva dei lettori cui la divulgazione presiedeva”;
-e, in tema di trattamento dei dati personali, con ordinanza n. 19761 del 09/08/2017 (Rv. 645195 – 03), ha affermato che: ai sensi dell’art. 8 della CEDU nonché degli artt. 7 e 8 della c.d. Carta di Nizza, l’interessato non ha diritto ad ottenere la cancellazione dei dati iscritti in un pubblico registro ed è legittima la loro conservazione quando essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Le linee direttrici del delicato bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio sono state di recente ripercorse in un ulteriore importante arresto sempre dalla Sezione Prima di questa Corte (cfr. Ordinanza n. 6919 del 20/03/2018, Rv. 647763 – 01), la quale – dopo aver richiamato i principali precedenti in materia della giurisprudenza di legittimità, della Corte di Giustizia UE (in particolare, nella sentenza 13/5/2014, C-131/12, Google Spain; nonché nella sentenza 9/3/2017, C-398, Manni) e della Corte EDU (in particolare, nella sentenza 19/10/2017, Fuschsmann c/o Germania); nonché il “reticolo di norme nazionali (artt. 2 Cost., 10 c.c., 97 legge n. 633 del 1941) ed Europee (artt. 8 e 10 comma 2 CEDU, 7 e 8 della Carta di Nizza)” dal richiamato quadro normativo e giurisprudenziale ha desunto che:
“il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti:
1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico;
2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali);
3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese;
4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione;
5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico”.
Osserva il Collegio che dalla lettura della menzionata ordinanza n. 6919 del 20/03/2018 (e dalla giurisprudenza delle Corti Europee) non è dato evincere se i presupposti indicati – peraltro di diversa natura, essendo i primi tre una specificazione del requisito della pertinenza, il quarto di carattere riepilogativo ed il quinto di ordine procedurale – siano richiesti in via concorrente ovvero, come sembra a questo Collegio, in via alternativa. Invero, ove mai si ritenesse che tutti gli indicati presupposti debbano essere compresenti, in considerazione dell’improbabilità della circostanza il diritto all’oblio sarebbe destinato a prevalere sul diritto di cronaca soltanto in casi davvero residuali.
D’altra parte, successivamente alla menzionata ordinanza (e precisamente lo scorso 25 maggio 2018), è entrato in vigore il Regolamento UE n. 2016/679, sulla protezione dei dati “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” (c.d. RGPD), che è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Europea lo scorso 4 maggio 2018 e che regola anche il diritto all’oblio.
In particolare, l’art. 17 di detto regolamento euro-unitario:
– al comma 1, prevede che l’interessato ha il diritto di richiedere la rimozione dei dati personali che lo riguardano, in particolare in relazione a dati personali resi pubblici quando l’interessato era un minore, se sussiste uno dei seguenti motivi: “a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;
c) l’interessato si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2;
d) i dati personali sono stati trattati illecitamente;
e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;
f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione di cui all’articolo 8, paragrafo 1″;
– e, al successivo comma 3, precisa i casi in cui il trattamento dei dati è necessario:
“a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione;
- b) per l’adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
- c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell’articolo 9, paragrafo 3;
- d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;
e) per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”. - Il bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio incide sul modo di intendere la democrazia nella nostra attuale società civile, che, da un lato fa del pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica un suo pilastro fondamentale; e, dall’altro, non può prescindere dalla tutela della personalità della singola persona umana nelle sue diverse espressioni.
Sembra al Collegio che, soltanto partendo dal caso concreto, sia possibile definire: quando possa effettivamente configurarsi un interesse pubblico alla conoscenza di fatti (tali non essendo le insinuazioni di dubbi e le voci incontrollate); quando, nonostante il tempo trascorso dai fatti, detto interesse possa essere considerato attuale; in che termini, sulla sussistenza di detto interesse, possa incidere la gravità e la rilevanza penale del fatto, la completezza (o la incompletezza) della notizia del fatto, la finalità di trattamento del dato (se, ad es., per fini di ricerca scientifica o storica, per fini statistici, per fini di informazione o per altri motivi, ad es. di marketing), la notorietà (o la mancanza di notorietà) della persona interessata, la chiarezza della forma espositiva utilizzata (anche evitando l’accorpamento e l’accostamento di notizie false a notizie vere).
Il delicato assetto dei rapporti tra diritto all’oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero assume così – alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale ed Europeo, il primo dei quali come di recente innovato, a garanzia del generale principio della certezza del diritto – i contorni della questione di massima di particolare importanza, parendo ormai indifferibile l’individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sé relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, precisare in che termini sussiste l’interesse pubblico a che vicende personali siano oggetto di (ri)pubblicazione, facendo così recedere il diritto all’oblio dell’interessato in favore del diritto di cronaca.” (Cass., sez. III civile, ord. 5.11.2018, n. 28084).
3.Riflessi del mancato esercizio del diritto all’oblio sul reato di diffamazione
La questione relativa alla titolarità ed ai limiti del cosiddetto diritto all’oblio, la rilevanza della sentenza in commento risiede nel far derivare – in negativo – l’insussistenza dell’animus diffamandi dal mancato esercizio del predetto diritto: difetta di animus diffamandi la condotta dell’imputato che, in mancanza di esercizio del diritto all’oblio da parte del querelante, si limita a condividere sul suo profilo facebook una notizia già resa pubblica e disponibile sul web da testate giornalistiche nazionali.
Il principio, ancorché condivisibile, costituisce un novum giurisprudenziale.
In precedenza, infatti, la giurisprudenza si era occupata della “riproduzione su uno o più stampati di un articolo diffamatorio già pubblicato su altri stampati” per affermare che: “non costituisce una modalità esecutiva di un unico reato di diffamazione già consumato con la prima pubblicazione, bensì integra una condotta autonoma sul piano oggettivo, ed eventualmente anche su quello soggettivo, rispetto a quella precedente” (Cass., sez. I, 24.2.1976 – 13.5.1976, n. 317; in tal senso cfr. anche Cass., sez. V, 4.12.2012 – 5.2.2013, n. 5781[1]).
Aveva inoltre statuito che: “In tema di diffamazione a mezzo della stampa, al giornalista che intenda dar conto di una vicenda la quale implichi risvolti giudiziari a distanza di tempo dall’epoca di acquisizione della notizia, incombe l’obbligo stringente, in ragione del naturale e niente affatto prevedibile percorso processuale della vicenda, di completare e quindi “aggiornare” la verifica di fondatezza della notizia nel momento diffusivo, utilizzando le pregresse fonti normative o qualunque altra idonea disponibile. Sotto tal profilo, ogni individuo coinvolto in indagini di natura penale, è titolare di un interesse primario a che, caduta ogni ragione di “sospetto”, la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell’iniziale coinvolgimento ed ignorino, invece, l’esito positivo delle indagini stesse” (Cass., sez. V, 6.4.1999 – 27.4.1999, n. 5356).
Invero, “il concetto di cronaca presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, così che l’esigenza della velocità può comportare un sacrificio, in nome dell’interesse alla notizia, dell’accuratezza della verifica della sua verità e della bontà della fonte. Ciò per contro non deve accadere quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere una attenta verifica della fonte proprio perché l’accuratezza della ricostruzione corrisponde, in tal caso, all’interesse del pubblico” (Cass., sez. V, 15.12.2005 – 7.3.2006, n. 8042).
Tutti gli arresti giurisprudenziali testé ricordati riguardano, tuttavia, l’ipotesi della successiva riproposizione, su carta stampata, di notizie risalenti nel tempo e suscettibili, per genesi o vicende sopravvenute, di ledere la reputazione delle persone coinvolte.
Tale operazione, per come si svolge, ovvero per il suo dipanarsi attraverso la scrittura di un (nuovo) articolo giornalistico, rende in effetti concretamente esigibile quella “attenta verifica della verità e bontà della fonte”, anche “in ragione del naturale e niente affatto prevedibile percorso processuale della vicenda”, richiesta dalla giurisprudenza di legittimità.
Senza dire che, in relazione a questo caso, non appare neanche esercitabile di fatto il “diritto all’oblio” dell’interessato: una volta pubblicata su carta stampata, infatti, una notizia non sarà più suscettibile di eliminazione, men che meno a distanza di tempo.
Il fatto riguardato dalla sentenza in commento, invece, si atteggia in maniera profondamente diversa: la pubblicazione su un sito web di una notizia di cronaca giudiziaria rende concretamente esercitabile il “diritto all’oblio” della persona coinvolta nelle indagini in seguito al (positivo) esito processuale della vicenda; la mera “condivisione” della notizia, di contro, non consiste in alcuna impegnativa riscrittura della stessa ma si esaurisce in un semplice click, atto a visualizzare all’istante il relativo link sul social network prescelto.
In questo caso, la soluzione di collegare all’indiscussa titolarità di un “diritto” all’oblio anche una “responsabilità” del titolare per l’ipotesi di suo mancato esercizio (fino ad escludere l’animus diffamandi nella condotta di chi si sia limitato a condividere sul suo profilo facebook una notizia già resa pubblica e disponibile sul web da testate giornalistiche, benché senza sottoporla ad alcuno scrutinio in ordine al suo successivo accertamento giudiziale) centra un giusto punto di equilibrio fra tensioni dirette alla tutela della reputazione e la specificità delle tecnologie di circolazione delle informazioni oggi messe a disposizione dei più dall’evoluzione telematica.
Volume consigliato
Note
[1] “In tema di diffamazione a mezzo stampa, qualora si verifichino successive edizioni di un libro, recanti riferimenti diffamatori, ciascuna di esse assume carattere autonomo, siccome dotata di propria, se non di rinnovata valenza lesiva, essendo, per sua natura, diretta ad una platea sempre nuova di lettori, ovviamente diversa da quella che ha letto la prima edizione. Ne consegue che, in tal caso, le distinte fattispecie di reato, integrate dalle successive edizioni del testo e suscettibili in astratto di essere avvinte dal vincolo della continuazione, mantengono la loro autonomia ai fini del computo della prescrizione, il cui termine può ben essere decorso per taluna di esse con conseguente estinzione dei relativi reati ed, invece, tuttora in corso per le edizioni più recenti”
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento